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L’America che non c’è più si affida di nuovo a Obama

I democratici riconquistano la Casa Bianca ma perdono in parte il Congresso. La fragilità economica del gigante Usa è destinata a riflettersi anche nella politica estera. Il debito Usa è ormai di 16.209 miliardi di dollari pari al settante per cento del reddito nazionale.

Dunque dopo Obama viene ancora Obama. La vittoria del presidente uscente è stata netta anche se ha conquistato meno grandi elettori di quattro anni fa. Tuttavia se i democratici difendono con onore la Casa Bianca perdono almeno in parte il Congresso. Alla Camera i repubblicani mantengono ancora 213 seggi contro i 153 dei democratici. Al Senato vincono i democratici ma con una maggioranza più debole di 51 seggi contro 44. Questi dati in pratica significano che alla camera i repubblicani hanno i numeri per potere fare ostruzionismo. Al Senato i democratici no. E Obama dovrà tenere conto di questa sue debolezze nel potere legislativo per quello che vorrà fare.

«C’era una volta l’America» verrebbe voglia di dire con il titolo del vecchio film. L’America che ha fatto vincere Obama non è più in sostanza l’America classica cosiddetta wasp (bianca,anglosassone, protestante), ma l’America delle minoranze, dai latino-americani agli asiatici, ai neri. Ed l’America di oggi non si sa se deve fare più paura per la sua forza o per la sua debolezza. La crisi della economia americana di quattro anni è stata la malattia che, nata a New York con la bancarotta della Lehman Brothers, ha contagiato il mondo intero. Già nel luglio dell’anno scorso le agenzie di rating avevano tolto la tripla AAA agli Stati Uniti e ora minacciano di ridurre di nuovo la loro valutazione se la nuova amministrazione Obama non riesce a ridurre il debito pubblico. La più grande potenza economica del mondo ha ormai un deficit che piano piano naviga verso i debiti paurosi dei paesi che danno sul Mediterraneo. Il debito Usa è ormai di 16.209 miliardi di dollari pari al settante per cento del reddito nazionale.

Obama ha promesso di volere ridurre il debito di 4.000 miliardi nei prossimi dieci anni. E tuttavia, anche se la sua proposta di volere tassare fino al trenta per cento i ricchi che guadagnano oltre 250.000 dollari è sacrosanta dal punto di vista morale, sarà molto meno risolutiva dal punto di vista economico. I Paperoni che hanno simili redditi non sembra che siano più del due per cento degli americani e il loro contributo non tapperà certo la voragine del bilancio di Washington. Probabilmente si dovrà tassare anche quel ceto medio che il presidente Obama non vuole tassare. Ma in questo caso si rischia di fare ripiombare l’America nella recessione quando già oggi il suo reddito nazionale non riesce a crescere a più del due per cento annuo. E un’America in recessione sarebbe un acceleratore della crisi mondiale a cominciare dalla nostra drammatica crisi europea.

D’altra parte la fragilità economica dell’America di Obama è destinata a riflettersi anche nella sua politica estera. È un destino curioso e mortificante di quest’America sempre più insicura di sé il fatto che la sua economia dipenda da quella Cina che di fatto gli compra il suo debito e che, se non è più il suo nemico principale, rimane sempre il suo avversario in innumerevoli campi. Obama ha già promesso che fra le misure per frenare il deficit ci sarà la riduzione delle spese militari con il sottinteso che gli alleati dovranno assumersi l’incarico di sostituire gli americani in interventi come quello in Libia di due anni fa.

E tuttavia ci sono almeno due problemi su cui la prudenza tradizionale di Obama in politica estera sembra ora essere venuta meno e sono purtroppo i due problemi più attuali e più scottanti. In campagna elettorale Obama ha accentuata la tendenza ad un intervento in Siria con accenni ad un rifornimento di armi ai ribelli e anche ad una misura di interdizione dello spazio aereo. Ma la Siria è uno dei problemi capace di esasperare le già notevoli tensioni con la Russia di Putin che, da un possibile trionfo degli integralisti in Siria, teme un incoraggiamento all’integrismo fra i venti milioni di musulmani che vivono al suo interno fra il Volga e gli Urali.

Allo stesso modo, forse per conquistare il voto e l’appoggio delle lobbies ebraiche, Obama ha alzato il tono anche nei confronti del programma atomico dell’Iran. Mentre in passato aveva affermato che si poteva accettare anche l’ipotesi che l’Iran si potesse dotare di uranio parzialmente arricchito per usi civili, il 24 ottobre ha dichiarato che non accetterà che l’Iran abbia comunque dell’uranio arricchito e che, per impedire questa eventualità, «tutte le opzioni sono sul tavolo», compresa quindi anche quella militare. Ma un bombardamento dei siti nucleari in Iraq, numerosi, collocati nel sottosuolo a grande profondità e vicino a grandi centri abitati sarebbe una catastrofe dal costo e dalle conseguenze inimmaginabili.