Opinioni & Commenti

Matrimonio, la Costituzione non ammette strappi

di Umberto Santarelli

E’ di qualche giorno fa una decisione della Corte costituzionale in materia di «matrimonio» (le virgolette non sono un errore di stampa) tra persone del medesimo sesso che ha sollevato il solito improvviso giro di opposti commenti, ai quali sarebbe palesemente inutile aggiungerne altri. Anzitutto sarebbe bene tener a mente che la funzione principale della Corte costituzionale è quella di giudicare «sulle controversie relative alla legittimità costituzionale delle leggi» ordinarie mediante un giudizio nel quale queste leggi sono i fatti dei quali la Corte è chiamata a valutare la conformità o la difformità rispetto alla Costituzione. Questo significa che nell’ordinamento d’uno Stato moderno non è più vero quel che prima si diceva – che il legislatore potesse fare «nero il bianco e quadrato il rotondo» –, perché la Costituzione gli segna dei limiti che restano per lui invalicabili, e della cui invalicabilità è chiamata ad esser garante la Corte costituzionale.

Se tutto questo è vero (ed è verissimo), la domanda che ci si deve porre quando si ragiona di «matrimonio» fra persone del medesimo sesso nell’ordinamento d’uno Stato costituzionale, non è se quel «matrimonio» sia o no oggettivamente meritevole d’esser previsto e regolato; ma – molto più semplicemente – se questo «matrimonio» omosessuale può o no inserirsi in un ordinamento giuridico di cui la Costituzione ha preventivamente e sovranamente disegnato la struttura.

Posto in questi termini (che sono i soli possibili), il problema in Italia è abbastanza facile da risolvere: basta leggere la Costituzione, che all’art. 29 dichiara che «la Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio» e all’art. 30 soggiunge che «è dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli». In un simile contesto di ordinamento sarebbe manifestamente impossibile inserire il riconoscimento e la disciplina d’un rapporto omosessuale pretendendo di parificarlo al matrimonio.

Si dirà che gli ordinamenti cambiano col mutare dei tempi e delle culture. È certamente vero; ma questa mutevolezza non comporta affatto che si debba riconoscere a tutti una generale e indifferenziata possibilità di veder riconosciuto dall’ordinamento dello Stato qualunque tipo di rapporto di fatto senza nessuna previa (e sovrana) valutazione della sua oggettiva riconoscibilità. È altrettanto vero che nell’universo del diritto tutto è riconducibile a esperienza, ma resta anche innegabile quel che insegnò un maestro insospettabile come Riccardo Orestano, quando scrisse che «senza farina non si fa pane, senza uva non si fa vino, senza valori non si fa diritto».

Il «valore» che nel nostro ordinamento fonda il riconoscimento del matrimonio e ne giustifica la disciplina è chiarissimo: esso è chiamato a costituire la famiglia «come società naturale» fatta di genitori e figli, titolari – in quanto tali – di doveri e di diritti reciproci. In questo contesto non può trovar posto un rapporto che non sarà mai in grado di costituire il fondamento di quella famiglia che i Costituenti italiani hanno definito con tanta nitidezza. Questo è tanto vero, che quando s’è cercato di offrire una tutela a certo genere di convivenze non s’è potuto far a meno di qualificarle «di fatto».

Ci potrebb’esser un’altra scappatoia (chiamarla soluzione mi parrebbe davvero eccessivo): quella di lasciar libero ognuno di dettar le regole della propria convivenza «familiare», riservando all’ordinamento giuridico solamente la funzione di registrare questa volontà, garantendone così – a cancelli chiusi – la validità. Ma questo vorrebbe dire cancellare non solamente il diritto ma ogni regola di convivenza.