Caritas

Morelli (Caritas), “ponti di umanità per abbattere i muri d’odio”

Armi, accoglienza, povertà: intervista al delegato regionale Caritas

«Raccontare il volto di una Chiesa capace di farsi prossima all’umanità ferita. Dare voce agli ultimi, agli invisibili, fare in modo che nessuno venga messo in zone d’ombra. Creare ponti di dialogo, dove nascono muri d’odio». Secondo don Emanuele Morelli, delegato regionale Caritas, sono queste le sfide che le Caritas della Toscana hanno davanti. Sfide di cui si è parlato al 44° Convegno nazionale delle Caritas diocesane che si è svolto dall’8 all’11 aprile a Grado, in provincia di Gorizia. Vi hanno preso parte 613 delegati: rappresentate anche 14 diocesi della Toscana.

Al convegno è stata annunciata anche l’iniziativa che sarà lanciata dalla Chiesa italiana durante il Giubileo: un progetto di microcredito sociale per persone indebitate e famiglie, in collaborazione con le Fondazioni antiusura, con una colletta nazionale che durerà tutto l’anno. Il tema di fondo approfondito e declinato durante il convegno è stato «Confini, zone di contatto e non di separazione». Non a caso si è svolto tra Grado, Gorizia e Nova Gorica, terra di frontiera tra Italia e Slovenia.

Oggi molti confini sono segnati da tensioni o da conflitti. Qual è il messaggio che viene dal convegno?

«Eravamo in una terra segnata da confini, da muri: il muro nella piazza tra Gorizia e Nova Gorica è durato più del muro di Berlino, è stato abbattuto non tantissimi anni fa. Questo tipo di esperienza ha colpito tutti i partecipanti al convegno, è una provocazione: abbattere i muri, creare legami, generare reti. Il confine non è solo un fatto geografico, ci sono confini che ognuno di noi ha nel proprio animo, pregiudizi da superare».

In una fase in cui si teme l’inasprirsi delle guerre qual è l’impegno delle Caritas per la pace?

«Il tema della pace ha fatto da sfondo a tutto il convegno. La pace non si costruisce a parole, chiede azioni da compiere. Si è detto ad esempio che la legge 185 del 1990 sul commercio delle armi, fortemente voluta anche da tante realtà cattoliche, viene lentamente smantellata pezzo dopo pezzo. La legge dice, già nell’articolo 1, che l’esportazione e il passaggio di armi deve seguire i principi della Costituzione che ripudia la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali: no quindi alla vendita di armi a Paesi in guerra o a Paesi che violano i diritti civili. È una legge che chiede anche al Governo misure per una graduale conversione a fini civili delle industrie belliche. Nel convegno è stata richiamata con forza la necessità di difendere questa che è una buona legislazione, una legge a favore della pace, che chiede di regolamentare il commercio delle armi. Dobbiamo ricordare a tutti che questa è la posizione della Chiesa, anche a sostegno delle affermazioni di papa Francesco che poi vengono strumentalizzate ma che sono semplici affermazioni di buon senso. Nessuno misconosce chi è l’aggressore e chi è l’aggredito, ma il negoziato deve essere sempre il primo obiettivo. Caritas italiana pone grande attenzione anche sui conflitti dimenticati, guerre a bassa intensità che feriscono in tante parti del mondo la nostra umanità. Dal convegno è uscito un grido molto forte per la pace, per il disarmo, per fermare ogni tipo di conflitto, anche gli scontri non cruenti ma ideologici che ci possono essere sul nostro territorio».

Adesso le Caritas toscane dovranno riportare tutto questo sui loro territori.

«Tutto quello che abbiamo detto e sperimentato dovrà essere declinato in percorsi pastorali. Le Caritas devono essere capaci di animare le comunità, sia a livello ecclesiale che anche nei confronti della società civile. Anche sul territorio dobbiamo costruire relazioni, pensare progetti con tutte le realtà che sono interessate all’umano, alle persone ferite. Dare voce ai poveri, agli esclusi, agli scartati. Il cammino sinodale ci ha insegnato in questi anni a essere Chiesa che cammina insieme, in cui la testimonianza della carità non è delegata ad alcuni ma fa parte dei progetti pastorali».

Qual è oggi il volto della povertà con cui le Caritas hanno a che fare?

«È un volto che cambia e dobbiamo essere attenti a coglierne le trasformazioni. C’è per esempio il tema della povertà educativa, che riguarda tanti minori. Non c’è solo la necessità alimentare da soddisfare, c’è un bisogno di relazioni da costruire, di percorsi da attuare per uscire dalla condizione di assistenza».

Com’è cambiata in questi anni l’attività di accoglienza?

«L’accoglienza dei profughi, dei migranti è ormai l’ordinarietà, non è più un’emergenza. Come Chiesa siamo provocati a essere comunità che accoglie lo straniero. È una questione però che dobbiamo anche rilanciare sulle istituzioni, non riguarda solo la comunità ecclesiale. Ci riguarda tutti, come cittadini. Deve essere affrontata dal punto di vista legislativo, dei percorsi d’integrazione. La richiesta d’accoglienza cresce. Le risposte è difficile misurarle, è una cosa complessa. Le Caritas diocesane sono organismi pastorali ma in genere si appoggiano, attraverso forme e modalità diverse nelle varie diocesi, a organismi gestori che sono molto esposti: pensiamo a Firenze, a Livorno, dove ci sono strutture anche numericamente importanti. Le Caritas fanno la loro parte ma ovviamente non possono fare tutto questo da sole, non potrebbero rispondere alla vastità del fenomeno. Però il loro apporto è fondamentale, anche come testimonianza».

Anche in Toscana c’è stata attenzione, nei giorni scorsi, per la fine del Ramadan. Le Caritas sono un luogo privilegiato per l’incontro e il dialogo tra le religioni?

«Molte delle persone che noi incontriamo sono musulmani, sono una presenza importante nei nostri centri d’ascolto, nei nostri servizi sul territorio. Viene spontaneo allora fare gli auguri per la festa che chiude il Ramadan. Anche qui la risposta è nel costruire ponti di umanità, di incontro e dialogo».