Toscana

Lo shopping ammazzafeste

di Pier Angelo Mori

Tornano le feste e l’attenzione torna ancora una volta sulle aperture festive degli esercizi commerciali con molte voci critiche, a partire da quella dell’arcivescovo di Firenze mons. Betori, a cui si sono associate diverse personalità e istituzioni. A dir il vero il problema è ormai endemico e non riguarda più soltanto o principalmente le festività natalizie: oggi la tendenza è verso l’apertura indiscriminata in ogni festività dell’anno. Questa tendenza è frutto di vari fattori tra cui una diversa normativa e organizzazione del lavoro, una maggiore libertà d’impresa, la trasformazione del settore del commercio e infine una diversa cultura della società, fattori che hanno contribuito a cambiare profondamente il volto del commercio. Un tempo i luoghi di aggregazione domenicale erano le chiese e il cinematografo; oggi in chiesa si va sempre meno e i cinema non esistono quasi più. In questo nuovo panorama sono diventati luoghi di aggregazione i centri commerciali, dove si va per fare acquisti ma in molti casi anche solo per passare il tempo, soprattutto la domenica: i luoghi del commercio sono divenuti anche luoghi di svago. Lasciamo ai sociologi il compito di interpretare questi fenomeni e gettiamo invece uno sguardo sugli interessi in gioco.

Per il consumatore medio – quello che non fa shopping per fini ricreativi – la possibilità di fare acquisti anche nei giorni festivi non è niente più che una comodità, a cui si contrappone il forte disagio dei lavoratori del settore. La funzione civile della chiusura festiva è di sincronizzare i tempi non lavorativi dei cittadini in modo da rendere possibili normali relazioni sociali e in ultima analisi favorire la coesione sociale. La funzione religiosa della festa non è sostanzialmente diversa: la domenica è il giorno del Signore ma, almeno per il cristiano, è anche il giorno dell’uomo. I lavoratori del commercio nell’attuale situazione si trovano invece sempre più spesso a vivere in discronia rispetto ai propri familiari e al resto della società: lavorano quando gli altri fanno festa e fanno festa quando gli altri lavorano. Per questo le rappresentanze sindacali si sono espresse più volte, e anche in quest’ultima occasione, in modo critico sulle aperture festive indiscriminate.

E le imprese del commercio da che parte stanno? Poiché sono loro a decidere se aprire o meno, si potrebbe pensare che abbiano un interesse ad aprire. Il problema però è più complesso di quanto non appaia a prima vista. Un dato certo è che aprire nei giorni festivi aumenta il costo del lavoro (parliamo di quegli esercizi che hanno lavoratori dipendenti), mentre il beneficio è piuttosto dubbio. La spesa aggregata dei consumatori dipende in massima parte dalle loro disponibilità finanziarie e solo marginalmente dalla maggiore o minore accessibilità dei luoghi del commercio. Questo è tanto più vero in tempo di crisi, quando è il bilancio familiare il fattore condizionante: in queste circostanze stare aperti di più non determina certo un aumento della spesa complessiva ma semmai una diversa distribuzione degli acquisti tra i punti di vendita. Si capiscono allora le perplessità manifestate anche da alcuni imprenditori del settore – soprattutto della grande distribuzione – sulla pratica indiscriminata delle aperture festive.

Ma allora perché gli esercizi commerciali aprono? Perché in un certo senso sono costretti a farlo. In un mercato dove tutti i concorrenti aprono chi non apre perde opportunità di vendita a favore dei concorrenti e la conseguenza alla fine è che tutti aprono, anche coloro che preferirebbero tenere chiuso se gli altri non aprissero. È la maledizione del cosiddetto «dilemma del prigioniero», per cui in un dato contesto si attuano comportamenti che in un’ottica non cooperativa (ovvero ognuno per sé) sono sì ottimali ma che non sono i migliori in assoluto per il gruppo. Qualcosa di simile si verifica nelle guerre commerciali dove tutti i commercianti ribassano i prezzi perché qualcuno ha cominciato ad abbassarli e alla fine stanno tutti peggio, anche coloro che hanno iniziato i ribassi. Con una differenza sostanziale però: mentre dai ribassi di prezzo i consumatori traggono un ovvio beneficio, a scapito della categoria dei commercianti, le aperture più lunghe continuano ad avere un costo per i commercianti ma il beneficio che ne traggono i consumatori è per lo meno dubbio, fatta eccezione forse per quella minoranza che usa i luoghi del commercio come luoghi di svago.

Quello delle aperture festive è dunque un gioco dove ci sono dei perdenti certi – i lavoratori –, dei perdenti probabili – le imprese commerciali – e dei vincitori incerti, una parte dei consumatori. La società nel complesso è il quarto attore e in questa partita non sembra proprio un vincitore: una conseguenza non desiderabile dell’anarchia degli orari lavorativi è una maggiore disgregazione sociale che colpisce in primo luogo i lavoratori coinvolti (compresi quelli autonomi) ma non solo, anche tutti gli altri soggetti che ad essi si relazionano, e pensiamo qui soprattutto alle famiglie. Una fase di crisi come questa è forse il momento migliore per rifare i conti e trovare una regolamentazione degli orari equa, economicamente sostenibile e condivisa.

Gli interventiSul tema i vescovi toscani sono intervenuti più volte, perché – per usare le parole di mons. Simone Giusti – «Il mercato non è tutto e non può tutto». Prima deve venire sempre «la persona». Il vescovo di Livorno, ricordando come la domenica sia «il giorno da dedicare alla famiglia, alla cura degli affetti, al riposo settimanale» e per i cristiano sia ancora di più, «un giorno sacro», aveva chiesto nell’autunno scorso alle parti sociali che se proprio si decide di far lavorare anche la domenica, lo si faccia almeno su base volontaria. Concetti ribaditi più volte anche dal vescovo di Prato, mons. Gastone Simoni, che proprio su questo tema partecipò nel febbraio scorso ad un confronto tv con Turiddo Campaini, presidente Unicoop e tra i primi a sollevare il problema sul fronte «laico». Ma sono state le recenti parole dell’arcivescovo di Firenze, Giuseppe Betori, per l’Immacolata, a rilanciare il dibattito, chiedendo di «reagire e respingere questo tentativo di riduzione dell’identità della persona a quella di consumatore», anche perché «non essendo cresciute le risorse a disposizione e non essendo queste in ogni caso infinite, è solo illusorio offrire più numerose possibilità di consumo. Tutto si traduce in un aggravio dei costi, prima di tutto umani, della distribuzione».

Un «sentito grazie» per queste parole è arrivato con una «Dichiarazione congiunta» dai segretari generali provinciali di Firenze di Cgil, Cisl e Uil, Mauro Fuso, Roberto Pistonina e Vito Marchiani. (leggi notizia) «Il sindacato, per sua natura, – scrivono i tre segretari  – non può ignorare le ragioni dell’economia e deve sempre confrontarsi con le esigenze della produzione. Ma quando queste ragioni e queste esigenze confliggono con quelle delle persone e contribuiscono a disgregare la società, crediamo si debba avere il coraggio di rimettere in discussione quelle ragioni e l’intelligenza per costruire, tutti insieme, una via alternativa».

A livello regionale i tre sindacati avevano anche raccolto 50 mila firme (leggi notizia) per chiedere «un modello di commercio all’insegna della cultura e non del consumo, per una maggiore contrattazione a difesa dei più deboli, e per una difesa dei valori civili e religiosi in Toscana» .

E a  mons. Betori ha risposto con una «lettera aperta» anche il presidente della Regione Enrico Rossi che ha assicurato di fare il possibile per «inserire nella normativa attuale la tutela di alcune festività legate alla nostra identità civile e religiosa oltre che alle locali tradizioni, la tutela dei diritti dei lavoratori del settore e di una pausa festiva da dedicare alla cultura, ai rapporti umani e forse un pò anche al silenzio» (ROSSI A MONS. BETORI:  IN NUOVA NORMATIVA TUTELA PER ALCUNE FESTIVITÀ).