Opinioni & Commenti

L’anno delle tregue senza pace

di Romanello Cantini

Se si dovesse riassumere in una formula l’evoluzione delle guerre in corso nell’anno appena finito si potrebbe dire che il 2007 è stato l’anno delle tregue senza pace. In Iraq dall’inizio della guerra fino alla metà dell’anno scorso si moriva ad una media di oltre cento morti al giorno. Dall’inizio dell’estate scorsa il volume della violenza è diminuito. È stata concordata una tregua con le milizie del leader sciita Moqtada Al Sadr. Ma soprattutto sono stati letteralmente assoldati dal governo molti membri dell’ex-esercito di Saddam Hussein che hanno ridotto la guerriglia di marca sunnita. Negli ultimi sei mesi la violenza è ormai scesa intorno ad una media inferiore alle dieci vittime al giorno anche se nessuno può giurare sulla stabilità di una situazione pur sempre precaria e pur sempre di guerra. Preoccupa anche una ripresa della violenza contro le chiese cristiane che hanno già perso metà dei loro fedeli negli ultimi venti anni.

Anche in Israele il 2007 è stato l’anno senza attentati di massa e il meno sanguinoso dall’inizio del Duemila. Fra militari e civili sono caduti «soltanto» 13 israeliani. Al contrario le massicce e indiscriminate operazioni israeliane contro presunti lanciatori di razzi hanno provocato un numero di vittime trenta volte maggiore (373) fra i palestinesi. Nel suo viaggio in Palestina Bush ha addirittura promesso la pace entro questo anno. Ma si è guardato bene dal pronunciarsi sulle maggiori difficoltà ancora da affrontare: la eliminazione delle colonie israeliane in Cisgiordania (di cui 51 costruite solo negli ultimi sette anni); la divisione di Gerusalemme; il ritorno o il risarcimento degli oltre quattro milioni di profughi palestinesi; il rifiuto di trattare con Hamas che pure continua la guerriglia dalla banda di Gaza.

In Afganistan al contrario il 2007 è stato l’anno più cruento dall’inizio della guerra con seimila vittime fra cui duecento soldati della Nato. La crisi afgana ha oramai contagiato il vicino Pakistan dove è in atto una guerriglia strisciante dove l’assassinio di Benazir Bhutto del 27 dicembre scorso sembra ridurre la scelta fra una dittatura e un terrorismo.

Anche altrove la democrazia fatica ad attecchire in territori finora ostili. Le accuse di brogli per le elezioni in Kenia sono sfociate in scontri furiosi che hanno provocato 350 morti. Nel Continente nero non sembra ancora finita la lunga stagione dei presidenti-dittatori a vita. Finora i pochissimi presidenti che come Leopold Senghor in Senegal, Lousana Conte nel Mali e Nelson Mandela in Sudafrica hanno lasciato regolarmente il potere si contano sulle dita di una sola mano.

Nel frattempo la liberazione di due ostaggi e del figlio di una di loro nato in cattività da parte delle Farc in Colombia hanno richiamato l’attenzione su un paese in cui 3 mila persone (fra cui la candidata alle elezioni presidenziali Ingrid Betancourt rapita in piena campagna elettorale sei anni fa) sono sequestrate e in cui, nonostante gli sforzi di pacificazione della chiesa locale, sono in atto una guerriglia e una controguerriglia ormai quasi dimenticate ma che durano da ben 43 anni e che presenta il terribile bilancio totale di 300 mila morti.