Toscana

Lasciarsi a sessant’anni per non perdere la pensione

di Andrea Bernardini

I padri costituenti l’avevano promesso: lo Stato aiuterà la formazione della famiglia «con misure economiche ed altre provvidenze». Ma i loro posteri quella promessa non l’hanno mantenuta; sì che non poche coppie che anni fa privilegiarono le ragioni del cuore a quelle del portafoglio, adesso ci han ripensato, decidendo di dividersi sulla carta per pagare meno Irpef, riscuotere l’integrazione al minimo della pensione o anche per accedere più facilmente ad una casa popolare o usufruire a prezzi «decenti» del nido del figlio.

Dopo il primo piano del 30 gennaio («Famiglia e fisco, il fenomeno delle false separazioni») in tanti ci hanno scritto e telefonato invitandoci a proseguire nella nostra inchiesta. L’Associazione nazionale famiglie numerose, ad esempio, ha inviato il nostro piccolo dossier  ai parlamentari dei tre poli ed al sottosegretario Gianni Letta, chiedendo di tornare a parlare dell’iniquità di un sistema fiscale che finisce per penalizzare l’istituto famiglia.

Ma le falle sono anche nel sistema solidaristico dell’Inps. E tentano i nostri vecchi: incredibile ma vero, separarsi (fittiziamente) dal marito o dalla moglie a 60 e più anni conviene, persino se si vuol ricevere l’integrazione al minimo della pensione.

Per spiegare cos’è, occorre ricordare che l’Inps calcola la pensione sulla base dei versamenti effettuati. Ma se l’importo risulta inferiore al minimo di legge (467,43 euro al mese per il 2011) lo Stato aggiunge la differenza. Attenzione, però: dal 1° gennaio 1994, il riconoscimento dell’integrazione al trattamento minimo della pensione, è subordinato alla lettura dei redditi personale e del coniuge. Chi farà la richiesta di integrazione, cioè, non dovrà «possedere, nell’anno considerato, redditi propri, assoggettabili all’Irpef, per un importo superiore a due volte l’ammontare annuo della pensione minima Inps» (dunque non oltre i 12.153,18 euro); e nemmeno redditi cumulati con quelli del coniuge per un importo superiore al quadruplo della pensione minima Inps (dunque non oltre i 24.306,36 euro).

Prendiamo il caso, secondo gli esperti più frequente, in cui il candidato alla pensione sia una donna, che chiameremo Maria. La signora Maria, da giovane, aveva lavorato per alcuni anni in fabbrica; poi –  sposa  felice del signor Mauro, operaio specializzato, e persino mamma di due bambini – aveva lasciato il lavoro per dedicarsi full-time ai figli.

Maria aveva, comunque, continuato a versare contributi volontari all’Inps ancora per qualche altro anno. E questo, fino al 1994, le avrebbe garantito, una volta giunta in età da pensione, la «minima».

In pensione la nostra arriverà, invece, nel Duemila. Con le nuove regole, la signora Maria, per avere l’integrazione (almeno parziale) al minimo, non dovrà superare i 12.153 euro di reddito personale all’anno e i 24.306,36 euro di reddito cumulato col marito.

«Parliamo di redditi lordi – precisa Donatella Paolinelli, direttrice di Inas, il patronato della Cisl di Pisa. Se anche fossero tutti attribuibili al marito, si tratterebbe di 1.869 euro lordi al mese, una cifra – al netto – che guadagna qualunque operaio specializzato a fine carriera». Dunque anche Mauro. Se, invece, i due coniugi insieme supereranno quei limiti, l’importo dell’integrazione al minimo sarà determinata – per usare un termine tecnico – a calcolo. Anziché 467 euro al mese, la nostra signora potrebbe riscuotere dall’Inps molto meno.

Quanto meno? «Ci sono integrazioni anche di 90 o 100 euro che, sommate con la pensione maturata negli anni grazie ai contributi versati, non arrivano certo al minimo vitale stabilito dalla legge».

Ovviamente «per le persone non coniugate e quelle separate, il requisito del reddito cumulato non è richiesto». E così la solidità della coppia può costare cara: «Ed ho la sensazione che, per recuperare una pensione minima piena, diversi anziani decidano di separarsi (ma solo sulla carta) dal loro coniuge» commenta Paolinelli.

«Del resto – gli fa eco Roberto Chelucci, presidente della Nuova pisana servizi – trovo piuttosto anomalo l’alto numero di separazioni sancite dopo che i due coniugi (o uno dei due) hanno superato i sessant’anni: nel 2008, ad esempio, erano ben 4.892 (fonte Istat), una cifra superiore rispetto alle separazioni chieste ed ottenute da ex coniugi tra i 55 ed i 59 anni (3.591). Possibile che così tante crisi di coppia esplodano dopo 30 o 35 anni di matrimonio?».

Ma il nuovo sistema di calcolo delle pensioni minime non viola il dettato costituzionale? «Se lo sono chiesti in molti. Prefigurando la violazione del principio di uguaglianza (stabilito dall’articolo 3 della Costituzione) perché, a parità di condizioni personali (età, reddito, anzianità contributiva, qualifica) ad una persona viene riconosciuto il diritto all’integrazione al trattamento minimo mentre all’altra no. E ipotizzando anche la violazione degli articoli 29 e 31 perché l’elemento che fa scattare la discriminazione è il fatto che la persona a cui viene negato il diritto all’integrazione al minimo è sposata e quindi quello status diviene motivo di penalizzazione».

La materia fu già affrontata dalla Corte Costituzionale nel maggio del 1997. «La Corte – ricorda Roberto Chelucci – nella sentenza affermò che il legislatore, nel tutelare gli interessi della famiglia, gode di una certa discrezionalità; che l’integrazione al trattamento minimo non è una prestazione previdenziale, ma solidaristica; e che le norme che regolano l’integrazione al trattamento minimo non violano il dettato costituzionale quando “l’importo dei redditi cumulati che escludono l’integrazione al minimo è determinato in misura adeguatamente superiore a quello dei redditi propri del pensionato che determinano analoga esclusione”».

Quella sentenza ha diversi punti deboli, osserva l’esperto. «Come la mettiamo, ad esempio, se i nostri Maria e Mauro vivono ancora in casa con i figli, oggi studenti universitari e che, dunque, non hanno redditi? Suddividendo il reddito del nucleo familiare per il numero effettivo dei suoi componenti, otterremmo, in molti casi, un reddito personale inferiore a quel limite di 12.153,18 euro al di sotto del quale il single può usufruire, anche se in misura ridotta, della pensione minima. Ma poiché questa suddivisione non viene fatta, anche in questo caso, la famiglia viene discriminata».

Assegni socialiUn meccanismo simile a quello adottato per l’integrazione al minimo della pensione è previsto dall’Inps per l’erogazione dell’assegno sociale, oggi di 417, 30 e. Anche in questo caso, l’ente previdenziale tiene conto del reddito di chi chiede di andare in pensione. “Se il richiedente  vive da solo – ricorda Elisabetta Di Lorenzo, direttore del patronato Acli di Pisa – il suo reddito non dovrà  essere superiore a 5.424,90 e netti l’anno, se è sposato, il reddito congiunto non dovrà superare i 10.849 e netti l’anno. L’Inps va a vedere lo stato civile di chi chiede la pensione, non la residenza del coniuge, che potrebbe essere, in teoria anche diversa da quella di chi aspira all’assegno sociale». L’entità dell’assegno è determinata dalla differenza tra il limite di reddito e il reddito dichiarato. «Nel caso di una donna in età da pensione e nullatenente, rivolgersi al patronato e presentare, per la richiesta di pensione, la sua sola situazione reddituale anziché quella cumulata con il coniuge può convenire – dice l’esperta. Separazioni fittizie? Ci vuole tanto pelo sullo stomaco… però tutto è possibile (anche se non giustificabile)  in questi tempi di vacche magre». Il punto

Matrimonio o convivenza? Se dovessimo seguire le ragioni del portafoglio, la partita sarebbe abbastanza aperta. Soprattutto nel caso – assai diffuso – in cui lui e lei lavorino entrambi. E che, dall’amore di coppia, nascano uno o più figli.

Detrazioni e assegni familiari. In caso di prole, dunque, gli assegni familiari per figlio/i a carico potranno essere chiesti solo dal papà o solo dalla mamma. Ma, paradossalmente, questo potrebbe rivelarsi un vantaggio. Facciamo un esempio: una coppia sposata, che guadagna complessivamente 40mila e l’anno, ed ha un figlio, percepisce un assegno familiare di 42,58 e mensili, cioè di 511 e all’anno. Se la coppia convive, e al budget di 40mila e concorrono in egual misura entrambi (20mila e a testa), al convivente che farà richiesta del sussidio, il datore di lavoro anticiperà in busta paga 87,13 e mensili, vale a dire 1.052 e annui.

Retta scolastica – Nessuna differenza, invece, quando il comune calcola la quota di compartecipazione al costo dei servizi scolastici richiesti ai genitori. L’Isee da presentare dovrà tener conto del reddito e dei beni patrimoniali della famiglia anagrafica. E, secondo il decreto del presidente della Repubblica del 30 maggio 1989 «agli effetti anagrafici per famiglia si intende un insieme di persone legate da vincoli di matrimonio, parentela, affinità, adozione, tutela o da vincoli affettivi, coabitanti ed aventi dimora abituale nello stesso comune». Difficile dimostrare che non ci sia «affettività» nel caso di un figlio. Dunque, a parità di condizioni, retta mensile del nido, refezione alle scuole per l’infanzia, elementari e medie, quota mensile del servizio di scuolabus avranno lo stesso costo per figli di genitori sposati e figli di genitori conviventi.

Quando la coppia scoppia – Il matrimonio torna a convenire, invece, nel caso in cui il menage abbia momenti di crisi. Ad esempio se uno dei due perde il lavoro. In questo caso il coniuge lavoratore può dichiarare a proprio carico il coniuge disoccupato ed ottenere le detrazioni fiscali che gli sono riconosciute direttamente in busta paga oppure sulla pensione e che riducono l’imposta finale calcolata sul reddito percepito. Il risparmio massimo? Poco superiore ai 700 e l’anno per i redditi più bassi. Se il familiare è a carico, il coniuge lavoratore può anche detrarre dal reddito lordo imponibile il 19% delle spese mediche sostenute dal partner disoccupato, del contributo del Servizio sanitario nazionale della Rc auto, dei premi per l’assicurazione della vita. Niente spetta, invece, alle coppie di fatto. Anche se i soliti furbetti sanno come muoversi. Il caso tipico è quello della visita dal dentista: se il paziente è nullatenente ed il partner invece dispone di reddito, la coppia potrebbe chiedere al medico di intestare la fattura al convivente che può portarla in detrazione. È una prassi comune e che però – è bene ricordarlo – si configura come truffa ai danni dello Stato.

Il matrimonio conviene al coniuge più debole, paradossalmente, se si incrina ed i due si separano: il coniuge economicamente più forte dovrà riconoscergli, infatti, salvo casi particolari, l’assegno di mantenimento. Non è così per le coppie di fatto, a meno che – commenta l’avvocato Paolo Sanna dello studio Alexa di Pisa – con  gli strumenti dell’autonomia privata – i due abbiano messo nero su bianco una convenzione che preveda, ad esempio, forme di sostegno o la conservazione della casa familiare.

Se uno dei due muore – Se uno dei due conviventi muore, l’altro non ha diritto alla pensione di reversibilità, ma può succedere nel contratto di locazione in essere per quella casa sotto il cui tetto abitavano entrambi.

Infine: il matrimonio garantisce i diritti di successione al coniuge ed alla prole di chi muore. Nelle convivenze, questi diritti sono riconosciuti solamente ai figli, «mentre il convivente more uxorio – riprende l’avvocato Sanna – non diventa automaticamente erede dei beni di colui o colei che muore. Può ricevere solo per testamento, anche se, come noto, la libertà testamentaria incontra il limite della quota riservata ai cosiddetti legittimari: così accade quando chi muore ha figli o ha ancora un coniuge legittimo dal quale non aveva ancora divorziato».

L’intervista: parla il giurista Claudio CecchellaFalse separazioni, una truffa difficile da sanzionare E’ reato separarsi fittiziamente per risparmiare sul fisco e ottenere riduzioni sui servizi sociali offerti dai comuni? Quali sono le dimensioni del fenomeno? E come può intervenire, in questi casi, lo Stato?Lo abbiamo chiesto al professor Claudio Cecchella, professore associato di diritto processuale civile alla facoltà di giurisprudenza dell’ateneo pisano, avvocato civilista e familiarista, presidente dell’Osservatorio provinciale sul diritto di famiglia a Pisa.

Professor Cecchella: il fisco è un elemento sempre più decisivo anche nella scelta del tipo di rapporto legale tra persone dello stesso nucleo…

«Non  è soltanto il fisco, ovvero le conseguenze fiscali discendenti dall’adozione di un modello piuttosto che un altro nel regime patrimoniale della famiglia (ad esempio tra separazione o comunione dei beni) ad ispirare i coniugi; ma è, in prevalenza, una ragione di protezione dall’aggressione dei creditori. Mi spiego. Il modello della comunione auspicato come regime patrimoniale generale della famiglia, con la riforma del 1975, è diventato il caso eccezionale: oggi i coniugi scelgono preferibilmente il modello della separazione dei beni. Per quale ragione? È semplice: con la separazione posso intestare al mio coniuge beni che vengono sottratti all’occhio “vigile” dell’amministrazione finanziaria. L’esempio più classico: imprenditori o libero professionisti – soggetti  a responsabilità civili elevate nello svolgimento della loro attività – che proteggono il patrimonio familiare non intestandosi i beni ma intestandoli al loro coniuge; con il regime della separazione potranno anche evitare che il coniuge possa essere considerato titolare dell’attività, almeno per una quota pari alla metà. In fondo questa regola è vecchia come l’uomo: i romani ne fondavano per reazione la cosiddetta presunzione muciana; ovvero gli acquisti della moglie si presumevano effettuati con denaro del marito!».

La separazione fittizia cui ricorrono i coniugi per risparmiare sul fisco ed ottenere benefici nella prestazione dei servizi sociali erogati dai comuni si configura come reato? E se sì : in che tipo di reato?

«La separazione fittizia ha la stessa utilità: quella di provocare qualche volta la cessione di beni immobili sottratti alle attenzione del fisco e dei creditori. Se la finzione è destinata a provocare presupposti per la erogazione di servizi pubblici (come ad esempio l’assegnazione di case popolari o di altri sussidi), si può giungere alla configurazione del reato di truffa ai danni dello Stato. Mentre la sottrazione dei beni ai creditori si può configurare come un reato se la finzione è provocata da un imprenditore poi dichiarato fallito, il quale può andare incontro al reato di bancarotta».

Quali strumenti ha lo Stato per entrare nel merito delle ragioni di una separazione?

«Nessuno, poiché gli accordi tra i coniugi sono controllabili dal giudice soltanto quando regolano gli interessi dei minori. Il fisco o il creditore potrebbero, loro soltanto, impugnare con l’azione revocatoria l’accordo dei coniugi teso a sottrarre beni alla tutela dei loro crediti».

A quanto ammontano, in media, le spese legali per ottenere una separazione consensuale?

«Una separazione è poco costosa, poiché in alcuni tribunali può essere il risultato di un’attività diretta delle parti, senza l’ausilio di un avvocato. Gli atti sono esenti dall’imposta del bollo: i coniugi procedono alla cessione di beni senza pagare neppure un notaio e con delle agevolazioni fiscali (le cessioni di immobili sono favorite come modo di regolamentazione della crisi famigliare)».

Le statistiche parlano di molte separazioni che non maturano in divorzi. Quanto può incidere, secondo lei, in questo dato, il fatto che diverse separazioni legali siano, in realtà, fittizie?

«Esse sono proprio l’indice del carattere simulato: quando la separazione è reale confluisce necessariamente nel divorzio, le riconciliazioni si contano sulle dita di una mano. Non si tratta, per la verità, di un fenomeno dalle altissime percentuali, non è facile comunque precisarle».

Che cos’è la separazione provvisoria?

«La separazione provvisoria è la separazione di fatto, non consacrata in un provvedimento giudiziale, anche di omologa di una separazione consensuale: è la fase in cui i coniugi decidono di vivere separati come fase che precede una decisione di definitiva rottura che porta alla formalizzazione poi della separazione in tribunale».

Che cos’è la scomposizione del nucleo familiare?

«È il risultato della separazione. Esso provoca la nascita di un nuovo nucleo, come una sorta di cellula che si sdoppia, Un nucleo costituito dal coniuge che si allontana e presso il quale non viene collocata la prole, coniuge che assai spesso instaura un rapporto con altra persona. Ne può nascere tutta una problematica anche giuridica nuova della cosiddetta famiglia allargata, con tutti i rapporti nuovi densi di implicazioni psicologiche e giuridiche dei figli con il compagno o la compagna della moglie…».

Famiglia e fisco, il fenomeno delle false separazioni (prima parte dell’inchiesta)