Opinioni & Commenti

Referendum, un «sì» convinto al terzo quesito

di Claudio Turrini

C’è una probabilità su mille che i referendum di domenica 21 e lunedì 22 giugno superino il quorum del 50%. Non succede dall’11 giugno 1995, quando i quesiti furono 12 e vinsero i «no» in sette casi, tra cui quello sul divieto di interruzioni pubblicitarie nei programmi tv. Questa volta poi – su pressione della Lega Nord – si è fatto di tutto per favorire l’astensionismo.

Votare per i referendum lo scorso 6-7 giugno avrebbe fatto risparmiare almeno 200 milioni di euro. Ma per la Lega era troppo alto il rischio che il quorum venisse raggiunto e minacciò una crisi di governo. E dopo il successo alle amministrative Umberto Bossi ha ottenuto dal premier l’impegno a tacere su questo argomento. Ma un po’ tutta la classe politica, anche quella che si è adoperata per la raccolta delle firme, ha mantenuto un basso profilo sui quesiti (come del resto sulle Europee), concentrandosi piuttosto su amministrative e ballottaggi.

E questo è uno dei tanti paradossi di questa vicenda. Perché i referendum popolari abrogativi sono uno strumento di democrazia previsto dalla Costituzione (art. 75) per dare ai cittadini la possibilità di «correggere», abrogando in parte o in tutto, una legge (non tutte) votata dal Parlamento. Si può capire che l’iniziativa parta da un partito che ha fatto la sua battaglia, ma l’abbia poi persa e chieda perciò l’«aiuto» dei cittadini. Molto più strano, come è accaduto in questo caso, che alcune delle forze di centrodestra che alla fine del 2005 approvarono a tempo di record una nuova legge elettorale, raccogliessero poi le firme per cambiarla, dopo l’esito «infausto» del 2006 (quando Prodi vinse pur ottenendo al Senato meno voti di Berlusconi). Nel comitato promotore dei referendum troviamo illustri esponenti di An, come Gianni Alemanno, e di Forza Italia, come Renato Brunetta e Stefania Prestigiacomo, in compagnia di altri dell’opposizione, da Antonio Bassolino a Giovanna Melandri. Ma a raccogliere le firme si impegnarono anche altri «big», come Antonio Di Pietro, che oggi invita a votare «no» per non fare un favore a Berlusconi.Le leggi elettorali sono sistemi complessi, che si rivelano buone solo se alla prova dei fatti funzionano bene. Questa legge, che lo stesso estensore definì poi una «porcata», introduce cose discutibili (soglie di sbarramento e premio di maggioranza alla coalizione) assieme ad altre inaccettabili. Tra queste, le liste «bloccate» (che purtroppo non è stato possibile affrontare con il referendum) e le candidature multiple, che – come era già successo in Toscana per le elezioni regionali – permettono ai vertici di partito di decidere da soli e in anticipo chi verrà eletto. Il cittadino può solo scegliere il simbolo da votare. Al resto ci pensano i partiti.

Se a qualcuno va bene così, allora domenica vada pure al mare, perché astenersi è legittimo. Ma se invece vuole tentare (senza troppe illusioni) di correggere questa «porcata», vada alle urne e voti «sì» almeno al terzo quesito, quello sulle candidature multiple. Sugli altri due (rispettivamente per Camera e Senato) si possono avere più dubbi. Attribuire il premio di maggioranza al solo partito vincente (invece che alla coalizione) spinge verso il bipartitismo e non tutti, penso, condividono questa prospettiva.

Ma un «sì» costringerebbe almeno i partiti a trovare un accordo per cambiare questa legge.