Lettere in redazione

Renzi, i dispetti del Pd e il giuramento sulla Costituzione

In una recente trasmissione televisiva il Sindaco di Firenze Matteo Renzi ha confermato la sua formazione cattolica, ma per accativarsi le simpatie dei laici si è affrettato a  precisare che lui ha giurato sulla Costituzione e non sul Vangelo. A questo punto andrebbe ricordato che i Presidenti americani, Obama compreso, giurano sulla Bibbia e nessuno negli Usa si scandalizza.

Ivan Devilnoindirizzo email

Credo sia giusto tornare a parlare della presenza di Renzi nella politica nazionale proprio per l’interesse che Toscana Oggi e i suoi lettori portano alle vicende della comunità. Allora cadono le braccia: invece di fare tesoro dell’errore del passato la nomenclatura del Pd preferisce insistere nello sbarrare la strada a quello che attualmente appare, a torto o a ragione, l’unica possibilità di rinnovamento nel panorama sempre più deteriorato della politica. Si direbbe quasi che un gusto perverso e sadico serpeggi a sinistra, come se temesse di raggiungere la guida del paese. Contemporaneamente si è messa in moto la disinformazione e la denigrazione: gente che per dieci anni non ha battuto ciglio per l’inconsistenza dell’amministrazione fiorentina oggi ha scoperto la vena critica malgrado gli indubbi sforzi di governare i bisogni in un periodo di grandi difficoltà.

Che dire? Aggiungere commenti sarebbe fazioso, ma è certo che questa politica dei piccoli dispetti, non ultimo l’esclusione di Renzi dagli elettori del presidente della repubblica, non lascia presagire niente di positivo per il futuro della sinistra e del Paese.

Emilio BianchiFirenze

Due lettere su Matteo Renzi, una a favore e una invece critica. Non c’è dubbio che l’attuale Sindaco di Firenze faccia discutere, divida anche i nostri lettori. Oggi affermare che un politico è «divisivo» (nuovo termine alla moda), suona fortemente negativo. Ma è inevitabile esserlo, quando si cerca di cambiare uno status quo, quando ci si trova a lottare contro tutta la nomenclatura di un partito. Val la pena di ricordare che al momento delle primarie, lo scorso novembre, stavano con Renzi solo 15 dei 300 parlamentari del Pd e solo il 5% dei segretari di sezione. Eppure il 40% circa di chi partecipò a quelle primarie lo preferiva al segretario Pierluigi Bersani. Io credo che la sconfitta elettorale del centrosinistra alle ultime elezioni politiche (o la mancata vittoria, se si preferisce), sia iniziata proprio lì. Nell’aver fatto primarie di coalizione, includendo anche Vendola di Sel, con il quale Bersani aveva stretto un patto che – come si è visto alla prima difficoltà – si è subito sfaldato. Nell’aver respinto con regolamenti assurdi (mai usati sia prima che dopo per le primarie) e con feroci polemiche quei cittadini non iscritti al partito che nel nome di Renzi erano disposti a partecipare, ad avvicinarsi al centrosinistra, delusi dalle altre forze politiche. E nel non aver capito che seppur sconfitto dalla primarie, il Sindaco di Firenze rappresentava comunque una risorsa per il centrosinistra da utilizzare e valorizzare in campagna elettorale e di cui tener conto per determinare la linea del partito.

Non esiste ovviamente controprova e non pretendo di convincere tutti i nostri lettori, ma penso che se quelle primarie fossero state condotte in modo meno fazioso il Movimento 5 stelle avrebbe ottenuto comunque un buon risultato (perché il vento dell’antipolitica è molto forte), ma non nella misura in cui poi è accaduto. Forse Bersani non avrebbe potuto contare comunque sulla maggioranza al Senato, a causa del «porcellum» e della rimonta del Pdl, ma il quadro politico sarebbe stato diverso. Dopo il voto, poi, il Pd ha inanellato un errore dietro l’altro, fino al «parricidio» di Romano Prodi da parte di cento franchi tiratori. Vediamo se la lezione è servita e se con la nascita del governo Letta e le dimissioni di Bersani si apre una nuova fase anche per il Pd. Lo diciamo non da partigiani di uno o di un altro leader, ma da osservatori preoccupati per la situazione del Paese e per il disagio crescente contro l’intera classe politica.

Quanto alla frase di Renzi che non è piaciuta al signor Devilno, non credo possa essere liquidata semplicemente come una «captatio benevolentiae» verso i «laici». Casomai intendeva sbarrare la strada alla candidatura di Franco Marini, in nome della regola non scritta dell’alternanza al Quirinale di un «laico» e di un «cattolico».

Ma se lasciamo da parte il contesto nel quale Renzi l’ha utilizzata, esprime un principio che trovo valido per il cattolico che si impegna in politica. Al primo congresso del Partito popolare (1919) don Luigi Sturzo spiegò perché non aveva voluto fondare un «partito cattolico»: «I due termini – disse – sono antitetici; il cattolicesimo è religione, è universalità; il partito è politica, è divisione. Fin dall’inizio abbiamo escluso che la nostra insegna politica fosse la religione, e abbiamo voluto chiaramente metterci sul terreno specifico di un partito, che ha per oggetto diretto la vita pubblica della nazione». E dopo aver chiarito che questo non implica cadere all’opposto nell’errore del liberalismo «che reputa la religione un semplice affare di coscienza», aggiungeva: «non possiamo trasformarci da partito politico in ordinamento di Chiesa, né abbiamo diritto di parlare in nome della Chiesa, né possiamo essere emanazione e dipendenza di organismi ecclesiastici, né possiamo avvalorare della forza della Chiesa la nostra azione politica, sia in parlamento che fuori del parlamento, nella organizzazione e nella tattica del partito, nelle diverse attività e nelle forti battaglie, che solo in nome nostro dobbiamo e possiamo combattere, sul medesimo terreno degli altri partiti con noi in contrasto».

Claudio Turrini