Pisa

Primo annuncio

di Tommaso StrambiL’ultima nota dei vescovi italiani, «Questa è la nostra fede», invita la comunità ecclesiale ad inserire con urgenza il tema del «primo annuncio» nell’agenda pastorale. Un invito che sarà al centro della tre giorni di formazione per il clero in programma da martedì a giovedì prossimi alla casa «Regina Mundi» di Calambrone. Tre giorni di riflessione e di confronto cui parteciperanno don Paolo Sartor, responsabile del servizio catecumenato della Diocesi di Milano, don Vincenzo Solazzi, parroco della «Sacra Famiglia» di Fano, don Giuseppe Raciti, parroco di «San Gelasio» di Roma e monsignor Domenico Sigalini vescovo di Palestrina e presidente del Centro di orientamento pastorale. Ed è proprio con monsignor Sigalini che, alla vigilia della tre giorni di formazione, abbiamo affrontato il tema dell’annuncio del Vangelo a coloro che si confrontano per la prima volta con la proposta cristiana. Perché si parla di primo annuncio?

«Molte persone in Italia sono di cultura cristiana, ma non credono in Gesù Cristo; hanno abitudini sociologicamente legate al mondo cristiano, ma non si sono mai decise per Gesù Cristo. Non è solo la pratica dei sacramenti o la partecipazione alla messa domenicale che manca, ma la fede. Il primo annuncio è quella proposta, centrata sul contenuto fondamentale della fede, che la comunità cristiana fa per mettere le persone in condizione di decidersi per Cristo, per aiutare a cogliere Gesù come salvezza globale della vita, come senso e speranza definitiva, come il Dio della pienezza e dell’eternità. Il primo annuncio non si preoccupa di tutta la coerenza dei comportamenti, delle regole di vita, ma di far scattare nella persona la fiducia radicale in Gesù morto e risorto e di farla aderire alla sua Parola. Il primo annuncio non è un percorso di vita cristiana, ma è un percorso di avvicinamento alla vita di fede e di ascolto-accoglienza del suo centro».

Proviamo a tracciare un identikt dei destinatari del primo annuncio…

«Sono tutti quelli che hanno bisogno di questa decisione, dai bambini che non distinguono tra Henry Potter e Gesù o tra babbo natale e Dio, ai giovani che hanno solo partecipato quasi obbligatoriamente ai catechismi dell’infanzia e oggi non sanno più che cosa è credere in Gesù, agli adulti che riducono la chiesa a una agenzia del sacro e non conoscono la parola di salvezza che è Gesù, se non per le tradizioni scolorite».

Tra i destinatari ci sono anche i separati e i divorziati, di cui si è discusso ampiamente nel recente Sinodo dei vescovi?

«Non necessariamente, perché possono avere anche una fede vera, ma essersi discostati da essa per comportamenti sbagliati. Il primo annuncio non ha come primo obiettivo la coerenza, ma le ragioni profonde della fede che motivano la coerenza. Molti di loro però sono in queste condizioni, cioè hanno questo comportamento perché non credono. Anche per loro quindi c’è spazio per l’annuncio di fede che li salva. Il problema dei sacramenti non è primario in queste condizioni. Potranno sempre però pregare e avere fede in Dio, anche se sono in situazioni errate».

Tanti giovani si allontanano dalla Chiesa dopo la Cresima. Che tipo di proposta può essere fatta loro? «Il mondo giovanile è forse quello che ha più bisogno di un primo annuncio, perché molti hanno abbandonato la fede prima di capirne la portata. Non sono mai stati in grado di farsi domande profonde sul senso della vita e soprattutto non hanno mai avuto possibilità di accogliere proposte adatte. Hanno abbandonato la Chiesa senza avere messo mai al centro la persona di Gesù. Un annuncio che li scuote, che li aiuta a prendersi in mano la vita, che permette loro di collocarsi di fronte a Gesù come il giovane ricco è indispensabile. Hanno domande di vita piena e si trovano sempre risposte fatte di placebo o di inganni. È un annuncio che fa nascere domande, che aiuta a dare un nome alla ricerca di senso alla vita e lo fa incontrare nella persona di Gesù. Deve essere un messaggio controcorrente, trasgressivo, oserei dire». Giovani che spesso si trovano a confrontarsi con la precarietà del lavoro, con la difficoltà a formarsi una famiglia…«La precarietà credo proprio che sia una strada privilegiata per scriverci dentro la fede, per aiutarli a non disperare, a trasformare la precarietà in ricerca, la lenta transizione al”età adulta in percorso di fede. Essere precari non è una maledizione, può essere una dimensione della finitezza della vita umana che invoca una pienezza. La fede è proposta di pienezza. La delicatezza della scelta di costruire una famiglia richiama in causa la sorgente dell’amore che è Gesù e un percorso di fede può aiutare a costruire un percorso di amore vero, non mutuato dalle contraffazioni della moda e dell’andazzo generale.