Il film: “Ritorno a Seoul”, alla ricerca delle proprie radici dentro uno spartito intimo e malinconico

L’esercizio della lettura a prima vista consiste nel saper suonare un brano musicale senza averlo precedentemente studiato. Il concertista interpreta i puntini neri dello spartito nello stesso istante in cui li osserva per la prima volta. È la tecnica musicale di cui parla agli amici Freddie, la protagonista di Ritorno a Seoul, seconda pellicola del regista franco-cambogiano Davy Chou (Diamond Island, l’esordio del 2016). Venticinque anni, adottata da piccola da genitori francesi ed ora residente a Parigi, la ragazza, che prima dell’adozione si chiamava Yeon Hee, è diretta a Tokio; ma uno scalo inaspettato nella capitale della Corea del Sud la spinge a mettersi sulle tracce dei suoi sconosciuti genitori biologici. Recandosi al centro che anni prima aveva curato le pratiche della sua adozione, inizia così un doloroso viaggio nel cuore di tenebra della propria storia, attraversando le città di quella terra che l’aveva vista nascere e che, adesso, le appare straniera e quasi ostile.

Tratto dalla vera storia di Laure Badufle, con il trascorrere del soggiorno coreano, lo spartito di Ritorno a Seoul viene attraversato dalle dissonanze che si creano all’ascolto delle lingue articolate dai protagonisti: il francese che Freddie ha imparato a parlare nella sua terra d’adozione, il coreano che le risulta ormai completamente incomprensibile, l’inglese che, conosciuto da tutti, facilita i dialoghi ma non l’interpretazione dei movimenti dell’anima. Al termine di un lungo percorso della durata di otto anni, Freddie ritroverà entrambi i genitori che adesso vivono separati in città diverse, un padre alcolizzato che può contare sul supporto di una famiglia amorevole e una madre persa nei suoi pensieri e lontana da tutti.

Dal doppio incontro Freddie uscirà con una sconvolgente sensazione di dolceamaro, sempre in bilico tra il sentirsi abbandonata e il percepire un immenso amore paterno e materno. Ritorno a Seoul, presentato in Un Certain Regard a Cannes 2022, è una pellicola che si regge soprattutto sui vuoti, su ciò che non si vede, sui silenzi della protagonista. Spesso troviamo la ragazza fissa ad osservare ciò che accade nel mondo che la circonda, protetta e isolata dal finestrino di un’auto oppure dallo schermo di un computer o di uno smartphone. Per poi magari vederla abbandonarsi a esplosioni di gioia, cariche di musica e adrenalina, dove i ritmi amplificati e le danze primitive anestetizzano il suo dolore esistenziale. Per rendere al meglio lo straniamento che pervade la pellicola, Davy Chou si affida a sequenze spesso ambientate in locali poco illuminati e fumosi, in vie anguste e malfamate, ma anche in grandi strade piene di insegne luminose sfavillanti, cupe e simili al futuro distopico di Blade Runner.

Per un film che musicalmente spazia dalle melodie coreane al genio di Johann Sebastian Bach, in Ritorno a Seoul la musica si eleva a luogo d’incontro delle anime perse, a musa consolatrice di uomini malinconici, a lingua universale compresa e parlata da tutti. Nella sequenza finale, una lettura a prima vista diventerà la protagonista della narrazione. Dopo le prime balbettanti note, la melodia eseguita al pianoforte da Freddie si metterà in moto e la musica inizierà a scorrere fluida e carezzevole, andando ben oltre l’idea di una prima superficiale esecuzione. Fluida e carezzevole, così come la vita della stessa ragazza (una bravissima Park Ji-min) che, chiusi i conti con il passato, potrà finalmente guardare al futuro con maggior sicurezza e serenità.

RITORNO A SEOUL [Retour à Séoul] di Davy Chou. Con Park Ji-min, Oh Kwang-rok, Choi Cho-woo, Guka Han, Kim Sun-young, Yoann Zimmer, Louis-Do de Lencquesaing. Produzione: Aurora Films, Vandertastic Films, Frakas Productions; Distribuzione: I Wonder Pictures, MUBI; Cambogia, Francia, Belgio, Germania, Corea del Sud, Romania, Qatar, 2022 Drammatico; Colore Durata: 1h 59min