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L’arcivescovo di Baghdad: «Aiutateci a vincere la paura»

di Renato Burigana

«Il fondamentalismo, ogni fondamentalismo non è solo un problema politico, ma di cultura. Il nostro compito è quello di aiutare tutti i giovani a crescere, ad aprirsi al mondo». Sono queste le parole che l’arcivescovo latino di Baghdad, Jean Benjamin Sleiman, usa per rivolgere da Fiesole un accorato appello per la pace e lo sviluppo del suo Iraq. Ospite della Fondazione Giovanni Paolo II, ha incontrato il presidente monsignor Luciano Giovannetti, vescovo di Fiesole, padre Rodolfo Cetoloni, vescovo di Chiusi-Pienza-Montepulciano, e il direttore Angiolo Rossi. Durante la sua visita è stato messo a punto un piano di intervento della Fondazione per costruire, nella sua diocesi, un centro polivalente per i giovani.

Sleiman, vescovo dei latini, originario del Libano, carmelitano scalzo, 63 anni, ha vissuto a lungo in Italia e a Firenze, conosce la lingua e si esprime con precisione e con forza, chiedendo un aiuto concreto per i cristiani iracheni, «soprattutto a superare la paura, che fa scappare i cristiani e che rallenta lo sviluppo».

Qual è la situazione oggi in Iraq?

«La situazione è relativamente calma, c’è una riduzione della violenza, degli attentati. Questo clima nuovo dà quasi una sensazione di benessere, e questo giova a tutti. Spero che a breve i problemi politici, che sono ancora tanti, possano essere risolti».

Si avverte il senso dello Stato?

«Lo Stato sta risorgendo, anche se nel passato recente sono stati fatti tanti errori. Ma purtroppo sono nati molti “staterelli”. L’Iraq non ha un presidente del Parlamento, quello che c’era è stato costretto a dimettersi. Quindi il Parlamento ha difficoltà a lavorare, per esempio non può votare il bilancio dello stato. Il Governo funziona, ma senza il controllo del Parlamento».

Qualcuno avanza anche l’ipotesi, per aiutare il processo di pace, di dividere l’Iraq in tre stati?

«Non è una buona idea. Dividere l’Iraq in tre, potrebbe solo favorire una guerra fra questi tre ipotetici stati. In Medio Oriente è difficile già oggi trovare una frontiera senza conflitto. E poi le elezioni hanno premiato quelli che si oppongono a questo disegno. In Iraq c’è una forte coscienza che si oppone a questo disegno».

Dietro alle truppe americane sono arrivate anche molte sette protestanti.

«Sì, e non hanno fatto nulla di buono. Sono arrivate al seguito dell’esercito e avevano la voglie di cambiare tutto e subito. Hanno iniziato con i musulmani, e non ci sono riusciti. Poi hanno provato con i cristiani, e anche lì hanno fallito.  Se il loro intento era di far crescere il paese, potevano raccordarsi con la chiesa cristiana che è un patrimonio dell’Iraq.

Qual è invece la situazione dei cristiani?

«Sotto la dittatura di Saddam i cristiani non vivevano male, anche se è bene precisare che in quegli anni veniva sistematicamente uccisa l’anima. Certo non si moriva per la strada, non c’era attentati. Si viveva nella paura di essere liberi. I cristiani erano circa un milione, oggi sono la metà. Cinquecentomila cristiani hanno lasciato il Paese, e non per andare a stare meglio. Sono fuggiti per paura, e ora aspettano in Libano, in Siria e in Giordania lo status di rifugiati».

La sua diocesi coincide con i confini nazionali. Qual è la situazione delle chiese e quali sono le emergenze?

«Nella sola Baghdad ci sono 60 chiese, la metà cono caldee. Noi latini ne abbiamo quattro. A queste vanno aggiunte quelle dei monasteri e dei conventi. Anche se vorrei dire che il mio clero è composto esclusivamente da religiosi. In questo ultimo periodo i cristiani di tutte le denominazioni collaborano molto fra loro. C’è un forte aiuto reciproco per tentare di superare le difficoltà e arrestare l’esodo dei cristiani. Nello scorso mese di febbraio c’è stato un incontro fra tutti i cristiani e, per la prima volta, abbiamo parlato a una sola voce. L’emergenza principale riguarda i giovani e la loro educazione».

Nell’incontro con la Fondazione Giovanni Paolo II si è parlato di costruire a Baghdad un centro proprio per i giovani.

«I giovani sono la ricchezza dell’Iraq. Purtroppo non hanno mai vissuto la loro adolescenza, perché si pensava che dovessero passare dalla tenera età all’età adulta senza vivere la loro crescita. Noi crediamo molto invece che sia importante aiutarli a crescere e per questo ho iniziato a costruire un oratorio sullo stile di quelli di don Bosco. Certo adattandolo alla cultura e alla storia irachena. In questi ultimi anni ci sono alcuni giovani che si stanno impegnando nella Caritas, che stanno crescendo e con loro e per loro vogliamo andare avanti su questa strada. È necessario aiutare le persone a costruirsi una mentalità aperta. Molti ignorano la ricchezza culturale dell’Irak, le sue potenzialità».

Pensa a un centro polivalente aperto a tutti i giovani di Baghdad?

«Un centro dove i giovani possano avere una formazione religiosa, culturale e sociale. Aperto a tutti i giovani, ma con un progetto chiaro. Intorno alla chiesa latina ruotano tutte le altre chiese. Per cui è più facile. Penso a un centro con la possibilità si svolgere attività sportive, ricreative. Vorrei anche un cinema. I giovani iracheni sono molto bravi. Il loro problema, prima durante la dittatura e ancora oggi, è quello di non uscire mai dal paese. Non conoscono la realtà europea, non frequentano i loro coetanei di altri paesi».

Un centro così pone anche problemi di sicurezza?

«Dobbiamo fare una attenta vigilanza interna per evitare infiltrazioni di bande. Questo comunque succedeva anche ai tempi di Saddam. D’altra parte lo stesso problema della sicurezza si pone anche per le Messe. Le chiese sono spesso in posti isolati, le auto vengono parcheggiate lontano. C’è anche chi non va alla Messa domenicale per paura degli attentati. Quando si fa festa, vengono tutti. Vincono la paura. In Iraq c’è bisogno di festa, di gioia, di incontrarsi».

Le diocesi toscane, la Fondazione Giovanni Paolo II cosa possono fare concretamente per la chiesa irachena?

«Ogni scambio è per noi un incoraggiamento. Le vostre chiese possono incoraggiare le chiese dell’Iraq a riprendere il loro ruolo. Gli scambi, penso in particolare ai giovani, sono molto importanti per noi. E ci adoperiamo perché il Governo agevoli queste visite e questi scambi. Alla Fondazione Giovanni Paolo II vorrei dire grazie per l’aiuto che intende darci nella costruzione di questo centro per i giovani. Il dialogo per noi è fondamentale, se non si dialoga e si resta soli prevale l’integralismo e non si cresce. Vorrei anche dire che i vostri aiuti economici mettono in crisi la nostra gente. Mi spiego. Ciascuno di noi si sente quasi obbligato a fare la sua parte. Quindi non pensate che quello che voi fate sia elemosina. È un aiuto stimolante per la nostra gente, perché accresce quella voglia di libertà che c’è».

Quando lo salutiamo le ultime sue parole sono un invito: «Venite presto a Baghdad, l’antica Babilonia (e il vescovo Sleiman usa spesso questo nome) perché è sicura e soprattutto venite a incontrare i cristiani d’oriente. Può essere un aiuto importante a rompere l’isolamento, a ridare speranza».