Toscana

La crisi morde la Toscana

di Omar Ottonelli

Nel vasto contesto interessato dalla crisi economica contemporanea, la Toscana non fa eccezione. È questa, in sintesi, la sensazione che si ha scorrendo il rapporto annuale su La situazione economica della Toscana, col quale Irpet (l’Istituto Regionale Programmazione Economica della Toscana) e Unioncamere Toscana hanno fotografato lo stato dell’economia regionale nell’anno 2011 e hanno fornito le loro previsioni per il biennio 2012-13. Il documento, presentato lo scorso 5 giugno, restituisce infatti l’immagine di una regione in affanno e dal futuro incerto, sul quale grava la minaccia di una recessione dagli esiti non facilmente prevedibili.

Il rapporto evidenzia come il PIL regionale si sia bruscamente ridotto a partire dal quarto trimestre 2011, segnando a fine anno un modesto +0,2% (+0,4% il dato nazionale). A impedire risultati ben peggiori è intervenuta la crescita dell’export verso l’estero (+6,4%; invariato quello verso il resto d’Italia), mentre più misurato è stato l’aumento dei consumi interni (+0,6%); si è invece ridotta la spesa della pubblica amministrazione (-0,8%) e, ciò che più preoccupa in prospettiva futura, si è contratto nettamente l’acquisto di beni di investimento (-3,4%, ben peggiore del -1,9% nazionale).

In termini settoriali, l’industria del mattone continua ad essere la più penalizzata (-5,3% nel 2011, -19,4% dal 2006), mentre proseguono la buona performance l’high tech e il turismo (quello straniero registra una crescita continua: si è passati dai 16 milioni di presenze del 2004 ai 22 del 2011); tiene l’agricoltura. Complice la maggior flessibilità del mercato del lavoro e l’azione degli ammortizzatori sociali, infine, la disoccupazione è salita in modo piuttosto contenuto (dal 6,2% del 2010 si è passati al 6,6%; era il 4,7% nel 2007), mentre continuano a preoccupare le problematiche legate alla gestione della liquidità delle imprese e all’accesso al credito.

Ad allarmare, tuttavia, sono le previsioni per l’anno corrente. Si stima una discesa del PIL dell’1,7%, con un peggioramento di tutte le voci rispetto al 2011: -2,8% i consumi interni, -1,7% quelli della pubblica amministrazione, -1,7 l’export verso l’Italia, addirittura -4,5% gli investimenti; terrà soltanto l’export verso l’estero (+1,5%). Si dovrà attendere il 2013 per intravvedere qualche spiraglio di recupero: si stima un aumento di mezzo punto del PIL, trainato dal rilancio degli investimenti e dal commercio estero. Si tratta, tuttavia, di previsioni contraddistinte da una forte incertezza, dovuta alle incognite che gravano sulle sorti della moneta unica, sulla crisi del debito nazionale, sulla regolamentazione dei mercati finanziari e sulle riforme attese a livello centrale.

Sul piano della distribuzione dei redditi, la crisi si è tradotta in una contrazione del potere di acquisto che ha interessato soprattutto i giovani (-9%; marginalmente toccati gli over 45, con un -1,2%); rilevante sarà inoltre il costo delle manovre intraprese dai recenti governi (l’addizionale regionale, l’IMU sulla prima casa e l’aumento dell’IVA dal 21% al 23% peseranno in media circa 1.150 euro a famiglia).

Alla radice della crisi regionale, il rapporto individua essenzialmente la sempre più scarsa competitività del nostro sistema: la produttività del lavoro continua a crescere con molta fatica (dal 1995 ad oggi essa è salita di appena il 12%, a fonte di una crescita del 23% a livello nazionale), mentre non smettono di salire il costo del lavoro (+22% rispetto al 1995, in linea con l’andamento nazionale) e quelli per acquisire energia e servizi.

Valutando sinteticamente il quadro economico regionale, il rapporto conclude sottolineando il rischio di cambiamenti strutturali non controllati, rapidi e profondi della nostra economia, ancora basata su un tessuto distrettuale di piccole e medie imprese sempre più a corto di riserve.

«Il calabrone non vola più», ha ammesso un preoccupato Presidente Rossi, richiamando il titolo di un celebre studio del prof. Giacomo Becattini, riguardante proprio l’economia distrettuale toscana, un tempo paradigmatica. «La dimensione – ha proseguito Rossi – non è adeguata né ai processi di innovazione né ai processi di internazionalizzazione: o meglio, lo è quando riesce a stare in rete o è trascinata da qualche locomotiva». Ancora sostegno ai distretti, insomma, ma anche più attenzione a quella grande impresa della quale la Toscana non si è mai troppo preoccupata: questi, in sintesi, gli obiettivi suggeriti da Rossi, il quale ha altresì ricordato l’urgenza delle opere infrastrutturali, la necessità di un nuovo e più sostenibile turismo di qualità e il dovere di riconoscere e premiare quelle produzioni ad alto contenuto tecnologico sulle quali si gioca il futuro del nostro tessuto industriale.

È vero, quella regionale resta pur sempre una scala assai ridotta per fronteggiare dinamiche e rischi di portata ormai planetaria, ma è altresì un ambito ove sono possibili spazi per manovre che possano avere una loro incisività: imprese e famiglie non paiono più nella condizione di sopportare altri rinvii.

«Piccolo non è più bello»?  Rossi ripensa l’economia

«Il calabrone non vola più». Il presidente della Regione Toscana, Enrico Rossi così descrive la situazione economica della Toscana. «Abbiamo una forza enorme nei distretti e nel sistema delle piccole imprese che continueremo a sostenere – ha spiegato – Ma le dimensioni di queste ultime sono inadeguate all’assorbimento degli investimenti per ricerca e innovazione e ai processi di internazionalizzazione. A meno che non riescano a stare in rete o non siano trascinate da altre locomotive. Non funziona più nemmeno l’idea di una Toscana compiaciuta del proprio benessere, la Toscana stucchevole della collina e del cipresso. Per uscire dalla crisi non basta percorrere i sentieri consueti. Ma bisogna essere consapevoli che dire questo significa aprire una fase critica su un paio di decenni della nostra storia recente».

«Ci sono in Toscana 500 imprese-locomotiva – prosegue Rossi –. Sono 500 imprese medio grandi, con almeno 50 dipendenti e 13 milioni di fatturato, in grado di mettere a frutto investimenti per ricerca e innovazione, di intraprendere percorsi di internazionalizzazione e di “trainare” una rete di piccole e medie imprese. Questa vivacità la Toscana ce l’ha: il calabrone deve allargare le ali. Ma per riuscirci bisogna cambiare un pezzo della cultura di questa regione, ricostruire alleanze e relazioni sociali, guardare oltre gli ultimi vent’anni. Questo mondo imprenditoriale va sostenuto».

«Rossi manda in soffitta, almeno a parole, 20 anni di politica economica della Regione. Il calabrone non vola più da molto tempo e i sogni del modello economico toscano sono andati in frantumi ben prima della crisi globale – afferma Alberto Magnolfi (presidente del gruppo Pdl in consiglio regionale) – Attendiamo il presidente Rossi alla prova dei fatti con una duplice preoccupazione: che per alcuni aspetti il suo ripensamento arriva troppo tardi e che, per altri versi, lo schieramento che lo sostiene non gli consentirà questa svolta modernizzatrice e anti-ideologica, come del resto l’ha bloccata in questo primo scorcio di legislatura.

Non fanno polemica Ambrogio Brenna, per dieci anni assessore regionale all’economia, né tantomeno il capogruppo Pd in Regione, Vittorio Bugli, per cinque anni presidente della commissione consiliare su economia e sviluppo. Sul Corriere Fiorentino mettono qualche «puntino sulle i» sui venti anni di economia regionale da riconsiderare. «Rispondo per le mie competenze – afferma Brenna –  Nel decennio 2000-2010 il sostegno al manifatturiero è stato preciso e condiviso in giunta e la spinta all’internazionalizzazione e all’innovazione uno dei focus della politica regionale». Sul modello toscano del «piccolo è bello» Brenna è reciso: «Leggendo i dati dell’export, pari più o meno a 27 miliardi, fatto al 90% dalle decine di migliaia di aziende del manifatturiero, si ha la risposta».

Per Vittorio Bugli «più che la lettura del passato mi interessa la sfida di come tutta la società toscana reagisce alla crisi. C’è ancora troppo conservatorismo, troppo campanilismo e tutti, politica, società, categorie economiche, sindacati, dobbiamo agire su riforme strutturali che ci permettono la competitività. Anche perché l’acutizzarsi della crisi ci impedisce di essere una “isola felice”».

Ennio CicaliArtigianato: si salva solo il settore della pelle e delle calzature

Anche nel 2011 l’artigianato ha confermato il suo ruolo centrale per l’economia regionale con oltre 6800 milioni di ricavi nel 2011, oltre 934 milioni di euro di monte-salari e 982 milioni di investimenti. Tuttavia, la recessione è persistente, preoccupa la costante erosione di valore che dall’inizio degli anni 2000 affligge questo significativo comparto dell’economia regionale .Questi i risultati di Trend, l’analisi congiunturale semestrale effettuata da CNA Toscana sui dati della contabilità di migliaia di imprese artigiane della regione. Secondo il presidente Valter Tamburini «la Regione Toscana deve impegnarsi a riposizionare una parte del sistema delle piccole imprese, accompagnandole in un percorso di crescita, orientando le risorse per lo sviluppo ad aumentare la capacità competitiva delle piccole imprese, vero cuore pulsante dell’economia regionale». «È preoccupante – aggiunge il direttore CNA Toscana Saverio Paolieri –  la caduta degli investimenti.

Migliaia di imprese e famiglie stanno affrontando una crisi che non possono superare da sole: hanno necessità di credito e sostegni. Le previsioni degli imprenditori artigiani sono caratterizzate da estrema preoccupazione dal momento che ai problemi delle recessione in atto si aggiunge la difficile gestione della liquidità aziendale, penalizzata sia dalle scarse capacità autofinanziamento che dall’accresciuta selettività dell’offerta creditizia».

Nel 2011 è diminuito il fatturato, (-3,9%, -280,6milioni di euro in termini assoluti), con segni negativi su quasi tutto il territorio regionale. Soffrono  gli investimenti, meno il 50% rispetto al 2010, fatto comunque spiegabile con il quadro complessivo che si caratterizza sia per la perdita di fiducia degli operatori sia per la carenza di liquidità. Dalla crisi si salva solo il comparto pelle-calzature (+15,7%), ma tutti gli altri i comparti soffrono (costruzioni -2,3%, manifatturiero -4,9% e servizi -5,3%). Soffre settore delle costruzioni (-2,3%, la variazione rispetto al 2010),per una serie di fattori negativi (dallo stallo del mercato immobiliare alla crisi di alcune aziende capofila del settore ai problemi di liquidità soprattutto delle commesse pubbliche).

La trasversalità delle perdite accomuna un po’ tutti i settori: alla perdita di poco meno di 80 milioni di euro dei servizi si somma la contrazione del -4,9% del sistema manifatturiero, che lascia sul terreno oltre 136milioni di euro nel corso del 2011. Malgrado i buoni risultati del settore pelle- calzature, il manifatturiero artigiano ha in questi mesi nettamente peggiorato la propria posizione dopo il recupero della seconda parte del 2010: negativi l’alimentare (-6,1%), metalmeccanica (-9,4%), legno-mobilio e tessile – abbigliamento che perdono oltre il 10%. Il settore tessile, che nel 2010 aveva mostrato segni di ripresa, registra nel 2011 una contrazione del fatturato pari a circa 63,5milioni,. Sulla scia di una dinamica asfittica dei consumi delle famiglie, di una razionalizzazione dei costi delle imprese, e di una pesante contrazione della domanda interna, anche i servizi artigiani soffrono e continuano a mostrare un profilo negativo nel 2011: -5,3% nel complesso e con un panorama settoriale tutto orientato alla flessione (-6,8% le riparazioni, -6,6% i servizi alle imprese, -5,2% i trasporti e -1,8%  i servizi alle famiglie).

Solo apparentemente qualche luce a livello territoriale, dove Lucca, Firenze, Pisa e  Grosseto archiviano nel 2011  un fatturato artigiano di segno positivo rispetto al 2010. A parte Firenze (la cui positività è peraltro solo simbolica, +0,1%). Sei province su 10 chiudono  pesantemente in negativo: Siena e Pistoia perdono rispettivamente il 26% e il 19,5%, ma preoccupano anche Livorno (-8,9%), Arezzo (-13,1%), Massa Carrara (-10,6%) e Prato (-6,5%), quest’ultima tornata in flessione per la cessazione della spinta del tessile – abbigliamento. A sostenere i recuperi di Lucca (+9,4%), Pisa (+5,2%) e Grosseto (+12,7%) sono soprattutto i diffusi rimbalzi nel comparto delle costruzioni.

Ennio Cicali

L’intervista. Accattoli: «Questa è l’occasione per ripensare i nostri stili di vita»di Simone Pitossi

Crisi della società, crisi dei cristiani? La risposta a questa domanda proverà a darla il Convegno della Diocesi di Lucca in programma il 18 e 19 giugno, nella Basilica di San Frediano (programma su www.diocesilucca.it). Lunedì prossimo, a partire dalle 18.30, saranno valutate le opportunità che la crisi può mettere a disposizione, soprattutto dal punto di vista locale. Il giorno successivo si parlerà di come stare nella crisi da cristiani. E sarà Luigi Accattoli – giornalista, scrittore, conferenziere e blogger (www.luigiaccattoli.it) – a indicare delle risposte. In vista dell’incontro lucchese gli abbiamo rivolto alcune domande.

Accattoli, quali sono le cause della crisi, non solo economica, che vive il nostro tempo?

«La tendenza a staccare il gioco finanziario dall’economia reale, la mancanza di regole nel mondo della globalizzazione selvaggia. Più in profondo: l’abbandono dei principi di realtà e di responsabilità nella vita economica, ma anche in altri settori della convivenza umana nei luoghi del benessere».

Come e quanto questa crisi sta cambiando il vivere civile e sociale?

«Saremo tutti più poveri, dovremo lavorare di più e consumare di meno. Le trattorie – come le osterie di una volta – offriranno soltanto un menù del giorno e mangeremo quello che quel giorno troveremo cucinato. Non butteremo più il pane di ieri e i forni produrranno, come cinquant’anni addietro, un solo tipo di pane. Reimpareremo a rammendare e riusare in famiglia i capi di abbigliamento usati. Nessuno che viva di un lavoro o di una pensione abiterà più di due stanze. Torneremo ai costumi alimentari, vestiari e abitativi di mezzo secolo addietro».

I cristiani quale contributo possono dare? Possono dire la loro sull’economia?

«Non c’è un’economia cristiana come non c’è una politica cristiana, ma c’è un modo cristiano di percorrere le vie dell’economia e della politica come di ogni altro settore o ambito della vita associata: mirando a servire l’uomo, a servirlo vedendolo nella sua vocazione divina, mai acquietandoci all’esistente e cercando sempre di far valere – in vista di quelle mete – il principio di non appagamento».

C’è una ricetta cristiana per un’economia più rispettosa delle persone?

«Non c’è una ricetta ma un’esperienza cristiana. Basterà pensare alle reti di supporto in situazioni di disoccupazione, sottosviluppo, povertà, marginalità, rottura di vincoli familiari: in nessun ambiente come in quello cristiano hanno messo buone radici – negli ultimi decenni – esperienze come le cooperative per il lavoro dei giovani in cerca di prima occupazione, quelle per l’impiego di disabili ed ex carcerati, la “economia di comunione” (praticata dal Movimento dei Focolari), il “commercio equo e solidale”, le “banche etiche”, le “banche del tempo”, le comunità di accoglienza, le case famiglia. È urgente recuperare forme di austerità socializzanti che la recente abbondanza aveva fatto dimenticare. Alcune di quelle austerità i cristiani le hanno sempre praticate: da chi dunque se non da loro potranno venire le idee e le parole per riproporle al Paese?».

Non sta prospettando per i cattolici un ruolo impopolare, di campioni dell’austerità?

«A cercare i ruoli popolari già ci pensano in tanti, senza bisogno di scuole o militanze. Un ruolo guida per i cristiani lo vedo anche nell’affrontare la sfida educativa: ogni tanto esplodono le violenze dei “branchi” giovanili, ormai anche femminili, che rivelano il deserto formativo in cui sono lasciati gli adolescenti. I cattolici non hanno mai spento i loro focolari educativi e dunque sono quelli che dispongono di maggiori risorse calibrate sull’oggi per aiutare la collettività a rimettere mano alla cura della pianta uomo che abbandonata a se stessa inselvatichisce».

La crisi ci pone una domanda? E la risposta qual è: cambiare stile di vita? Oppure come è possibile stare da cristiani nella crisi?

«Cambiare lo stile di vita è il primo punto. Lo stile attuale, basato sulla crescita illimitata dei consumi, è improponibile all’insieme dell’umanità ed è insostenibile per il pianeta. Sviluppare poi dinamiche di solidarietà antiche e nuove: due o tre o dieci famiglie possono fare tante cose insieme risparmiando tempo, spazi, denaro. Promuovere politiche sociali. È lo scatenamento degli egoismi che ha portato alla crisi; e vi aveva contribuito un’idea della vita concepita come “l’isola dei famosi”, che pareva aver superato il regno della necessità. Infine si tratta di spingere per la creazione di un governo mondiale dell’economia. Sono sostanzialmente le indicazioni dell’enciclica “Caritas in Veritate” (2009) e del Consiglio Giustizia e Pace: io mi ci ritrovo».

Dove e come è possibile scorgere una luce di speranza?

«La luce della vera speranza non manca mai. Non ha senso enfatizzare la difficoltà che viviamo: che avrebbero dovuto dire, poniamo, i nostri padri e le nostre madri che sono restati per cinque anni nell’inferno della seconda guerra mondiale? La speranza la troviamo, come sempre, nella vitalità dell’umano che è intorno a noi e che – come sempre – affronta i suoi triboli con creativo coraggio e mai si arrende».

Come si innesta la speranza cristiana su quella umana?

«Non sono due speranze, ma la stessa speranza che alla luce della fede si completa nell’attesa del Regno. Si tratta di scorgere non soltanto i segni dell’umano coraggio che si manifestano intorno a noi, ma anche quelli dell’amore di Dio che ci sono offerti ogni giorno nel vivo tessuto della famiglia umana. Il genio della carità che soccorre chi è afflitto dai nuovi bisogni. L’anima più antica della nostra società, che è quella cristiana, ha saputo dare in questi ultimi anni risposte originali a incredibili esplosioni di violenza, alle solitudini metropolitane, alla crisi sociale della famiglia, all’arrivo tra noi di altre genti, alla droga e all’Aids, a ogni nuova paura della morte. Né si tratta esclusivamente di “fatti” cristiani: essi giungono a noi frammisti a “fatti” di umanità non meno ammirevoli, che potremmo qualificare come “naturalmente” cristiani».