Vita Chiesa

Romena: un anno e mezzo di sosta per «coltivare» l’anima

«Creare bellezza, accogliere chi passa, custodire la sapienza dei contadini». Dopo 25 anni Romena riparte da qui. Che in fondo è quello che ha sempre fatto. Non è una novità per chi segue la vita della comunità, nata nel 1991 attorno a questa pieve millenaria del Casentino. Era nell’aria da tempo. Nel sito internet si leggeva già di un «periodo speciale: un anno e mezzo di cammino lungo i valori fondanti della fraternità: umiltà, fiducia, libertà, leggerezza, fedeltà, perdono, tenerezza e amore. Un cammino per toccare le radici vitali della nostra esperienza e da lì ricominciare». Perché «negli ultimi anni la Fraternità è cresciuta, sono aumentati gli spazi fisici, si sono moltiplicate le iniziative e le richieste di parteciparvi. Ma l’anima di Romena ha faticato a seguire il ritmo di questi cambiamenti, non ha avuto modo di consolidarli, di armonizzarli».

L’annuncio ufficiale è arrivato il lunedì dell’Angelo, al termine di una giornata di festa, nonostante il tempo inclemente. Nel pomeriggio è un susseguirsi di ricordi e testimonianze, intervallate dall’ironia gioiosa della Compagnia delle arti di Romena, che da 16 anni anima tutti gli incontri della comunità oltre a portare, con i suoi spettacoli, un po’ di gioia nelle case di cura per anziani o nelle residenze per disabili.

Sono quasi le 18,30 quando nell’auditorium stracolmo di persone tocca a «don Gigi»: «Il senso della mia vita – spiega – è stare qui. Semplicemente esserci». Un esserci «fatto di attenzione, di passione, di capacità di ascolto, di sciogliere i nodi, di ritrovare il sapore sempre nuovo dell’essenziale. Siamo noi che facciamo povera Romena o ricca Romena». «Sono i gesti piccoli le cose più belle di questi 25 anni – continua don Luigi Verdi –. Il prenderci cura del dono della vita in tutte le forme, il chiedere perdono, scusa, il dire la verità una buona volta, la gentilezza, il rincorrere uno che hai offeso, o magari uno che ti è andato via arrabbiato da questo posto e te come padre aspetti che se non è quest’anno, quello dopo o quello dopo ancora, lui possa tornare. Alla fine conta solo l’intensità di come si vive».

Dice di non sopportare più – nel tempo – alcune cose. Come la parola «felicità», «perché è molto lunatica: un giorno c’è e un altro non c’è». Lui preferisce la «gioia», «da tenere nel cuore anche quando le cose non vanno bene, non come le pensavi e le sognavi». O come la parola «sereno»: «Io sto agitato, ansioso e non ho nessuna voglia di essere sereno», mette subito in chiaro. Ma non vuole più sentir parlare neanche di «fraternità», «perché ognuno viene e la pretende e se vede una contraddizione di collaboratori o di me dice: “non è fraternità, mi avete fregato”». «E allora basta con questa parola fraternità – annuncia don Gigi –. Vorrei che da ora in poi si chiamasse semplicemente Romena». «Non s’ha da vincere più nulla. Non s’ha da raggiungere chissà cosa. Si può tornare semplicemente a vivere, senza l’ansia del futuro, senza l’ansia di qualcuno che continui dopo di me, senza l’ansia di essere una delle più belle fraternità».

Prima di lui sul palco era salito Wolfgang Fasser, il fisioterapista svizzero, non vedente, che negli anni Novanta, reduce da una lunga esperienza di volontariato in Africa, si era stabilito a Quorle, alle pendici del Pratomagno. Massimo Orlandi, nel presentarlo, ricorda come i due si incontrarono. «Gigi lo conobbe dando l’acqua santa alle poche case di Quorle. Lui parlava poche parole d’italiano. Gigi capì che era un personaggio speciale e lo invitò a parlare ai giovani. Nonostante il poco italiano, Wolfang accettò l’invito». Fu l’inizio di una preziosa collaborazione. Oggi parla un buon italiano, pur con accento teutonico. Dice che questi 25 anni sono «passati molto veloci». Ma se deve indicare una stella che ha visto brillare a Romena, la più luminosa è stata la provvisorietà: «l’abbiamo vissuta volutamente, l’abbiamo cercata, l’abbiamo persa, l’abbiamo inchiodata, l’abbiamo liberata di nuovo. Questa meravigliosa provvisorietà in ogni cosa, questo continuo cammino e questo continuo svegliarsi nel qui e ora». E spiega come la provvisorietà suggerisca «adesso di fermarsi un po’, di andare in silenzio per ascoltare… il volere un po’ meno, ma affidarsi di più». Per non cadere «in questo carosello di voler diventare sempre più forte, più rumoroso, più luminoso, più colorato, più denso».

Romena, continua Wolfang, è come un albero. È nato un po’ a caso, come quando «un uccellino lascia cadere un seme». Ma ha trovato un humus fertile nelle persone e oggi «è un bell’albero con un bel tronco e dei bei rami e foglie», di cui le veglie animate da don Gigi in giro per l’Italia sono i fiori più belli. «Gigi – ricorda Fasser – mi ha dato la consegna all’eremo di custodire le radici di Romena: la semplicità, la comunità, la contemplazione, la natura, l’essere semplice… Così tornando al nostro anno lo vedo come una chance di riposarsi, di appoggiarsi a questo albero e stare un po’ alle radici: ascoltare quello che racconta l’albero, ma anche ascoltare quello che si ha intorno». Il momento, aggiunge, è quello giusto «perché siamo esposti ad una grande seduzione, quella del successo. Romena e la fraternità hanno fatto un gran successo: la conoscono a destra e a sinistra. Possiamo essere comprati dal successo. Non lo vogliamo».

La giornata era iniziata sulla «via della Resurrezione», un percorso a piedi che si sviluppa nella natura e nei boschi che circondano la pieve ed è scandito da otto icone che richiamano ciascuna una delle otto «parole chiave» dell’esperienza di Romena. Quelle stesse parole che saranno al centro della riflessione in questo anno e mezzo di «sosta».

Poi, nella pieve, la Messa celebrata dal vescovo di Fiesole, mons. Mario Meini e che ha visto anche il conferimento della Cresima ad alcuni giovani. Nell’omelia, il vescovo ha ringraziato don Luigi e quanti collaborano con lui per questi 25 anni di Romena: «i numeri – ha spiegato – potrebbero dare motivi di orgoglio. Le testimonianze di vita: quelle fanno storia. Spesso segnate dalla sofferenza però poi aperte alla speranza, alla pace interiore, alla serenità. Una serenità inquieta che rimanda oltre», alla «pace nel Signore».

«Sto pensando anche alle strutture, che son cresciute mese dopo mese, anno dopo anno – ha detto ancora il vescovo –. E son strutture di accoglienza. Accoglienza ma non per trattenere, bensì per rilanciare, per rimandare oltre. Ogni pietra può raccontare tanto e soprattutto ogni persona può lodare Dio e può sentirsi meglio con se stessa». E alla fine della Messa arriva l’invito a don Gigi a «non smettere mai di sognare».