Il film: “May December”, le vite fragili dietro alle brutte storie

Fresco del successo al Festival di Cannes e della nomination agli Oscar per la Migliore sceneggiatura originale, arriva in sala «May December», un film complesso e sfaccettato che non può lasciare indifferenti

Correva l’anno 1997, l’America era sconvolta da una storia d’amore che amore non era proprio: Mary Kay Letourneau, maestra elementare di trentasei anni, venne colta sul fatto col suo amante, Vili Fualaau, di soli dodici anni. Condannata per stupro, la donna fu rilasciata dal carcere nel 2005, si sposò con Fualaau che nel frattempo era diventato adulto, ed ebbe da lui due figlie.

Todd Hayes si approccia a questa storia non direttamente, ma in modo quasi sperimentale, non raccontando la vicenda di una donna adulta che seduce un ragazzino, ma scegliendo piuttosto di raccontare il tipo di cinema che potrebbe raccontare una storia del genere. Il risultato è un gioco di specchi – elemento morbosamente ricorrente nel film – che provoca, interroga, mette alla prova.

Quello che colpisce da subito di «May December»è che si tratta di un film tecnicamente brutto: la fotografia di Christopher Blauvelt è quasi televisiva e in continua sovraesposizione; le musiche di Marcelo Zavos sono usate in modo brusco, grottesco; molte scena sono evidentemente un “buona la prima” su cui non si è posato lo sguardo più di una volta. Eppure niente di tutto questo è casuale.

Interrogandosi su quale tipo di cinema potrebbe mai avere il desiderio di approcciarsi a una storia del genere, Hayes appiattisce ogni elemento stilistico al livello di tabloid scandalistico, spesso non superando la qualità visiva del film televisivo che guarano ogni tanto i personaggi, ispirato al reale «All-American Girl: The Story of Mary Kay Letourneau»di Lloyd Kramer.

La famiglia protagonista è chiaramente disfunzionale: la Gracie di Julianne Moore è bipolare, tirannica, manipolatrice, ma tragicamente fragile; il Joe di Charles Melton è un uomo-bambino prigioniero di un’eterna adolescenza; i figli, la famiglia allargata, tutti sono un campionario di traumi, di cicatrici più o meno profonde generate dalla vicenda. Ma non sono loro il fulcro tematico del film.

La prospettiva è non a caso quella di Elizabeth, una straordinaria Natalie Portman, attrice che segue per alcuni giorni Gracie cercando in lei ispirazione per costruire il personaggio che interpreterà nel film ispirato alla sua vita. Distaccata e fredda, l’attrice è l’intera industria dello spettacolo, che passa vicende terribili nel tritacarne del marketing senza curarsi dei sentimenti dei dirertti interessati. Per quanto il dramma familiare sia scioccante o patetico, l’effetto sul pubblico è solo alienante, perché già filtrato da un film che si pone in primo luogo come un al-di-là-dello-schermo fittizio, de-umanizzato. “Non è una storia, è la mia vita!” esclama Joe, ma l’appello non è diretto tanto a Elizabeth quanto al suo pubblico, che sorbirà la vicenda come fosse un romanzo d’appendice.

Anche la colonna sonora, che entra in modo così grossolano sulle scene per renderle se possibile ancora più morbose, è in realtà il tema di Michel Legrand per «Messaggero d’amore» di Joseph Losey, altra storia di un adolescente manipolato dalla donna adulta di cui è innamorato: un ulteriore filtro, un altro livello di fittizio.

Le brutture emotive, relazionali, psicologiche, etiche e perfino tecniche di «May December»non parlano perciò di una terribile storia di pedofilia e abuso, ma della morbosità del pubblico che vuole vederla, sentirla raccontare, sviscerarla. In pratica, di noi in sala.

MAY DECEMBER di Todd Haynes. Con Natalie Portman, Julianne Moore, Charles Melton, Elizabeth Yu. USA, 2023. Drammatico.