Arte & Mostre

Marco Ciatti, il medico delle opere d’arte

Nella sua «clinica» sono «ricoverate» le opere d’arte bisognose di cure. Tra le sue mani e quelle dei suoi collaboratori passano i principali capolavori dell’arte fiorentina e non solo. Il distinto e affabile signore coi baffi importanti che ci apre le porte del suo quartier generale a Firenze è Marco Ciatti, che il 20 febbraio soffierà sulla sua prima candelina da Soprintendente dell’Opificio delle pietre dure, il prestigioso istituto di restauro del Ministero per i beni e le attività culturali. La sua stanza, al primo piano del numero 78 di via degli Alfani, è a mezza strada fra una galleria d’arte e una biblioteca piena di «chicche» e libri pregiati che il direttore conosce uno per uno. Proprio Ciatti, pratese doc e pendolare altrettanto doc (ogni giorno, da una vita, percorre in treno la tratta Prato-Firenze e ritorno) sarà il prossimo ospite dei Thè di Toscana Oggi in programma mercoledì 16 gennaio al Ridotto del Teatro Metastasio a Prato.Dottor Ciatti, cos’è e cosa fa esattamente l’Opificio delle pietre dure che lei dirige? «Oggi, dal punto di vista burocratico, l’Opificio è un istituto centrale del Ministero per i beni e le attività culturali, non ha una competenza su un territorio specifico come le Soprintendenze, ma su tutta l’Italia relativamente però ad un settore solo, quello della conservazione. Tre sono i nostri compiti istituzionali: l’operatività, cioè realizzare restauri veri e propri; la ricerca e la scuola, ovvero la formazione di nuovi restauratori. Presso l’Istituto ha sede una delle tre scuole del Ministero dedicate al restauro (le altre due sono a Roma). Trattandosi di un istituto pubblico, vorrei aggiungere che, oltre al restauro, a noi interessa progredire con lo sviluppo delle tecniche e delle applicazioni e per questo scopo abbiamo anche un laboratorio scientifico. La nostra metodologia è diversa da quella di una ditta di restauro. Il nostro scopo non è economicistico cioè quello di fare un restauro sulla base di tempi e costi, ma cerchiamo di trasformare il progetto di intervento in un progetto di ricerca, per imparare qualcosa di nuovo ed arrivare a dare di volta in volta una soluzione ai problemi che ogni opera presenta».Può darci qualche numero sull’Opificio? «Abbiamo tre sedi: questa di via degli Alfani è antica, ottocentesca, fu data all’antico Opificio dove si lavoravano le pietre e conserva ancora i resti dell’antica manifattura. Qui c’è anche il museo, la biblioteca e la scuola. Poi abbiamo la sede alla Fortezza da Basso e la terza è il Laboratorio degli arazzi in Palazzo Vecchio. Per quanto riguarda il personale, siamo un centinaio di persone fra restauratori, custodi, funzionari. Purtroppo siamo molto sotto organico perché quando sono entrato nell’istituto, nel 1984, eravamo ben 160. Il rischio è che da qui al 2015 il personale sia depauperato ancora a causa del blocco di assunzioni. Pertanto stiamo lanciando vari segnali di allarme per poter avere un sostegno da varie forme di collaborazione, in modo da pensare a progetti che coinvolgano rapporti fra pubblico e privato e dare incarichi a progetto. Diciamo che per ora l’emergenza è tamponata perché cerchiamo di non diminuire le nostre capacità operative. Fra l’altro, siamo stati anche coinvolti per l’emergenza dopo il terremoto in Emilia. Io faccio parte dell’unità centrale di crisi e con i colleghi abbiamo allestito un cantiere nella reggia di Sassuolo in provincia di Modena dove sono attualmente ricoverate più di mille opere».Appunto, «ricoverate». L’Opificio ha molte affinità con un ospedale, non è vero? «Certamente. Sono tante le similitudini. Il mio maestro e grande fiorentino Ugo Procacci diceva che non esiste la malattia ma il malato, cioè non esistono due opere d’arte esattamente uguali. Proprio come gli ammalati. Il che significa che ogni ogni volta bisogna azzerare tutto, il restauro non può essere una catena di montaggio, bisogna mettersi lì a capire i problemi e da lì si può cominciare a progettare cosa si deve fare. Quindi l’attenzione deve andare al caso individuale sempre e comunque. Detto questo la prima fase di intervento è quella delle indagini diagnostiche: la conoscenza dell’opera d’arte e dei significati che essa deve comunicare. In laboratorio sembra di essere in ospedale: c’è la sala radiografica, il laboratorio di analisi su materiali, vengono effettuati microprelievi, analisi con infrarossi e ultravioletti. Anche da noi esistono i vari specialisti: lo storico dell’arte, il restauratore, l’esperto scientifico. Quasi sempre è un team di persone, una squadra che deve funzionare. Proprio come negli ospedali. Per esigenze diverse, capita che nella nostra sala operatoria i capolavori rimangano per moltissimo tempo. Di frequente anche degli anni».Quindi il momento del restauro è un po’ come il momento dell’operazione chirurgica… «Certamente, ma il discorso è un po’ più complesso. Infatti oggi a volte preferiamo parlare di progetti di conservazione cioè come far vivere nel tempo e trasmettere al futuro queste opere. Scopo che si può raggiungere con tre diverse armi: il restauro, che interviene nel caso che non si possa fare a meno di un’operazione perché significa che c’è qualcosa di particolarmente grave. Tuttavia possiamo fare anche manutenzione, per evitare che si ingenerino patologie che portino in futuro ad un intervento chirurgico, ma soprattutto dobbiamo occuparci di prevenzione o conservazione preventiva che cerca di controllare molti fattori come l’inquinamento atmosferico, il microclima ecc.».Dottor Ciatti, tutti quei libri così ordinati sugli scaffali cosa sono? «C’è la nostra rivista annuale che esce dal 1986 senza interruzioni; poi c’è una collana monografica arrivata al trentaseiesimo volume e altre collane minori proprio confezionate per mettere a disposizione di tutti i risultati dei nostri studi. Molte volte le opere, grazie al restauro, consentono una lettura più chiara dei propri valori. È il caso della Madonnina in terracotta di Citerna (Perugia): una volta tolte le ridipinture, è stata attribuita a Donatello. Una bella sorpresa!»Quali sono stati i «pazienti» eccellenti dell’Opificio nel 2012? «Il 2012 è stato un anno importantissimo perché si è concluso l’intervento della Porta del Paradiso realizzata dal 1426 al 1452 da Ghiberti per il Battistero a Firenze. Nel campo dei dipinti, il 2012 ha visto l’inizio dell’intervento di restauro dell’Adorazione dei Magi di Leonardo esposta agli Uffizi per la quale ora è iniziata la fase della pulitura. Comunque per ognuno degli 11 settori operativi (oreficeria, tessuti, bronzi, materiali lapidei, mosaici, terrecotte ecc.) è stato un anno importante. Abbiamo pubblicato un intervento sul Trittico di Ambrogio Lorenzetti al museo di Asciano, conosciuto come Trittico di Badia a Rofeno. Il settore tessile ha ultimato il restauro di un bellissimo Paliotto di Santa Maria Novella. Sempre nel 2012 è stato completato per il museo dell’Opera del Duomo il lavoro su quell’incredibile capolavoro di oreficeria che è l’altare d’argento di San Giovanni con la monumentale Croce del Pollaiolo che è di una qualità da mozzare il fiato. Inoltre, ma in passato, a Prato abbiamo lavorato in Cattedrale sull’Esequie di San Girolamo di Filippo Lippi; abbiamo restaurato il Pulpito di Donatello. Per il settore oreficeria abbiamo restaurato la teca della Sacra Cintola».E per il 2013 cosa bolle in pentola? «Continueremo a lavorare alacremente. Sicuramente partirà il cantiere per l’altra Porta del Ghiberti, la Porta nord del Battistero di Firenze, fatta nel 1401. Stiamo iniziando a progettare e nei prossimi mesi apriremo un cantiere a Pistoia per le non buone condizioni di salute dello strepitoso Pulpito di Giovanni Pisano in Sant’Andrea».C’è un’opera, fra quelle a cui ha lavorato, a cui si è particolarmente affezionato? «Più di una, comunque sicuramente la Croce di Santa Maria Novella di Giotto, la prima che abbiamo restaurato negli anni 90, opera giovanile dell’artista databile tra il 1285 e il 1290, uno dei testi chiave con cui Giotto fa una rivoluzione iconografica dell’immagine del Cristo. In verità c’è una felice congiunzione di intenti fra Giotto, che spinge per raffigurare l’essere umano così come è e non in modo stilizzato, e dall’altra la volontà dei Domenicani nati proprio per combattere i movimenti ereticali tra cui quello dei Catari che propagandavano l’Eresia manichea. Insieme danno vita a questo manifesto incredibile di umanità».Ma i visitatori percepiscono i segni del restauro di un’opera «curata» e «guarita»?

«Se abbiamo svolto un lavoro fatto bene, prima ci si dovrebbe accorgere della bellezza dell’opera e subito dopo che è stata restaurata. Se l’ordine si inverte non è segno buono».

La scheda

Marco Ciatti, 57 anni, originario di Prato, si laurea a Firenze nel 1977 e dal 1980 è storico dell’arte presso il Ministero per i beni e le attività culturali; dal 1981 al 1984 ha lavorato alla Soprintendenza per i beni artistici e storici di Siena, poi dall’84 presso l’Opificio delle pietre dure e laboratorio di restauro di Firenze dove è stato direttore di vari settori e in particolare di quello dei Dipinti su tela e tavola, nonché Direttore associato della Scuola di alta formazione per il restauro annessa all’istituto e Incaricato dell’insegnamento di Storia delle arti applicate e poi di Storia e teoria del restauro presso la Scuola di alta formazione dell’Opificio delle pietre dure.

La duplice origine dell’Opificio

L’Opificio delle pietre dure (noto anche con la sigla OPD) è un Istituto autonomo del Ministero per i beni e le attività culturali, la cui attività operativa e di ricerca si esplica nel campo del restauro delle opere d’arte.

L’Istituto ha origini composite, frutto di una antica e illustre tradizione e di una moderna e articolata attività, già evidenti nella sua insolita denominazione.Il termine deriva dal latino opificium ovvero «fabbrica dove si produce qualcosa».Il nome completo, Opificio delle pietre dure e laboratorio di restauro, si spiega con la storia. Infatti l’Istituto è frutto dell’unione moderna di due diverse realtà attive da secoli nel campo dell’arte a Firenze. Due sono le radici da cui ha avuto origine. La prima, la più antica, è quella dell’antico Opificio che nacque come manifattura medicea nel lontano 1588 sotto Ferdinando I dei Medici per la produzione di opere d’arte per la corte. Con l’unità d’Italia la manifattura stava per chiudere. Per fortuna, nel dibattito nella seconda metà dell’Ottocento sulla necessità del restauro del patrimonio artistico, entrò in ballo anche la sorte dell’Opificio, che abbandonò sempre più la produzione e fu trasformato in una attività di restauro sfruttando così le competenze e abilità degli operatori che vi lavoravano.

La seconda radice affonda le sue origini nel collezionismo artistico dei Medici. Costoro danno vita ad una enorme quadreria di dipinti che ha bisogno di avere una manutenzione costante. Nasce così la figura del pittore restauratore di corte. Questa figura attraversa i secoli e le dinastie fino a diventare un impiego pubblico quando le gallerie diventano statali. Nel 1932 il grande fiorentino Ugo Procacci, allora giovane funzionario, ebbe l’idea innovativa di modernizzare il concetto di restauro, di renderlo più rigoroso, scientifico, che si avvale non più di singoli pittori restauratori ma di una unità di lavoro in un laboratorio. Sotto la sua direzione comincia ad essere applicata la radiografia allo studio delle opere d’arte.

In seguito alla grande catastrofe dell’alluvione del novembre 1966 e alla legge istitutiva del Ministero per i beni culturali ed ambientali del 1975, vennero fusi in unica entità l’antico Opificio mediceo ed il Laboratorio restauri della Soprintendenza, tra l’altro il vero protagonista dei restauri dell’alluvione. A questo nucleo furono annessi i laboratori minori sorti in seguito all’emergenza dell’alluvione.

www.opificiodellepietredure.itInfo: 055-26511