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Settimana sociale, documento preparatorio

Comitato Scientifico e Organizzatore delle Settimane Sociali dei Cattolici ItalianiCATTOLICI NELL’ITALIA DI OGGI.AGENDA DI SPERANZA PER IL FUTURO DEL PAESE

Documento preparatorio per la 46ª Settimana Sociale dei Cattolici Italiani Reggio Calabria, 14-17 ottobre 2010

INDICEIntroduzione (1)I. Bene comune globale e questione nazionale (2 – 6)

II. Orientarsi al bene comune (7 – 10)

III. Declinare il bene comune: un’operazione di discernimento (11 – 14)

IV. Un’agenda per “riprendere a crescere” (15)

Intraprendere (16-20)

Educare (21 – 24)

Includere le nuove presenze (25 – 26)

Slegare la mobilità sociale (27 – 29)

Completare la transizione istituzionale (30 – 33)

V. Eucaristia e città (34 – 37)Sigle dei documenti citati

1. Quando a metà del 2008 il Comitato Scientifico e Organizzatore iniziò a lavorare per la preparazione della 46a Settimana Sociale, si rese conto della grande eredità che aveva ricevuto dalla Settimana Sociale del centenario (Pistoia-Pisa, 2007), che aveva richiamato la forza e la piena attualità della nozione di bene comune maturata nella esperienza storica dei cattolici e nel Magistero della Chiesa. Grande ricchezza abbiamo ricevuto anche dal IV Convegno Ecclesiale Nazionale (Verona, 2006), che aveva riproposto l’esercizio della speranza cristiana.

Abbiamo avuto poi le parole chiare e forti pronunciate in Sardegna da Benedetto XVI sull’urgenza di lavorare alla formazione di una «nuova generazione» di uomini e di donne credenti capaci di assumere responsabilità pubbliche nella vita civile e dunque anche nella vita politica

Da quelle eredità e da quel richiamo – ripetuto dal Papa stesso un anno dopo a Viterbo[2] e rinnovato di recente dal Card. Angelo Bagnasco, Presidente della Conferenza Episcopale Italiana[3] – traemmo motivo per dedicare la 46ª Settimana Sociale a uno sforzo di declinazione della nozione di bene comune con specifico riferimento alla situazione del nostro Paese. Ci sembrò e ancora ci sembra un modo importante di esercitare, condividere e testimoniare la speranza cristiana.

Durante questo percorso è ulteriormente maturata la coscienza che la responsabilità per il bene comune riguarda tutti[4], che non può essere esclusiva di alcuni settori della pastorale o di individui con particolari cariche pubbliche. La pubblicazione dell’enciclica di Benedetto XVI Caritas in veritate ha segnato il momento culminante di questa prima fase preparatoria, con la ricchezza magisteriale di analisi e di nuove prospettive offerte non solo ai cattolici, ma a tutti coloro che hanno a cuore il primato della persona umana. Per quanto riguarda poi la vita del nostro Paese, vogliamo tener presente in modo particolare il recente documento dei Vescovi Per un Paese solidale. Chiesa italiana e Mezzogiorno, che ci tocca da vicino anche per la scelta, fatta a suo tempo, di celebrare la 46a Settimana Sociale a Reggio Calabria.

Questo Documento è stato pensato per l’ultima fase del lavoro preparatorio e per avviare le giornate di Reggio Calabria. Esso non pretende di essere un testo di sintesi o di riepilogare l’insegnamento della Chiesa e l’esperienza sociale dei cattolici. Ciòche vuole offrire e condividere sono alcune buone ragioni perché proceda l’opera di discernimento necessaria alla declinazione, oggi, in Italia, della nozione di bene comune.

I. Bene comune globale e questione nazionale

2. Non c’è dubbio che l’accelerazione del processo di globalizzazione è una delle caratteristiche che marcano più a fondo il tempo e lo spazio in cui siamo chiamati a vivere.

Le trasformazioni che la globalizzazione comporta in parte provocano e in parte devono affrontare gravi crisi; nello stesso tempo mettono in discussione equilibri che, prima di rivelarsi inadeguati, avevano assolto positive funzioni. Il caso forse più eclatante è quello della crisi finanziaria e più in generale socio-economica, che nel biennio appena trascorso ha conosciuto la sua massima evidenza. Certamente parte delle molte cause di questa crisi hanno a che vedere con una cattiva gestione della globalizzazione delle istituzioni economiche. Tuttavia, la possibilità di un positivo superamento di questo momento suppone non una rinuncia ma un uso coraggioso e innovatore dei nuovi assetti e delle opportunità che la globalizzazione ha prodotto per le istituzioni e le dinamiche economiche (e dunque anche finanziarie). Rinunciare alle possibilità offerte da un’economia (e dunque anche da una finanza) globale è un lusso che solo pochi possono permettersi ed è funzionale esclusivamente a ripristinare le posizioni che alcuni di questi pochi avevano[5]. Anche se la globalizzazione non produrrà spontaneamente le risposte che cerchiamo, la relativa maggiore indipendenza degli ambiti e dei livelli costituisce una condizione favorevole alla loro realizzazione (cfr CV 21).

Non meno preoccupante è lo stato di salute in cui si trovano le società “occidentali” (quelle europee e quelle influenzate dalla cultura europea). Il loro dinamismo economico e demografico, la loro leadership scientifica e tecnologica o la coscienza della propria identità e l’intensità del proprio patrimonio spirituale conoscono affievolimenti e attenuazioni. Il rischio non è certo costituito da una redistribuzione globale delle forze o da un qualsiasi mutamento degli equilibri strategici, senza voler considerare quelli “occidentali” come i modelli sociali perfetti. Un rischio molto serio è invece costituito dal frequente difetto di quel realismo che dovrebbe far riconoscere in queste società, con tutti i loro limiti e le loro gravi responsabilità, l’offerta migliore finora avvenuta e più facilmente universalizzabile delle migliori condizioni vita e del maggiore – per quanto mai pienamente soddisfacente – riconoscimento della dignità della persona umana. Persino sul piano della sicurezza, inclusivo della dimensione militare, va valutato con grande prudenza il pericolo costituito dall’avverarsi di uno scenario nel quale la forza a disposizione di autorità che controllano società meno libere divenga superiore rispetto a quella a disposizione di società più libere. Il rischio non è solo di veder deperire le condizioni di sicurezza in cui viviamo, ma anche quello di lasciar minacciare e pregiudicare le condizioni in cui versano interi continenti. È il caso dell’Africa, per il cui sviluppo e la cui libertà non abbiamo fatto abbastanza in passato e ancor meno stiamo facendo negli ultimi decenni per cercare di porre freno alla tentazione di fughe disperate, garantendo nel contempo l’accessibilità e la sicurezza delle rotte e dei canali attraverso i quali si spostano beni, informazioni e persone. Non c’è né pace, né sviluppo, né giustizia, senza libero commercio, libera comunicazione e scambi intensi.

È in questo scenario che il tema della libertà religiosa, da esercitare e da tutelare, deve essere riconosciuto come strategico da istituzioni politiche, scientifiche ed economiche, e certo ancor più dalle istituzioni ecclesiali e dai cristiani, che sono eredi delle matrici che quella libertà hanno generato, sperimentato, compreso, diffuso e istituzionalizzato.

3. Sull’accelerazione della globalizzazione, nella nitida coscienza dei suoi rischi e delle sue sfide[6], l’esperienza dei cattolici e l’insegnamento sociale della Chiesa hanno maturato un giudizio di fondo positivo che l’Enciclica Caritas in veritate esprime con grande chiarezza: «La novità principale [dei quarant’anni che ci separano dalle pubblicazione della Populorum progressio] è stata l’esplosione dell’interdipendenza planetaria, ormai comunemente nota come globalizzazione. Paolo VI l’aveva parzialmente prevista, ma i termini e l’impetuosità con cui essa si è evoluta sono sorprendenti. (…) Esso [quel processo] è stato il principale motore per l’uscita dal sottosviluppo di intere regioni e rappresenta di per sé una grande opportunità» (n. 33). Attraverso il riferimento a Paolo VI, si porta a maturazione un’intuizione straordinaria e tempestiva del Concilio Vaticano II. Cosciente dei rischi e delle inevitabili ambiguità di questo processo storico, esso aveva colto un “segno dei tempi” nella crescente capacità delle nostre generazioni di avvertire e di praticare «così lucidamente la sua unità e la mutua interdipendenza dei singoli in una necessaria solidarietà» (GS 4). La globalizzazione offre nuovi orizzonti e nuove possibilità all’amore.

Chi da cristiano si trova a vivere questo processo non può non essere interpellato dal doppio richiamo a cui Benedetto XVI ha dato voce proprio nei mesi in cui più dura si faceva la prova della crisi economico-finanziaria. In primo luogo, il processo di globalizzazione non mina la possibilità di continuare a pensare e perseguire lo sviluppo umano in tutte le sue dimensioni e con una portata sempre più inclusiva, anzi offre condizioni favorevoli che rendono più stringente la responsabilità che tutti abbiamo di spenderci in questa direzione (cfr CV 21ss). In secondo luogo, la nuova situazione non rende desueto, ma anzi esalta il riferimento al bene comune (cfr CV 6-7). Proprio questo processo rende infatti manifesta la non perseguibilità del bene comune se non in prospettive che diano il respiro necessario alle articolazioni della sussidiarietà e alle dinamiche della solidarietà (cfr CV 57)[7]. È un doppio richiamo, il cui significato viene compreso sino in fondo solo se si coglie che alla sua radice sta, oggi più che mai, la questione relativa alla persona umana e alla sua dignità, che comincia con il rispetto della vita dal suo sorgere e attraversa ogni sua fase, sino alla morte naturale. È un rispetto che si concretizza ulteriormente nel riconoscimento e nel sostegno della famiglia fondata sul matrimonio di un uomo con una donna, istituzione fondamentale per ogni società che voglia crescere e svilupparsi, come avevano ben compreso i padri della nostra Carta costituzionale. La globalizzazione, come del resto ogni processo storico, non può assicurare automaticamente o per necessità la garanzia di quella dignità e il perseguimento del bene comune.

La direzione del bene comune è quella in cui cresce il valore e la realtà della vita umana, delle sue relazioni e delle sue differenze, persino delle sue fragilità[8]. «La Chiesa propone con forza questo collegamento tra etica della vita e etica sociale nella consapevolezza che non può “avere solide basi una società che – mentre afferma valori quali la dignità della persona, la giustizia e la pace – si contraddice radicalmente accettando e tollerando le più diverse forme di disistima e violazione della vita umana, soprattutto se debole ed emarginata”» (CV 16).

Benedetto XVI con chiarezza ci pone di fronte alla responsabilità di cogliere le nuove opportunità create da questa spinta planetaria. «La carità e la verità ci pongono davanti a un impegno inedito e creativo, certamente molto vasto e complesso. Si tratta di dilatare la ragione e di renderla capace di conoscere e di orientare queste imponenti nuove dinamiche» (CV 33). Siamo così richiamati a «produrre un nuovo pensiero» e a «esprimere nuove energie» (CV 78), a intraprendere un «discernimento» caratterizzato da «realismo» (CV 21), a immaginare «soluzioni nuove» (CV 32).

Ancora una volta abbiamo di fronte nuove «cose nuove» (CA 11) da riconoscere ed entro le quali cercare le vie della verità dell’amore con realismo, coraggio e generosità. La responsabilità per il bene comune non ci pone fuori o contro il processo di globalizzazione, ma ci ricolloca al suo interno, e dentro questo processo ci propone un orientamento.

5. In questo contesto, occuparsi dell’Italia e discernere il bene comune a partire dal Paese intero non è scontato e dunque chiede ragioni. Per un verso il processo di globalizzazione procederà (o invertirà il suo cammino) anche senza attendere il contributo del nostro Paese, e magari anche grazie a contributi di sue singole espressioni locali o d’interesse. Tuttavia, ciò non esclude che l’Italia unita in questo passaggio critico potrebbe giocare un ruolo che nessuna sua singola componente potrebbe svolgere da sola. Non dimentichiamo che agli inizi della nostra storia repubblicana, quando lasocietà italiana versava in non minori difficoltà, sapemmo dare un contributo essenziale all’evolversi delle relazioni internazionali, a partire dallo scacchiere europeo. In questo momento è ancora una volta urgente riscoprire e sviluppare l’eredità della grande politica estera ed europea dell’Italia del secondo dopoguerra, dell’intuizione che fu alla base della Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio e ispirò la proposta di una Comunità Europea di Difesa, una politica e una cultura che – guardando con realismo oltre lo Stato nazione – immaginarono ed edificarono tra l’altro le fondamenta di quella che oggi è l’Unione Europea e che nacque come alternativa alla stagione segnata dalle pretese delle istituzioni politiche ottocentesche, che tanta responsabilità avevano avuto nei drammi della prima metà del Novecento. Rinunciare oggi a potenzialità effettive della comunità nazionale significa anche rinunciare a esercitare una fetta di responsabilità per il bene comune globale.

Per altro verso, il processo di globalizzazione investe pesantemente l’Italia. Ne svela le risorse, ma con la stessa chiarezza ne mette in luce le tensioni, gli errori, le omissioni e i ritardi accumulatisi da molto tempo. La globalizzazione alza il velo sul peso del debito pubblico, sullo stato dei processi di istruzione e della ricerca scientifica e tecnologica, sulla bassa produttività del sistema economico, sull’attacco continuo ai diritti della persona e della vita, sulle dinamiche demografiche spesso drammatiche, sul divario tra le opportunità offerte alle donne e quelle di cui godono gli uomini, sulla minaccia portata di continuo all’istituto familiare, sulla rarefazione dei soggetti educativi, sulla crisi da mancato aggiornamento delle istituzioni politiche, sul dilagare della povertà e delle povertà, sull’incapacità di debellare e a volte anche solo di fronteggiare con efficacia la criminalità organizzata, sull’abbandono quando non la devastazione del patrimonio ambientale, artistico e culturale.

Il divario tra Nord e Sud d’Italia è solo una delle possibili prospettive sintetiche sulle tensioni che la globalizzazione, passivamente subita, aggrava [9]. Oltre questa, potremmo ricordare le tensioni tra aree urbane di ben diversa qualità civile, il sensibile declino dell’Italia Centrale o dell’area tirrenica rispetto a quella adriatica.

Un altro sguardo sintetico sulla crisi è offerto dai mediamente bassi, e drammaticamente diversificati, livelli di capitale sociale dei nostri territori: con questa espressione ci riferiamo alla dotazione di fiducia e di relazioni di un territorio. Essi riflettono anche gli effetti debilitanti che sui soggetti hanno avuto il pluridecennale processo di degenerazione assistenzialistica di un modello di “Stato sociale”, spesso accoppiato al progetto di epurazione dallo spazio pubblico di ogni riferimento a valori condivisi, a meriti e ad autorità come quella di genitori e insegnanti e di tante tradizioni educative sorte nel mondo cattolico. Come si è potuto tanto a lungo negare lo specifico e insostituibile cospicuo contributo che alla produzione di capitale sociale può venire dalle famiglie e dalle comunità ecclesiali?

Insomma, l’Italia si trova oggi ad affrontare le prove della globalizzazione da “media potenza declinante”. Questa tendenza non ha nulla di fatale, ma non può essere negata. Affrontata per tempo, avrebbe potuto essere contrastata con efficacia e costi minori. Senza indulgere all’enfasi, possiamo però riconoscere che l’Italia è una grande risorsa, un insieme di tante e varie risorse, o per lo meno chiederci con lealtà se e quanto questo sia ancora vero.

Ciò a cui non possiamo né vogliamo rinunciare, è l’idea che una comunità come quella italiana possa ancora essere perno di una “città”. La nostra nazione ha saputo generare, sostenere, abitare e dare identità a città davvero aperte e ospitali, e anche a ciò la Chiesa e i cattolici hanno fornito, e ne hanno ricevuto, un grande apporto.

6. Ciò che intendiamo offrire al confronto ecclesiale e pubblico è un contributo che, nella prospettiva dell’insegnamento sociale della Chiesa, provi a definire i contorni e gli interrogativi – base di un’agenda realistica per la ripresa del Paese.

Lavorando e invitando a lavorare tutti insieme in questa direzione, sappiamo di servire la speranza, almeno nella misura in cui restiamo fedeli a una nozione adeguatamente vasta e pluridimensionale di bene comune e di sviluppo, quella speranza cristiana «che è una potente risorsa sociale a servizio dello sviluppo umano integrale, cercato nella libertà e nella giustizia» (CV 34)[10].

Con questo spirito, e nella memoria di centocinquant’anni di storia unitaria, torniamo ad affrontare «senza pregiudizi, né preconcetti» la questione nazionale. A quali condizioni, a patto di affrontare e sciogliere quali nodi, l’Italia può essere ancora una risorsa, un orizzonte di risorse, nell’esercizio della nostra responsabilità per il bene comune in tempi di globalizzazione?

Da cattolici, nell’Italia di oggi, abbiamo ritenuto di dover affrontare e proporre la fatica di elaborare «un’agenda di speranza per il futuro del Paese».

II. Orientarsi al bene comune

7. Nessuno può sottrarsi alla domanda su quale orientamento assumere in questi tempi che, con le parole del testamento di Paolo VI, potremmo ancora definire «stupendi e drammatici». Ciò vale anche per chi prova ogni giorno a ridire il proprio «sì» al Dio di Gesù Cristo (2Cor 1, 20), e che si sente ripetere: «Ascoltate oggi la sua voce: “Non indurite il vostro cuore”» (Sal 95, 7c-8a). Vale e deve valere per chi ha appreso dalla Chiesa che «la coscienza può volgersi al bene solo nella libertà» (GS 17)[11].

Dobbiamo però sapere bene dove e come cercare. Infatti la fede cristiana – accogliendo la rivelazione della dignità della persona umana (cfr GS 12ss; RH 8) – genera una visione ben diversa da quella delle ideologie e un’ispirazione ben diversa da quella di una semplice volontà. Questa visione e quest’ispirazione svelano e affermano la dignità della persona umana nella sua vita (dal suo sorgere e in ogni sua fase) come nelle sue relazioni (a partire da quelle che nell’amore generoso, stabile e fedele tra un donna e un uomo, attraverso il matrimonio, generano una famiglia e si aprono a nuova vita). Questa visione e quest’ispirazione si manifestano decisamente rilevanti anche per la dimensione sociale della esperienza umana (cfr CV 9), al cui centro è posta una libertà responsabile, che nella sua verità tende alla condivisione e non alla soppressione dell’altra persona. Alla sorgente di questa visione e di questa ispirazione dobbiamo aprirci sempre di nuovo con umiltà e coraggio. Da ciò dipende la possibilità del nostro sperare e del nostro testimoniare la speranza cristiana[12]

Anche questo nostro oggi, che siamo chiamati a vivere da battezzati, come nuove creature in Cristo, viene illuminato dalla visione al cui centro vi è Gesù Cristo, nel quale il Padre rivela l’uomo all’uomo (cfr GS 22), e lo Spirito Santo, che sostiene la nostra comprensione e la nostra obbedienza. Se, come non si stanca di ripetere Benedetto XVI[13]

8. L’operazione con la quale ci apriamo e partecipiamo a quella visione e a quell’ispirazione è essenzialmente ecclesiale poiché trova alimento nei sacramenti, nella Parola da cui la Chiesa è edificata e nei frutti spirituali della vita nell’amore. A essa, in modi vari e diversi, partecipa tutto il popolo di Dio. La storia del movimento cattolico italiano, e la storia stessa delle Settimane Sociali, ne costituiscono un esempio importante.

Ponendo all’inizio del nostro cammino verso Reggio Calabria il ricordo del servo di Dio don Luigi Sturzo[14], non abbiamo fatto altro che tornare a meditare sullo straordinario contributo che da un credente e da un prete è venuto a che tutto il popolo di Dio maturasse una più adeguata visione della società contemporanea e la affrontasse sostenuto da una verace ispirazione cristiana.

9. Nell’intraprendere quest’opera di declinazione, abbiamo trovato di grande aiuto alcuni aspetti della nozione di bene comune – bene di tutti e di ciascuno (cfr CV 7) –, sui quali il Magistero ha insistito in modo crescente a partire dal Vaticano II (cfr CDSC 164). Fermo restando il primato accordato alla dignità della persona umana e della sua libertà (cfr PT 5), una crescente attenzione ha ricevuto il carattere multiforme della socialità umana (cfr CDSC 151; 149-150). Nel suo essere cammino verso la comunione, essa deve assumere una pluralità di forme e una molteplicità di espressioni. La nozione di bene comune non è compatibile con una teoria della società “al singolare”. La famiglia, le associazioni a scopi economici, politici, religiosi o ricreativi, e così via, hanno un’originalità che non può essere eliminata senza danno per il bene comune[15]. Le loro logiche devono essere distinte, ma non possono essere isolate, potendo dar luogo a positive reciproche limitazioni e a positive “ibridazioni” in una società che non conosca solo scambio tra equivalenti (cfr CV 38). Dunque, come già affermava la Dignitatis humanae, il bene comune è un insieme di condizioni, la produzione delle quali «spetta tanto ai cittadini, quanto ai gruppi sociali, ai poteri civili, alla Chiesa e agli altri gruppi religiosi: a ciascuno nel modo ad esso proprio, tenuto conto del loro specifico dovere verso il bene comune» (n. 6). La Caritas in veritate, impegnata a ripensare il sistema di poteri adeguati alla realtà di una sempre più avanzata globalizzazione, giunge a conclusioni molto chiare: «per non dar vita a un pericoloso potere universale di tipo monocratico, il governo della globalizzazione deve essere di tipo sussidiario, articolato su più livelli e su piani diversi, che collaborino reciprocamente. La globalizzazione ha certo bisogno di autorità, in quanto pone il problema di un bene comune globale da perseguire; tale autorità, però, dovrà essere organizzata in modo sussidiario e poliarchico, sia per non ledere la libertà sia per risultare concretamente efficace» (n. 57).

10. Una matura coscienza del valore che la pluralità dei legami sociali acquista alla luce della rivelazione cristiana comporta un’esaltazione del principio della solidarietà. Tanto maggiore è la valorizzazione delle differenze e delle specificità, tanto più grande è il contributo specifico del condividere, del farsi amici, del sostenersi reciprocamente. La condivisione, e più in generale l’amore, non è un cumularsi di elementi anonimi, ma è un sovvenire arricchito da persona che sovviene persona, e da differenza che dona se stessa al differente. La solidarietà cristiana non nasce né tramonta nell’omogeneità, ma trae forza e allo stesso tempo alimenta la varietà e la libertà attraverso l’amore. La famiglia è paradigma e sorgente vivente di questa realtà e la Chiesa è «consapevole che il bene della società e di se stessa è profondamente legato al bene della famiglia» (FC 3).

L’estensione raggiunta dalla coscienza del principio di sussidiarietà, nella sua portata – per così dire – “verticale” e “orizzontale”, ci conduce oltre la stessa idea dei “corpi intermedi”. Quest’idea storicamente preziosissima, che ebbe anche grande e positiva influenza nella redazione della Costituzione italiana, lasciava ancora spazio a un potere sovraordinato chiamato a creare quel collegamento al bene comune che questi corpi – per l’appunto “intermedi” – di per sé non avrebbero avuto[16]. Oggi però comprendiamo meglio che se nessuna delle manifestazioni di quel pluralismo sociale di cui s’è detto può vantare il monopolio di competenza sul bene comune (non la politica, non altre), ciascuna ha un contributo specifico da recare, e che, insieme a tutte le altre, ciascuna partecipa all’incessante opera di composizione nella quale un certo grado di competizione e persino di conflitto svolge un ruolo positivo e permanente. In questa prospettiva, persino l’espressione “corpi intermedi” (tra l’individuo e lo Stato) risulta per tanti versi insufficiente. La famiglia è espressione unica dell’insopprimibile socialità della persona umana, socialità la cui verità è ultimamente nell’amore come libero dono di sé (cfr CA 39). La famiglia, che pure può generare la vita, non è autorizzata a possederla, ma è chiamata ad accoglierla per servirne la crescita nella libertà (cfr GE 1) e ad accompagnarla anche attraverso le prove più dure, per educare a una libertà vera, che si realizza “nella carità e nella verità”. In una compiuta prospettiva di sussidiarietà, la famiglia non tollera alcuna subalternità allo Stato, alle imprese o a qualsiasi altro potere o circuito sociale. Nei limiti della propria specificità, essa travalica ogni tentativo di reclusione nel privato e gode di una piena dignità sociale e pubblica. La famiglia è presidio e fattore di bene comune, paradigma di relazione delle forme sociali alla vita, testimone dell’amore come prima energia sociale, ostacolo a ogni riduzione dello spazio pubblico a mero spazio statale.

III: Declinare il bene comune: un’operazione di discernimento

11. Grazie al cammino ecclesiale del decennio appena concluso, e non da ultimo grazie all’esperienza fatta con la preparazione e la celebrazione del IV Convegno Ecclesiale Nazionale di Verona, non è stato difficile riconoscere i tratti del discernimento nel compito di declinare l’idea di bene comune. Interrogarci su come assumere oggi la visione e l’ispirazione al bene comune ha la forma di una particolare operazione di discernimento «dell’oggi di Dio» (CVMC 34). In Fil 1,9l’Apostolo Paolo esorta: «Prego perché la vostra carità si arricchisca sempre più in conoscenza e in ogni genere di discernimento perché possiate distinguere sempre meglio ed essere integri e irreprensibili per il giorno di Cristo».

Il discernimento pone al credente esigenze di obbedienza e anche di fatica che vanno oltre quelle dell’“attualizzazione” o “applicazione” della fede. Esso libera dall’idea che una lettura adeguata della realtà sia già disponibile, elimina l’alibi del ricorso a strumenti scientifici neutrali, non bisognosi essi stessi del vaglio della fede, mette in gioco lo stesso soggetto credente e impone di considerare la storia come luogo in cui Dio agisce e si manifesta (cfr DV 2).

È chiaro che per i cattolici il discernimento, operazione spirituale ed ecclesiale, richiede l’esercizio della funzione del Magistero, ma è stato davvero importante poter sperimentare come tale servizio ci abbia messo a disposizione quella presentazione e quell’approfondimento della nozione di bene comune cui ci siamo appena riferiti. In queste condizioni, è più facile comprendere come il servizio del Magistero e la libertà e la responsabilità dei credenti impegnati nell’animazione delle realtà temporali si sostengano reciprocamente e crescano insieme.

Peraltro, non è certamente la qualità spirituale ed ecclesiale a rendere il discernimento un’operazione nella quale i cattolici si isolano dalle donne e dagli uomini di buona volontà (cfr GS 40-45). In generale, e in certo senso a maggior ragione nell’esercizio della responsabilità per il bene comune, Chiesa e credenti non ignorano quanto ricevono dal mondo contemporaneo: «L’esperienza dei secoli passati, il progresso della scienza, i tesori nascosti nelle varie forme di cultura umana, attraverso cui si svela più appieno la natura stessa dell’uomo e si aprono nuove vie verso la verità, tutto ciò è di vantaggio anche per la Chiesa» (GS 44).

12. Ci è sembrato che la prossima Settimana Sociale possa contribuire alla declinazione dell’idea di bene comune individuando una breve lista di problemi con alcune precise caratteristiche. Vale la pena che queste siano chiarite sin da principio.

Per “problema”, non abbiamo inteso semplicemente e neppure necessariamente indicare una difficoltà. Consideriamo “problema” la compresenza di una determinata situazione e di alternative realistiche, di motivi ragionevoli e di spazi praticabili per soluzioni diverse. Allo scopo di contribuire al processo di declinazione dell’idea di bene comune, ci è sembrato utile identificare un certo numero di problemi realisticamente implicanti delle possibilità non colte di produrre più bene comune. Questa scelta pone di fronte a una sfida anche culturalmente ardua, se è vero che si tratta anche di contestare l’idea di uno spazio pubblico impermeabile alle ragioni dell’esperienza cristiana.

Su questa base, negli incontri e nei confronti avuti finora abbiamo proposto e abbiamo visto largamente accolta l’indicazione di lavorare all’individuazione di problemi che avessero alcune caratteristiche: (a) fossero identificati anche con riferimento a determinati criteri elaborati a partire dall’insegnamento sociale della Chiesa; (b) fossero affrontabili sulla base di modelli di analisi affidabili, perché sperimentati e discussi; (c) fossero percepiti come rilevanti da soggetti reali sulla base di propri interessi; (d) collegassero alla circostanza data delle alternative per le quali sono disponibili le risorse necessarie; (e) più di altri problemi, aprissero alla soluzione di ulteriori problemi.

Una sottolineatura è necessaria: cercare problemi significa anche cercare soggetti. Se per immaginare una qualsiasi alternativa basta anche solo una teoria, per immaginare un’alternativa realistica è indispensabile la presenza di soggetti reali dotati delle risorse necessarie per concepirla, aderirvi e almeno provare a perseguirla. Come dire: dove la vita, la famiglia, la dignità della persona, il lavoro, la conoscenza e la creatività sono più a rischio? E – nello stesso tempo – dove la loro energia e la loro responsabilità possono generare alternative per più bene comune?

13. L’attribuzione di diversi gradi di priorità pratica ai problemi esprime la fedeltà a una visione che non cede all’illusione di una descrizione eticamente neutra della realtà sociale, ma interpreta, giudica e con lealtà e spirito di dialogo propone pubblicamente i propri argomenti. D’altronde, il non sfuggire all’istanza del realismo – propria della genuina spiritualità cristiana – si manifesta nell’accoglienza della responsabilità a operare dentro le circostanze storiche senza fingere di essere svincolati da esse e senza accettarle in ogni caso come una necessità.

Troviamo così un’importante convergenza tra la preparazione alla 46ª Settimana Sociale e l’attenzione alla sfida educativa, che la Chiesa italiana sta assumendo responsabilmente come impegno comune per il prossimo decennio, convergenza che si era già verificata con la decisione di impegnarsi in un’operazione di discernimento comunitario. Esso infatti genera, sia perché la richiede sia perché direttamente la pone in essere, una costante azione educativa (cfr CVMC 50).

14. Di fronte all’agenda di problemi prioritari che proponiamo in vista dei lavori di Reggio Calabria, la domanda non dovrebbe essere «manca qualcosa?» o «c’è tutto?». Piuttosto, tenendo ben salda la responsabilità per il bene comune e il tempo e il luogo in cui siamo chiamati a esercitarla, si dovrebbe partire dalla domanda: «si tratta di problemi realisticamente affrontabili?» E ancora: «realisticamente, se ne possono individuare altri in qualche misura previi rispetto a quelli indicati nella lista?».

L’agenda ha alcuni destinatari principali molto precisi.

Anzitutto, le Chiese particolari che sono in Italia. Certo, si tratta di un contributo che invita a ordinare la propria attenzione anche in una prospettiva pratica. Ma, prima ancora, sottende una richiesta: a tutta la comunità ecclesiale spetta il compito di accompagnare e in qualche modo anche favorire operazioni come quelle in cui ci stiamo impegnando, perché esse ricerchino sempre la più sincera apertura e la più concreta fedeltà al Vangelo. Il fatto che in questo cammino di preparazione molte Chiese particolari abbiano deciso di affiancare all’impegno nel discernimento di un’agenda di speranza per l’Italia un impegno analogo con riferimento alla loro realtà locale è un ulteriore passo nella direzione auspicata.

Quest’agenda è anche destinata alle tante persone, donne e uomini di buona volontà operanti in Italia, verso i quali come cattolici nutriamo sentimenti di viva amicizia e con i quali sentiamo di dover e poter condividere la cura del bene comune, come singoli, associazioni e istituzioni. Una libera opinione pubblica, perno di una “società aperta”, dà il suo meglio concentrandosi, volta per volta, su un limitato numero di questioni e sviluppando le sue forme di partecipazione a cominciare da quella del controllo e dell’imputazione delle responsabilità. La qualità civile di una società dipende non da ultimo dalla qualità del confronto attraverso cui si formano queste agende, la cui costruzione non è appannaggio esclusivo di alcuni. Partecipare a questo confronto al meglio delle possibilità è per i cattolici un dovere ed allo stesso tempo un segno dell’amore grande che portiamo per il nostro Paese. Questa è anche una via per la quale cerchiamo di correggere mancanze ed errori, dai quali pure non siamo stati esenti.

Certamente un’agenda come quella che presentiamo può essere un contributo importante all’azione del laicato cattolico. I laici, infatti, non solo sono a pieno titolo coinvolti nella vita della Chiesa e della società civile, ma sono invitati a farsi promotori di proposte e iniziative e non solo a esprimere esigenze. Al laicato italiano, che per tanti versi deve sviluppare ulteriormente il proprio ruolo nella Chiesa e nella società, può essere utile disporre di un cantiere di discernimento sempre aperto e di una breve lista di alternative prioritarie da aggiornare costantemente.

IV. Un’agenda per “riprendere a crescere”

15. Nel corso del processo di discernimento è stato possibile cogliere una valutazione molto diffusa: l’Italia ha bisogno di riprendere a crescere. Il Card. Angelo Bagnasco nel novembre 2009 aveva sintetizzato questa valutazione connettendola esplicitamente alla responsabilità di ciascuno per il bene comune: «Il Paese deve tornare a crescere, perché questa è la condizione fondamentale per una giustizia sociale che migliori le condizioni del nostro Meridione, dei giovani senza garanzie, delle famiglie monoreddito. (…) Ciascuno è chiamato in causa in quest’opera d’amore verso l’Italia: è una responsabilità grave che ricade su tutti, in primo luogo sui molti soggetti che hanno doveri politico-amministrativi, economico-finanziari, sociali, culturali, informativi»[17]. L’Italia deve tornare a crescere, e non solo economicamente. In prospettiva economica il debito pubblico rappresenta la maggiore incognita per il presente e per il futuro. Alcune generazioni di italiani, attuali e a venire, pagheranno questo pesante scotto. Non rimane dunque che chiedere a noi stessi, a tutti e ad ogni amministrazione pubblica di fare il meglio. Le risorse pubbliche rappresentano l’altro versante di un sacrificio già superiore alla media: massima deve essere la tensione, perché massima sia la resa di ogni singolo elemento della spesa nel quadro del controllo dei saldi della finanza pubblica. Nella prospettiva del bene comune, questa ci appare come un’istanza etica, al pari di quella di generare risorse aggiuntive.

Il cammino preparatorio vissuto in quest’ultimo anno ci ha aiutato a comprendere che l’appello appena richiamato – «riprendere a crescere» – non è velleitario e ci chiama a una sfida molto impegnativa ed estremamente urgente. Nella realtà del cattolicesimo italiano e più in generale nel tessuto vivo della nostra società non mancano soggetti capaci di riconoscere che le sfide poste di fronte a noi «esigono da tutti gli uomini e le donne di buona volontà, indipendentemente dall’opzione politica di ciascuno, una cooperazione solidale e generosa all’edificazione del bene comune della nazione»[18].

Nel corso del processo di discernimento, sono emerse abbastanza chiaramente cinque risorse principali con cui affrontare la sfida di riprendere a crescere secondo il bene comune: «Nel nostro Paese c’è ancora una riserva di capacità di lavoro e di impresa che non teme il mercato… In un momento di emergenza educativa c’è una particolare risorsa che va liberata. Si tratta di quelle persone adulte che non vengono meno alla vocazione a crescere come persone e ad accompagnare nell’avventura educativa i giovani e i piccoli… Anche l’Italia è tornata ad essere un paese di immigrazione. Ciò si manifesta anche nella forma di seri problemi, ma è chiaro che questo processo arricchisce sotto svariati profili il Paese, dotandolo di risorse che non produce e di cui ha bisogno per crescere… Una ulteriore riserva di energie è costituita dai giovani che studiano, che fanno ricerca, che lavorano… Abbiamo alle spalle oltre due decenni di nuova spinta alla partecipazione e di ripetuti tentativi di innovazione politica, ma anche di difficoltà a sbloccare i canali e le opportunità di partecipazione democratica» (Lettera di aggiornamento).

L’impegno è proseguito concentrandosi su quelle cinque direttrici, e ora siamo in grado di proporre, per il lavoro che ci attende, una lista di problemi prioritari. A noi sembrano problemi cruciali e realisticamente affrontabili, nel senso già spiegato (cfr sopra, n. 13), dai quali può prendere le mosse quella ripresa della crescita verso e secondo un maggior bene comune.

Ci rendiamo ben conto che dire qualcosa di preciso significa anche dire qualcosa di discutibile e di controverso. La domanda che invitiamo a porre con tutta franchezza è: c’è qualcosa di più realistico e prioritario? Può essere quella che segue la lista breve di problemi realistici da cui dipende la possibilità che l’Italia torni a crescere verso e secondo il bene comune? Può esser questa «un’agenda di speranza per il futuro del Paese?»

Intraprendere

16. In Italia c’è ancora una riserva di capacità di lavoro e di impresa che non teme il mercato. È certo questa una delle condizioni che ci consente di guardare realisticamente alla ripresa delle crescita secondo e verso il bene comune, e in particolare di quella sua componente che è la crescita economica (cfr CA 48).

Offrire e scambiarsi opportunità e capacità di lavoro significa porre in essere elementi essenziali del bene comune e attivare dinamiche altrettanto essenziali al suo incremento. Non dimentichiamo che «mediante il lavoro l’uomo non solo trasforma la natura adattandola alle proprie necessità, ma anche realizza se stesso come uomo ed anzi, in un certo senso, “diventa più uomo”» (LE 9). Né dimentichiamo che i valori fondamentali e universali di libertà e di responsabilità un imprenditore li manifesta, ma non dovrebbe esaurirli: «l’imprenditorialità, prima di avere un significato professionale, ne ha uno umano. Essa è inscritta in ogni lavoro, visto come actus personae, per cui è bene che a ogni lavoratore sia offerta la possibilità di dare il proprio apporto in modo che egli stesso «sappia di lavorare “in proprio”» Non a caso Paolo VI insegnava che «ogni lavoratore è un creatore» (CV 41).

In questa prospettiva, ci è sembrato di poter raccogliere indicazioni convergenti nell’identificare quattro problemi prioritari per tornare a liberare e regolare in modo efficace le energie, attive o potenzialmente tali, dell’intraprendere.

(i) Come ridurre precarietà e privilegi nel mercato del lavoro, aumentandone partecipazione, flessibilità (in entrata e in uscita), eterogeneità?

17. È il mercato del lavoro uno dei “luoghi” in cui con più evidenza nelle società moderne si esercita la responsabilità verso se stessi e verso gli altri e ciascuno partecipa dei frutti realizzati.

La qualità e l’efficienza delle forme che lo regolano e dei comportamenti degli attori che vi partecipano riveste in questa prospettiva un ruolo cruciale: «Il mercato, se c’è fiducia reciproca e generalizzata, è l’istituzione economica che permette l’incontro tra le persone, in quanto operatori economici che utilizzano il contratto come regola dei loro rapporti e che scambiano beni e servizi tra loro fungibili, per soddisfare i loro bisogni e desideri» (CV 35). Questo richiederebbe un mercato del lavoro ampio (in grado di offrire opportunità di lavoro a una quota di popolazione maggiore di quella, assai bassa, soprattutto nelle regioni meridionali, attualmente occupata), accessibile e accogliente (in grado di offrire opportunità a soggetti con caratteristiche sociali e professionali molto differenziate, con capacità, esigenze e vincoli eterogenei, con particolare riguardo a esigenze e vincoli relativi alla conciliazione di lavoro e famiglia), fluido e flessibile (nel quale sia possibile senza penalizzazioni improprie la mobilità professionale e territoriale), qualificato e qualificante (nel quale siano valorizzati i talenti, la creatività e il capitale umano e, allo stesso tempo, sia possibile per tutti arricchire le proprie capacità professionali). Per questo mercato, come e più di quanto avviene per ogni mercato, vale la consapevolezza che comportamenti di solidarietà, di fiducia e di reciprocità costituiscono una condizione che esso può rafforzare, ma non generare né sostituire.

Se si guarda alle condizioni del mercato del lavoro italiano, si vedono permanere gravi difficoltà che causano sofferenze e distorsioni, strettamente correlate al prolungato ristagno economico del nostro Paese – che di gran lunga precedente l’attuale grave recessione –, a una questione femminile sempre urgente e aperta e alla scarsa mobilità sociale. Alcune di tali difficoltà derivano da ritardi e limiti strutturali del sistema produttivo; altre, invece, da criticità relative al funzionamento del mercato del lavoro, che sarebbe realisticamente possibile affrontare e avviare a soluzione.

Il nodo più urgente, e ormai ampiamente riconosciuto dall’opinione pubblica anche in conseguenza della recessione in atto, è rappresentato dal dualismo del mercato del lavoro, vale a dire la convivenza al suo interno di un’area di occupazione protetta e di un’altra priva di tutele o con tutele diseguali.

La regolamentazione del mercato del lavoro ha conosciuto in Italia un’evoluzione importante nel corso degli ultimi quindici anni. Tuttavia tale stagione di riforme appare squilibrata e in larga parte incompiuta. Il completamento del disegno riformatore dovrebbe spingere più decisamente il funzionamento del mercato del lavoro nella direzione di una combinazione di flessibilità e sicurezza (flexicurity), necessariamente declinata in funzione delle caratteristiche e dei vincoli specifici del contesto italiano.

Questa, ancor meno che in passato, può essere oggi garantita da semplici vincoli legislativi, mentre richiede piuttosto strumenti di sostegno al reddito e di supporto della ricerca del lavoro da parte di chi ne è privo, così come il superamento di ogni tipo di “rendita di posizione” e di irresponsabilità, uniti a una maggiore capacità di realizzare politiche attive a favore dei soggetti in difficoltà nel mercato del lavoro e alla creazione di un equo, trasparente e sostenibile sistema di sussidi di disoccupazione.

Se negli Anni ’80 la linea di frattura correva tra occupati e disoccupati, oggi si ripropone all’interno del fronte dell’occupazione. Essa deriva in parte considerevole da asimmetrie di costo del lavoro e di tutele, che rendono artificiosamente conveniente per le imprese il lavoro atipico al di là delle genuine esigenze di flessibilità. La contrapposizione tra protetti e non protetti non può risolversi semplicemente nel ritenere eccessiva la protezione dei primi: sebbene ci sia spazio per un limitato scambio tra minore protezione dei primi e maggiore protezione dei secondi, non si può auspicare il semplice smantellamento delle protezioni oggi esistenti nel settore privato. Infatti, a ognuno il suo rischio: ai lavoratori non si può chiedere di assumere lo stesso grado di rischio delle imprese rispetto all’attività economica.

Se è vero che la regolamentazione del mercato del lavoro assume normalmente la forma di un atto pubblico, è altrettanto evidente che alla sua definizione e attuazione concreta concorrono in varie forme, spesso con procedure a ciò dedicate e in misura sostanziale, anche le parti sociali e le stesse imprese, soprattutto quelle che per dimensione godono di margini di autonomia e iniziativa nella gestione del personale. Possiamo quindi ritenere che in tale ambito spetti al sistema delle relazioni tra le parti la responsabilità di affrontare questi problemi. In questo senso si deve ritenere che la questione presenti un grado rilevante di poliarchia.

Un discorso in parte diverso – che tuttavia non può essere eluso – richiede la questione del lavoro nel settore pubblico. In questo ambito vanno superate le condizioni di inefficienza e di irresponsabilità dei vari soggetti. Esse hanno gravi ricadute negative sia sulla qualità dei servizi che sulla crescita dell’intera economia nonché sugli utenti e dunque sulla qualità della cittadinanza. Né si può dimenticare il fatto che una quota consistente del lavoro precario è oggi concentrata proprio all’interno del settore pubblico.

Infine, anche l’Italia ha bisogno di adottare ammortizzatori sociali tendenzialmente universalistici e omogenei, trasparenti e che non siano di ostacolo alla mobilità dei lavoratori; che incentivino la partecipazione al mercato, di durata e importi compatibili con l’incentivo al lavoro, e in grado di attirare forza lavoro dal bacino del sommerso.

Come si vede, ci sono tanto l’urgenza quanto le condizioni per considerare cruciale, in una prospettiva attenta al bene comune, il problema della riduzione di precarietà e privilegi nel mercato del lavoro, aumentando la partecipazione, la flessibilità in entrata e in uscita e l’eterogeneità.

(ii) Quali politiche fiscali (e sociali) per riconoscere e sostenere la famiglia con figli (anche) come generatrice di valori economicamente rilevanti?

18. L’iniquità con la quale le politiche fiscali e sociali degli ultimi cinquant’anni hanno trattato le famiglie con figli può certamente annoverarsi tra i tanti paradossi italiani. A dispetto di un’abbondante retorica profusa da tutti gli schieramenti politici e nonostante la moltiplicazione di evidenti segnali di difficoltà da parte delle famiglie italiane, gli aiuti pubblici a genitori e figli sono sempre stati centellinati e continuano a esserlo: esigue le agevolazioni fiscali, poco più che simboliche per una famiglia a medio reddito; modesti e non uniformemente distribuiti sul territorio i servizi per l’infanzia (asili nido, ecc.); più in generale, poco amichevole – quando non addirittura ostile – il clima nei confronti delle famiglie con figli, nello spazio pubblico e nel mondo del lavoro.

Il risultato è che la famiglia italiana – una famiglia da sempre caratterizzata da forti vincoli affettivi e da generosi meccanismi di sostegno nei confronti dei membri più deboli – finisce per essere abbandonata a se stessa proprio nei momenti in cui avrebbe più bisogno di aiuto: all’arrivo di un figlio, quando le spese per la crescita e l’istruzione si fanno più gravose, quando un suo componente si trova ad affrontare passaggi in cui il vivere si fa più pesante, quando un anziano perde l’autosufficienza o rimane solo.

Il doveroso rispetto per l’intimità della sfera familiare sembra infatti essersi trasformato in un alibi per l’indifferenza collettiva nei confronti delle funzioni sociali svolte, non senza difficoltà, dalle famiglie. Non possiamo dimenticare che si tratta di funzioni tanto preziose quanto insostituibili, come bene appare nella prospettiva del bene comune (cfr FC 42-46). Le conseguenze di ciò sono sotto i nostri occhi: una fortissima denatalità, da mezzo secolo diffusa nelle regioni centro-settentrionali, ma oggi più intensa nel Mezzogiorno, che si somma e si intreccia con l’emigrazione di tante giovani famiglie dal Sud al Nord; un addensamento di famiglie con due o più figli al di sotto della soglia di povertà; minori probabilità di raggiungere i livelli di istruzione più elevati per chi viene al mondo in una famiglia numerosa.

Figlia dell’idea, sbagliata, che l’intervento pubblico debba avere finalità esclusivamente assistenziali o sanzionatorie e non incentivanti, e cresciuta nell’oblio di principi costituzionali, questa vasta area di disagio, talvolta di dura sofferenza, finisce per trasformarsi in un formidabile boomerang per tutta la società e l’economia italiana: riduce le risorse complessive – le persone, le relazioni e i talenti – di cui l’Italia potrà disporre nel prossimo futuro; spinge le famiglie al ripiegamento su se stesse; scoraggia e ritarda la formazione di nuovi nuclei familiari.

Come intervenire per evitare la cronicizzazione del fenomeno? Come evitare che le poche figlie e i pochi figli di oggi finiscano per adottare i modelli riproduttivi delle madri e dei padri, avvitando così la popolazione italiana in una spirale di denatalità che nessun processo migratorio potrà compensare? È possibile sostenere responsabilmente le coppie che desiderano i figli e quelle che già ne hanno? Nei mesi scorsi, si è parlato di una generica riduzione delle tasse “per rilanciare l’economia”. Seppure stretta, la coperta potrebbe essere tirata dalla parte giusta, quella dell’investimento nel futuro: la leva fiscale andrebbe azionata con giudizio per tener maggiormente conto del quadro familiare all’interno del quale ogni contribuente è inserito, riconoscendo l’oggettiva minore capacità contributiva dei genitori impegnati nel far crescere i figli. Si tratta di un onere educativo che non può essere in alcun modo considerato un fatto esclusivamente “privato”, dal momento che è anche educazione e crescita dei lavoratori, degli elettori e dei contribuenti di domani, e, prima ancora, di persone. Educare è una delle funzioni attraverso le quali la famiglia risponde a un diritto inalienabile della persona umana ed esercita la propria libertà (cfr GE 1). Le soluzioni tecniche non mancano; per illustrarle è sufficiente uno sguardo alle politiche pubbliche intraprese nella maggior parte delle società avanzate, a cui spesso si è contrapposta solo un’inefficace successione di provvedimenti una tantum.

Azionare la leva fiscale non significa rinunciare alla realizzazione di servizi pubblici di qualità, in particolare per l’infanzia, per i quali esiste una forte domanda latente. Anche in questo caso, le soluzioni possibili sono diverse, compresa la valorizzazione delle forme spontanee di associazioni, cooperative di genitori e così via.

Di queste soluzioni debbono essere parte politiche pubbliche pro life nazionali e locali, capaci di affrontare anche le cause del drammatico declino della natalità in Italia, che concorrano attivamente a rimuovere almeno alcune cause del ricorso all’interruzione volontaria della gravidanza.

Una fiscalità e servizi che riconoscano la funzione pubblica della procreazione e dell’educazione dei figli sono soprattutto un segnale chiaro del fatto che l’Italia vuole ancora credere nel suo futuro e in quelli che saranno i protagonisti del domani.

      (iii) Come ridistribuire “orizzontalmente”la pressione fiscale, anzitutto spostandola dal lavoro e dagli investimenti alle rendite?

19. Il sistema fiscale italiano non solo contribuisce meno di quanto potrebbe al bene comune, non provvedendo risorse adeguate alla produzione di beni pubblici e non motivando comportamenti individuali responsabili, ma spesso assicura meno risorse di quante ne promette – pur toccando in alcuni casi livelli elevatissimi di pressione –, genera sperequazioni, induce o consente comportamenti irresponsabili ed egoistici. Parecchi fenomeni negativi possono essere ricondotti in misura non trascurabile al regime fiscale vigente. Vogliamo qui menzionare solo alcuni dei molti punti critici: il degrado dell’etica pubblica e della coesione sociale che deriva dall’enorme dislivello di pressione fiscale tra categorie di percettori (dipendenti/autonomi) e tra natura del reddito (lavoro/rendita); il variare del livello di pressione fiscale, che vede per alcune categorie il differenziale tra lordo e netto vicino al 52%; il convivere di apparenza di povertà al momento della dichiarazione dei redditi e tenore di vita reale; la preferibilità fiscale di impieghi a bassa responsabilizzazione, che rende meno appetibile la formazione, la preparazione culturale, il tempo dedicato agli studi e alla ricerca e disincentiva l’investimento sul capitale umano; l’accentuazione della scelta dell’unità impositiva rappresentata dal reddito individuale in contrapposizione al criterio del reddito familiare.

Il danno materiale che le regole e i comportamenti fiscali recano al bene comune non è meno preoccupante di quello inflitto al tessuto civico né eticamente meno rilevante. La stima ISTAT del 2009, calcolata su dati riferiti all’anno precedente, si attesta intorno ai 170 miliardi di euro, pari al 16% del prodotto interno lordo, mentre secondo i dati OCSE raggiungerebbe nello stesso periodo il 24%. In particolare, nella prospettiva del bene comune, questo fenomeno ha assunto dimensioni insostenibili, soprattutto perché si concentra su alcune categorie di percettori di reddito: vi è una vera e propria iniquità in un sistema di tassazione che colpisce in modo molto più intenso i redditi da lavoro dipendente (o assimilati).

Le ragioni storiche che hanno concorso a creare tale situazione sono complesse. Tra esse si pone certamente il livello elevatissimo della pressione fiscale, a cui è molto più esposto il lavoratore dipendente, e l’inefficienza della spesa pubblica. Tuttavia non si tratta di ragioni che possano giustificare il permanere di questo stato di cose. Alla base del ragionamento resta quanto la letteratura concordemente afferma: nonostante il numero elevato di fattori, un ruolo importante va attribuito alla correlazione tra capacità di accertamento e predisposizione all’evasione.

D’altro canto, tanto è largo il raggio di influenza negativa sul bene comune di un regime fiscale iniquo e inefficiente, quanto è ampio il numero di attori interessati alla sua correzione. Ci sono dunque buone ragioni per considerare prioritario il problema di come ridistribuire orizzontalmente la pressione fiscale e in particolare di come riequilibrare la pressione dai redditi ai patrimoni. Come minimizzare l’asimmetria delle modalità di rilevazione, accertamento e riscossione? Come privilegiare l’effetto redistributivo restituendo centralità alla famiglia sia come soggetto tutelato nella funzione redistributiva dell’imposta sul reddito sia in quanto realtà sociale più vicina all’individuo?

(iv) Come sostenere la crescita delle imprese?

20. Nella prospettiva del bene comune non si può non rilevare che l’Italia ha bisogno di riprendere a crescere, anche, e non da ultimo, in termini strettamente economici. Protagonista di questa crescita non può che essere un’impresa capace di mercato. Il Magistero ecclesiale riconosce in essa il protagonista dell’«economia libera» (CA 42), perché ha la «capacità di conoscere tempestivamente i bisogni degli altri uomini» e sa combinare i «fattori produttivi più idonei a soddisfarli» (CA 31). Anche in tale prospettiva, dunque, per riprendere a crescere l’Italia ha bisogno di più imprese in salute (CV 35), esse stesse per prime capaci di crescere.

Se ci concentriamo sul nesso, non unico ma centrale, fra crescita, produttività e innovazione, vediamo emergere alcuni aspetti cruciali del problema.

La “taglia” ridotta delle imprese italiane costituisce talvolta un fattore problematico, anche se da modularsi in relazione ad altri fattori, a partire da quello del comparto produttivo. Questa caratteristica dell’economia italiana può essere affrontata in vari modi, attraverso una crescita di rete – ad esempio – o attraverso la formula dei distretti di nuova generazione e non solo attraverso una crescita dimensionale pura e semplice. È un nodo da affrontare anche nei suoi intrecci con quello della scarsa capitalizzazione, del difficile rapporto con il credito e della forma della governance aziendale.

Altrettanto determinante per la crescita delle imprese è il livello di professionalità del capitale umano disponibile, tema che influenza notevolmente la scelta di spostare in avanti la frontiera tecnologica.

Infine, conta molto lo spessore qualitativo dell’impresa, espresso a esempio attraverso i modelli giuridici, organizzativi e comunicativi adottati. Si tratta di aspetti che influenzano sia la ricerca di fonti di finanziamento sia la propensione all’internazionalizzazione della rete commerciale e delle politiche relative alla logistica distributiva, nonché la propensione alla innovazione di prodotto e non solo di processo.

Per la crescita di imprese capaci di generare crescita è decisivo anche l’ambiente. Di esso sono parte essenziale il contesto ecologico, sociale, culturale e etico, l’efficienza delle regole dei mercati, la loro accessibilità e libertà, la disponibilità di fattori come l’energia o pubbliche amministrazioni efficienti, il contrasto alla criminalità, le reti di trasporti e le dotazioni logistiche, l’efficienza della formazione e della ricerca, nonché il rapporto stesso tra le imprese. Con riferimento a quest’ultimo aspetto, in particolare in questo momento che succede a una grave crisi finanziaria, non va dimenticato il rapporto decisivo tra l’insieme delle imprese, le banche e le istituzioni finanziarie.

Proprio all’indomani di importanti interventi “pubblici” che hanno assicurato la stabilizzazione del sistema finanziario, in ragione del suo grande rilievo, è indilazionabile il ripristino di normali condizioni di credito alle imprese, soprattutto a quelle piccole e medie, così come urge evitare la morte per crisi di liquidità di quelle sane. Oltre all’apporto per il superamento della congiuntura negativa, ci si attende che le banche svolgano un compito anche nei processi di sviluppo di più lungo periodo, soprattutto nelle economie regionali, il cui potenziale di sviluppo appare, specie in alcuni contesti territoriali, ancora in gran parte inespresso. Ciò sarà possibile solo nella misura in cui gli attori della finanza e del credito non si sottrarranno al compito di partecipare al rischio che il Paese dovrà affrontare per crescere, non emergendo del resto da questa fase motivi sufficienti a rinnegare il processo di apertura e di maggiore concorrenza anche nel settore bancario. Anche oggi le banche si trovano oggettivamente di fronte alla possibilità di scegliere tra indirizzare la liquidità di cui dispongono verso attività speculative, oppure programmare una ripresa prudente ma decisa e significativa del credito.

Riconoscere che la crescita delle imprese è un problema prioritario, almeno alla luce del bene comune, rispetto all’obiettivo di riprendere a crescere, significa affrontare un problema fortemente unitario, e allo stesso tempo dai molti aspetti, mentre non impone in alcun modo di assumere un solo modello d’impresa. Anche nel Magistero più recente è costante l’idea che «serve un mercato nel quale possano liberamente operare, in condizioni di pari opportunità, imprese che perseguono fini istituzionali diversi. Accanto all’impresa privata orientata al profitto, e ai vari tipi di impresa pubblica, devono potersi radicare ed esprimere quelle organizzazioni produttive che perseguono fini mutualistici e sociali. È dal loro reciproco confronto sul mercato che ci si può attendere una sorta d’ibridazione dei comportamenti d’impresa e dunque un’attenzione sensibile alla civilizzazione dell’economia» (CV 38), e ancora: «è la stessa pluralità delle forme istituzionali di impresa a generare un mercato più civile e al tempo stesso più competitivo» (CV 46).

Molti sono gli aspetti del problema e i soggetti interpellati da questa priorità. Tuttavia, prima degli altri, è a chi fa o può fare impresa che va riconosciuto il diritto e la responsabilità di apportare questo specifico contributo al bene comune, e, oggi, di aprire il confronto su questa istanza. Anche alla Chiesa e alle famiglie spetta un compito specifico: quello di educare i giovani all’intraprendere.

Educare

21. In un momento di emergenza educativa, c’è una particolare risorsa che va liberata. Si tratta di quelle persone adulte che non vengono meno alla vocazione a crescere come persone e ad accompagnare nell’avventura educativa i giovani e i piccoli. Non c’è bene comune se ai soggetti dell’educazione non viene riconosciuto per intero il loro prezioso e insostituibile ruolo anche pubblico. L’emergenza educativa si manifesta come grave crisi di bene comune.

Quella in corso è un’emergenza seria e in alcuni casi esposta a rischi di cronicizzazione. Non è facile ma è necessario, per affrontarla concretamente, partire da problemi cruciali e prioritari, ma anche precisi e di conseguenza non esaustivi.

(v) Come dare più strumenti a scuola e famiglia per premiare l’esercizio della funzione docente e incentivarne l’assunzione di responsabilità?

22. La diffusione dei risultati ottenuti dagli studenti italiani nelle prove standardizzate sugli apprendimenti (in particolare quelli raggiunti nelle prove OCSE-PISA, somministrate ai quindicenni di tutti i Paesi a sviluppo avanzato) hanno evidenziato due verità troppo a lungo ignorate dal dibattito nazionale. Primo: a giudicare dalla qualità delle conoscenze e delle competenze dei suoi studenti, la scuola italiana non sta facendo un lavoro eccellente; i ragazzi italiani si collocano infatti al di sotto della media di quelli degli altri Paesi sviluppati, sia nella comprensione di un testo scritto, sia nella preparazione matematica e scientifica. Secondo: sebbene sia sempre stata gestita in modo centralizzato, la scuola italiana non ottiene risultati uniformi sul territorio, ma al contrario restituisce un mosaico di situazioni regionali decisamente differenziate.

Se passiamo poi dalle dimensioni più elementari dell’istruzione a quelle più complesse e profonde dell’educazione, a cui pure la scuola deve contribuire, il bilancio non è migliore. L’emergenza educativa a scuola si manifesta in gradi che vanno dalla crisi della “condotta” a fenomeni sempre meno rari di vera e propria delinquenza. Come tutto il mondo degli adulti, gli insegnanti sono esposti a una sfida educativa assai più impegnativa di quella affrontata dai loro colleghi di qualche decennio fa e la risposta – nel suo insieme – può e deve ancora crescere molto.

Di fronte a tale quadro, è doveroso interrogarsi su quale scuola vogliamo allestire per i giovani di oggi e per le future generazioni. Questo interrogativo è di stretta attualità non solo in Italia. Nella maggior parte dei Paesi sviluppati è in corso un acceso dibattito sulle risposte da dare alle tante sfide lanciate alla scuola, che spaziano dal problematico rapporto tra le nuove tecnologie e la didattica alle incertezze sui modelli lavorativi di riferimento per la costruzione di profili professionali il più possibile adeguati e duraturi. Questo dibattito internazionale ribadisce la centralità degli insegnanti: è sul corpo docente, sulla sua formazione e sul suo grado di motivazione che occorre far leva se si vogliono raggiungere concreti obiettivi di miglioramento nella qualità della scuola e dell’apprendimento. Per la loro professione, che è pure una vocazione, contano moltissimo anche le gratificazioni intrinseche, come quelle che derivano dal contatto diretto con gli studenti. Tuttavia, in assenza di forme di giudizio o di valutazione sul lavoro svolto in classe, tanto da parte delle autorità scolastiche quanto da parte delle famiglie, con retribuzioni e progressioni di carriera che continuano a essere scandite esclusivamente dall’anzianità, e in un clima di generale indifferenza per la qualità dell’impegno profuso, è difficile se non impossibile perseguire in modo sistematico la valorizzazione della professione docente.

La responsabilità per il bene comune non può non riconoscere il contributo specifico e insostituibile di questi adulti e delle istituzioni scolastiche. La sua crisi è fenomeno di primissimo rilievo pubblico e tale resta a prescindere dall’attore dell’offerta scolastica (statale o non statale).

Il percorso da compiere è irto di difficoltà. Alcune sono riconducibili al ruolo ancora da definire che le Regioni potranno svolgere nella complessa partita del decentramento, previsto dalla riforma del titolo V della Costituzione, ma ancora in attesa di piena attuazione, così come devono ancora essere individuati i “livelli essenziali delle prestazioni” in materia scolastica, a partire dai quali si svilupperà l’impianto del federalismo fiscale previsto dalla legge n. 42/2009. Contemporaneamente la stagione dei tagli si abbatte sulla scuola creando un clima non certo sereno. Se, per un verso tali tagli risultano comprensibili alla luce dell’anomalo rapporto italiano fra alunni e docenti e degli imperativi della finanza pubblica, per altro non possono essere intesi come unico intervento di politica scolastica, avulso da una strategia complessiva.

Il processo di riscatto della scuola italiana e di riconsiderazione della figura del docente può essere frenato anche da altre difficoltà. Tra queste, una, decisiva, riguarda il carattere dell’offerta scolastica. Le dimensioni della presenza dello Stato impediscono di trascurare l’urgenza della sua riqualificazione, ma quelle stesse dimensioni significano che una parte dei problemi è legata allo scarso pluralismo dell’offerta scolastica, alla mancata competizione tra diversi attori dell’offerta di istruzione e della formazione e al limitato potere delle famiglie di scegliere liberamente e di premiare l’offerta migliore. Il grande impegno del cattolicesimo italiano tanto sul fronte della offerta scolastica quanto su quello della domanda attraverso le forme dell’associazionismo familiare costituisce una risorsa da riconoscere, da valorizzare e a cui chiedere di crescere ancora. Esso – come tante altre forme di offerta scolastica non statale – ha il doppio merito di produrre un tipo prezioso di bene comune e di tenere aperto lo spazio pubblico, contrastandone la riduzione al mero spazio “statale”.

Come in altri ambiti educativi, anche nella scuola, la cui crisi non può essere occultata, tanto meno se si ha a cuore il bene comune, il nodo è rappresentato dagli adulti, che dovrebbero sapere e potere istruire ed educare con passione, abilità, competenza, credibilità e rigore.

(vi) Come sostenere l’esercizio dell’autorità genitoriale in famiglia?

23. La crisi dell’autorità è elemento essenziale della cosiddetta “questione antropologica”. La prospettiva del bene comune registra questo nesso e non fa che aumentare la consapevolezza delle gravi conseguenze non della crisi di questa o quella autorità determinata, ma della crisi che si genera dal tentativo di delegittimare ogni forma di autorità, soprattutto quelle a fondamento non contrattuale.

Che tale progetto, eredità di una parte dominante della temperie dei tardi Anni ’60, concentri i suoi attacchi sulla figura dell’autorità paterna e materna è del tutto coerente, come è inevitabile che intorno alla legittimazione collettiva dell’autorità genitoriale si giochi una partita cruciale per l’autorità in generale e per le sorti del bene comune. L’alternativa in gioco, in modo diverso per ciascuna autorità, è fra la concezione della libertà come capacità di autodeterminazione che si regge in ultima analisi solo su se stessa e quella che nella libertà valorizza una diversa consapevolezza: essa non si produce, non si sostiene, né si “trova” da sé, e ciò perché ciascuno di noi è stato da altri non solo generato alla vita, ma amato prima di amare, educato a parlare, pensare, volere e cercare. «La prima e fondamentale struttura a favore dell’“ecologia umana” è la famiglia, in seno alla quale l’uomo riceve le prime e determinanti nozioni intorno alla verità ed al bene, apprende che cosa vuol dire amare ed essere amati e, quindi, che cosa vuol dire in concreto essere una persona» (CA 38).

Oggi, anche in Italia e forse più che altrove, ci troviamo a fronteggiare uno spazio pubblico in cui domina la tentazione di considerare l’ampliamento delle zone di libertà direttamente proporzionale all’erosione della autorità, e in particolare delle istituzioni e dei soggetti nei quali l’istanza di libertà si confronta con le esperienze umane fondamentali del generare e dell’amare, del produrre conoscenza e del trasmetterla, del cercare la verità e dell’amarla. Sono sotto attacco, in particolare sotto il profilo culturale e giuridico, tutte quelle relazioni nelle quali la libertà verifica l’impossibilità di “cominciare” da se stessa.

La crisi della famiglia e della scuola accompagna quella dell’autorità e ne è a un tempo causa ed effetto. A essere sfidato è il carattere asimmetrico, l’asse verticale della relazione di autorità. Inevitabilmente, parte dell’efficacia di questi attacchi è garantita da errori e fallimenti in cui, nelle loro concrete forme, queste istituzioni sono incorse.

La famiglia sembra perdere progressivamente la sua tradizionale capacità di generazione e sostegno di “legami” orientati a solidarietà e gratuità, a partire dalla spinta alla deistituzionalizzazione di ogni sorta di affetti. Paradossalmente, sembra restare alla famiglia la pura funzione del mantenimento e dell’assistenza economica, magari a tempo indeterminato, come stabilito persino da talune sentenze giudiziarie. La responsabilità dell’età adulta è sempre meno responsabilità di una propria famiglia; ciò rafforza le spinte all’autoreferenzialità del circuito dei bisogni e al disimpegno.

I genitori sono sempre meno educati a pronunciare i “sì” e sempre meno sostenuti nel dire gli altrettanto preziosi e necessari “no”. Gli insegnanti, che sempre più raramente possono contare sulla collaborazione delle famiglie per un’educazione ai doveri, oltre che ai diritti, rischiano di abdicare al loro ruolo fondamentale: accendere nei giovani la passione per le cose difficili e insieme il senso del limite e del rispetto di forme e regole, perché anche il sapere è un metodo che non si improvvisa di volta in volta.

Occorre ricreare il circuito virtuoso fra quelle autorità che non sono il frutto di una legittimazione contrattuale e la libertà. Si tratta di un’esigenza ineludibile per la stessa comunità ecclesiale. Il primo passo è quello di riconoscere in esso un problema prioritario non solo a livello privato, ma anche per la sfera pubblica, e ancor più in nuce rilevante nella prospettiva del bene comune. Chi, altrimenti, e questa è solo una delle funzioni della autorità parentale, garantirà le risposte prime e fondamentali a quel diritto che è l’educazione, una risposta adeguata a una delle prime condizioni richieste dal bene comune?

Affrontare questo problema significa mettere in discussione i modelli che la “videopedagogia” ha imposto come dominanti. Essi tendono a suggerire una falsa coincidenza fra produzione e consumo di senso, a dissipare i processi e i capitali della formazione in una nebulosa di sentimenti, affetti sfibrati e “allargati”, a minare la percezione interiore del tempo abituando a riconoscere solo quel che accade “qui e ora”, privando a priori di interesse e di senso quel che “dura”. È insomma necessario ristabilire il rapporto di responsabilità fra le generazioni, destinando risorse importanti alle famiglie con figli e mettendo i giovani in condizione di costruirsi la propria famiglia.

(vii) Come sostenere l’azione educativa dell’associazionismo e delle comunità elettive?

24. L’emergenza educativa non può essere affrontata solo dalla famiglia e dalla scuola, né mai esse sole hanno sostenuto il dovere educativo degli adulti. Le grandi stagioni educative hanno visto anche il protagonismo delle reti associative e di comunità elettive. La visione del bene comune riconosce e valorizza la pluralità e la varietà di attori educativi e raccomanda la cura di tutte le prassi realmente educative, capaci cioè di generare libertà critiche, generose e responsabili.

Il problema che poniamo all’attenzione è il riconoscimento pubblico e il rinnovato e intensificato esercizio di una responsabilità educativa ed educatrice nell’associazionismo per e con i giovani. La tradizione italiana è ricca di esperienze di matrice confessionale e non: ancora oggi, la densità etica di molta parte del volontariato costituisce una palestra di grande valore per la maturazione umana dei giovani verso responsabilità (la parola chiave) più integrali. Si tratta di una riserva di umanità e di moralità agìta, che le ricerche ci mostrano riverberarsi sulla vita familiare, scolastica e civica.

Quella dei soggetti associativi attori di processi educativi è una realtà esposta più di altre alla crisi e al ripiegamento egoistico. Non può essere difesa professionalizzandola, mitizzandola né semplicemente conservandola. Essa va aiutata a produrre innovazione anche nei processi educativi e a reggere la sfida di proposte anti- o a-educative. Tali soggetti sono i primi interpellati da questa sfida: sostituirli o porli sotto tutela significa renderli inefficaci.

La stessa comunità ecclesiale, matrice e custode di un grandissimo patrimonio di simili realtà, può e deve fare di più per dar spazio, riconoscimento e sostegno a queste iniziative, e nello stesso tempo per esercitare un sempre più serio discernimento su di esse. Nulla garantisce infatti che la fenomenologia dell’associazionismo educativo sia sempre orientata con successo alla crescita umana e alla maturazione integrale della persona.

È la coscienza di quanto sia forte, oggi, in Italia, il nesso tra consapevolezza dell’emergenza educativa e responsabilità per il bene comune a far riconoscere priorità al problema di come sostenere la crescita dell’azione educativa svolta dalle reti associative e dalle comunità elettive.

Includere le nuove presenze

25. Ben al di là della polemica spicciola e strumentale, vivissima è la coscienza diffusa dei rischi e delle opportunità che comporta l’intensificarsi dei flussi migratori verso l’Italia: «anche l’Italia è tornata ad essere un paese di immigrazione. Ciò si manifesta anche nella forma di seri problemi, ma è chiaro che questo processo arricchisce sotto svariati profili il Paese, dotandolo di risorse che non produce e di cui ha bisogno per crescere» (Lettera di aggiornamento). La tensione è quella di combinare strategie di inclusione che mettano in circolo le nuove presenze, che a esse offrano le opportunità ricercate e che propongano riferimenti istituzionali chiari, in grado di guidare un percorso di responsabilizzazione. L’inclusione non è un processo privo di regole e di sanzioni, rapido o meramente cumulativo: è l’incontro tra atteggiamenti responsabili e avveduti, essi stessi aspetto di carità matura e intelligente. Forse conviene cominciare da un passaggio attraverso il quale chi arriva mostra di voler restare in Italia, per crescere qui e cooperare con chi qui già vive.

(viii) Tenendo conto delle esperienze di altri Paesi, come riconoscere la cittadinanza ai figli di stranieri nati in Italia?

26. Non è facile formulare previsioni circa i futuri assetti della società italiana: troppe incognite si addensano sullo scenario nazionale, europeo e mondiale. Su un punto, tuttavia, è possibile sbilanciarsi senza timore di smentita: nella società italiana di domani i figli degli immigrati giocheranno un ruolo importante. Lo dicono i loro numeri, imponenti, e l’energia che hanno saputo esprimere nei processi migratori. Già oggi i figli dell’immigrazione sono più di un milione. Di questi, circa seicentomila sono nati e cresciuti in Italia[19]. Di loro sappiamo che sono giovanissimi, essendo nati prevalentemente in questo secolo: pensano in italiano, sognano in italiano, hanno una grande voglia di riscatto e di far meglio dei loro genitori.

Per questo a loro vanno e ancor più andranno stretti meccanismi di accettazione sociale basati sulla disponibilità a svolgere i mestieri rifiutati dagli italiani: da grandi vorranno essere scienziati, dottori, ingegneri; di certo non tutti vorranno raccogliere arance o fare la badante, o per lo meno essere destinati a farlo. Li attendono numerose difficoltà comuni a tutti i giovani in Italia, più una: quella di riuscire a riconciliare la loro quotidianità italiana con un’identità costruita nel dubbio di non vedersi riconosciuta la cittadinanza. La legge vigente prevede infatti per gli stranieri nati in Italia la necessità di dimostrare, al compimento della maggiore età, la loro residenza legale dalla nascita e senza interruzioni. Questo meccanismo, messo a punto nel 1992, quando gli stranieri diciottenni nati in Italia erano ancora pochi, ha finito per trasformarsi in una probatio perversa per migliaia di ragazzi e ragazze, le cui famiglie hanno dovuto seguire un percorso d’emersione dall’irregolarità attraverso sanatorie e regolarizzazioni.

Per i loro genitori fare famiglia e figli in Italia è stato un atto importante, un modo per provare ad annodare il loro futuro al nostro. Quei bambini per noi sono un frutto stupendo di quell’atto di fiducia e di speranza; rappresentano una realtà e una disponibilità che non debbono essere ignorate. Costituiscono forse il punto più giusto e più urgente da cui partire.

Il riconoscimento della cittadinanza da parte dello Stato italiano è solo una condizione, certo necessaria ma non sufficiente, per una piena interazione/integrazione delle seconde generazioni nella società italiana. Riconoscere e far rispettare i diritti dei figli dell’immigrazione è infatti una responsabilità collettiva che investe tutte le istituzioni e tutti gli individui. Un esempio: è senz’altro essenziale per un ragazzo di seconda generazione vedersi riconosciuto il diritto di frequentare l’università senza dover richiedere e rinnovare periodicamente il permesso di soggiorno per motivi di studio. Ma è anche importante che il suo diritto a raggiungere i livelli più elevati d’istruzione (se “capace e meritevole”, come recita la Costituzione) non sia pregiudicato da insegnanti che lo reputano, solo per la sua origine, inadatto agli studi superiori, e finiscono così per orientarlo – anche in buona fede – verso strade professionalizzanti[20]. In definitiva, ogni momento di interazione con i figli degli immigrati – pensiamo al grande lavoro svolto ogni giorno, senza clamore né pubblicità, nei tanti luoghi di aggregazione e d’incontro in cui si realizza l’azione sociale della Chiesa – dischiude un’occasione di riconoscimento della loro piena cittadinanza. Tale lavoro può e deve cominciare subito, mostrando una attiva solidarietà nei confronti di quelle cittadine straniere, anche “clandestine”, che, trovandosi in stato di gravidanza, sono esposte al rischio di scegliere come soluzione l’aborto volontario.

Non possiamo ancora dire con certezza quale sarà il ruolo – di certo rilevante – delle seconde generazioni degli immigrati nell’Italia di domani. Gli scenari sono tutti aperti: che si parli di creatività e di voglia di fare impresa, o di devianza e di minacce alla sicurezza, le seconde generazioni sono pronte a fare la loro parte. Fare sì che il loro contributo sia il più possibile positivo e orientato a una convivenza civile è una delle maggiori responsabilità educative di cui il Paese dovrà farsi carico nei prossimi anni. Per questo si pone la domanda: come, tenendo anche conto delle esperienze di altre nazioni, riconoscere la cittadinanza ai figli di stranieri?

Slegare la mobilità sociale

27. Per riprendere a crescere servono nuove energie, soprattutto quelle dei giovani. D’altro canto, riprendere a crescere, verso e secondo il bene comune, è un modo per rispettare i diritti di chi diventa adulto, di chi è appena nato, di chi sta nascendo, di chi arriverà. In questi termini, crescere è un atto di responsabilità, di giustizia e di amore. Per queste ragioni occorre anzitutto abbandonare le sterili dichiarazioni a favore dei giovani e cominciare ad abbattere le barriere che ne impediscono la crescita piena, la mobilità sociale, in sostanza ne ostacolano quando non negano loro “il traffico dei talenti”. In questo momento, sono i giovani a pagare più di tutti i costi della crisi.

(ix) Come finanziare diversamente il sistema universitario, aumentando l’autonomia degli atenei e senza precludere l’accesso ad alcuno capace e meritevole?

28. L’università è l’istituzione che presidia la libertà del sapere e la tensione intellettuale alla verità, fornisce un contributo primario alla ricerca, garantisce i gradi più elevati della formazione, sostiene e dà metodo al confronto pubblico. È anche uno dei doni straordinari che storicamentetestimonia il servizio della Chiesa e dei credenti al bene comune. Come autonoma istituzione pubblica, è una delle condizioni della poliarchia e della società aperta ed è uno dei grandi motori della mobilità sociale e dell’emancipazione personale. Ciascuna di queste ragioni, la cui lista potrebbe continuare, manifesta il nesso tra università e bene comune.

Lo stato dell’università in Italia, a causa dell’insufficiente autonomia di cui gode e del suo contributo insufficiente alla ricerca e alla mobilità sociale, costituisce un’emergenza tanto grave quanto disattesa. Essa non può essere realisticamente affrontata nel suo complesso. È inevitabile partire da uno dei tanti nodi. In questo senso, appare cruciale quello che collega la necessità di crescita dell’autonomia anche finanziaria da parte delle università (il che può avvenire solo attraverso la vendita dei loro prodotti di ricerca e attraverso le entrate provenienti dalle iscrizioni) e la necessità che lo studio e la carriera universitaria non siano rese impossibili a giovani capaci e meritevoli, privi però di adeguate risorse finanziarie.

La grande qualità che punteggia la ricerca italiana, e parimenti la didattica, dipende più dalla dedizione di singoli che dalla buona architettura del sistema. Si deve riconoscere che oggi, in Italia, si produce qualità universitaria nonostante l’assetto istituzionale e finanziario piuttosto che grazie a essi.

Aspetti preoccupanti non mancano anche dalla parte della domanda: l’arresto dell’ascensore della mobilità sociale attraverso lo studio; il deficit di razionalità nell’allocazione delle risorse umane alle funzioni di studio e ricerca (per la presenza di una distorsione di ceto); l’inadeguata percezione del costo del servizio universitario da parte degli utenti/cittadini; lo scarso riconoscimento sociale allo sforzo e al merito individuale nella costruzione del proprio percorso esistenziale e professionale: tutto ciò influisce negativamente sul rango scientifico della nazione, sul dinamismo dell’economia, sull’incentivare i giovani alla responsabilizzazione e all’impegno.

La comparazione internazionale e anche le positive esperienze interne rivelano sia motivi di urgenza sia possibilità per intervenire.

Il nodo è complesso e rimanda a un insieme di aspetti, istituzionali e fiscali: dall’autonomia universitaria ai sistemi di reclutamento, allo status giuridico dei professori, al valore legale dei titoli di studio, al funzionamento degli ordini professionali e agli incentivi fiscali. È arduo quindi immaginare che l’uso di un solo strumento possa generare effetti risolutivi. Il problema da affrontare richiede di combinare soluzioni che riportino una quota maggiore del costo dell’istruzione universitaria sui beneficiari senza che ne risenta l’equità delle opportunità a parità di merito; che permettano alle università, intese come singole soggettività (ciascuna ben caratterizzata e maggiormente responsabilizzata) oltre che come sistema pluralizzato, di contare su una fonte di risorse addizionali per sviluppare proprie strategie di offerta e posizionamento; che responsabilizzino la società nelle sue varie articolazioni rispetto al bene comune dell’innalzamento delle competenze delle nuove generazioni, quale veicolo fondamentale di opportunità individuali e di chance di sviluppo economico intelligente.

Con riferimento ai problemi indicati, il binomio tra copertura dei costi dell’istruzione universitaria e creazione di un sistema allargato di accesso a borse di studio individuali potrebbe avere questi caratteri. Un discorso analogo e integrativo può essere sviluppato per i prestiti d’onore.

La cura del bene comune offre motivi per considerare prioritario affrontare il problema di come combinare la crescita di una responsabile autonomia delle università italiane e la crescita di sistemi di sostegno che restituiscano opportunità ai capaci e meritevoli sprovvisti di adeguate risorse economiche.

(x) Come ridurre le barriere per l’accesso alle professioni e al loro esercizio e come incrementare la libera concorrenza nelle stesse?

 

29. L’area dei servizi professionali, secondo la Convenzione europea di Lisbona, appartiene ai settori per i quali occorre ampliare il livello di concorrenza, aumentare i processi di liberalizzazione, modernizzare le regole di accesso e di trasparenza verso i mercati e i consumatori. Da un lato, ci sono delle ragioni valide per mantenere alcuni processi regolamentativi delle professioni, come l’asimmetria informativa tra clienti e prestatori di servizi o la caratteristica di esternalità (in quanto tali servizi possono avere influenza sui terzi). Di contro, non ci sono evidenze né ragioni per sostenere che regolamentazioni restrittive servano a mantenere un’alta qualità del servizio e proteggano i consumatori da comportamenti scorretti.

In questo settore, i tratti di chiusura e di monopolio in Italia sono ancora marcati. Ciò produce una molteplicità di effetti negativi. In primis frena il contributo dei servizi professionali alla crescita economica e danneggia i giovani e le professioni stesse limitando il ricambio dei soggetti: l’area delle professioni tende a essere dominata da una sorta di legge ereditaria.

Questo effetto perverso è assicurato, tra l’altro, dal presidio svolto dagli ordini alla chiusura delle professioni e dalla protezione offerta dallo Stato ai loro monopoli. I costi di tale chiusura e di questo tendenziale monopolio sono pagati dai cittadini, dai consumatori e in modo pesantissimo dai giovani professionisti e da quanti vorrebbero diventarlo.

Ridare mobilità e produttività al settore delle professioni si impone come obiettivo prioritario alla responsabilità per il bene comune. Pertanto, pur riconoscendo la convenienza di un certo grado di regolamentazione, esso andrebbe declinato piuttosto che secondo tradizionali regole restrittive, con meccanismi pro-concorrenziali.

In un contesto di crisi economica e sociale in cui si chiede a tutti gli attori di ridurre i livelli di protezione parassitaria, di rinunciare a barriere monopolistiche e di aprirsi alla competizione e alla modernizzazione, il mondo delle professioni, prima ancora degli attori politici, deve farsi carico di un processo di reale cambiamento e di apertura al nuovo e alle generazioni e ai saperi più giovani, tenendo bene in conto la circostanza che i servizi professionali costituiscono input importanti per l’economia e le imprese e che la loro qualità e competitività ha ricadute significative su tutta l’economia.

Interrogarsi su come aumentare l’apertura delle professioni e la concorrenza nei loro mercati significa, tra l’altro, porsi domande sulla natura giuridica e sul ruolo degli ordini professionali, sul pieno riconoscimento dell’esercizio professionale tramite società tra professionisti, sulla riforma dell’accesso, sulla tutela del cliente.

La cura del bene comune riconosce urgenza e priorità al problema di come incrementare in Italia accessibilità, flessibilità e attitudine all’innovazione, concorrenzialità e logiche di efficacia nelle attività professionali.

Completare la transizione istituzionale

30. Riprendere a crescere richiede un adeguamento delle istituzioni politiche: «abbiamo alle spalle oltre due decenni di nuova spinta alla partecipazione e di ripetuti tentativi di innovazione politica, ma anche di difficoltà a sbloccare i canali e le opportunità di partecipazione democratica» (Lettera di aggiornamento). Diffusa è la coscienza dell’urgenza di completare la transizione istituzionale. Molto è stato fatto: le istituzioni politiche hanno cambiato alcune regole e modalità di funzionamento, abbandonando i pilastri del modello consensualistico con cui erano state disegnate nella fase costituente e si erano poi radicate nella storia politica italiana. Sono note le ragioni storiche di quel modello istituzionale e anche i suoi eccessi, già messi in evidenza da personalità come Alcide De Gasperi e Luigi Sturzo, e – soprattutto a partire dagli Anni ’70 – aggravatisi con la crescita della società. Tuttavia, il mutare del contesto sociale e politico richiede ma non comporta automaticamente un’adeguata evoluzione delle istituzioni politiche. Anche in questo settore esistono oggi delle opportunità, che però non si concretizzeranno senza il nostro impegno. Anche laddove è stata fatta una buona “manutenzione istituzionale”, si avverte il bisogno di qualcosa di più. La transizione non è finita e la sua incompiutezza nuoce gravemente al bene comune. La responsabilità per il bene comune non può che esprimersi affrontando il problema del dare completamento alla transizione istituzionale in corso.

Naturalmente non tutti gli interessi organizzati, in primo luogo quelli del ceto politico, sono stati premiati dalle trasformazioni già realizzate né lo saranno da quelle che abbiamo bisogno di completare. Al contrario, molte tra queste trasformazioni hanno ridotto talune rendite di posizione, estendendo il peso diretto dell’elettorato, ampliando il rapporto tra potere e responsabilità, dando più peso agli interessi organizzati e ai diritti. Come poche realtà in Italia, la Chiesa ha saputo interpretare la stagione che si è avviata e i cattolici in molti e diversi modi sono stati protagonisti dell’avvio della transizione, a volte sino a pagare con la vita il loro coraggioso e lungimirante servizio.

La responsabilità per il bene comune ci spinge ad andare avanti: «i cattolici non possono affatto abdicare alla vita politica»[21], anch’essa vero atto d’amore al bene comune (cfr CV 7). Questa visione ci aiuta a individuare il cuore del problema nel rapporto tra potere politico e responsabilità. Le preoccupazioni per il bilanciamento dei poteri sono l’essenza di un regime politico che rispetta la libertà e i diritti fondamentali in un quadro sociale poliarchico. È per questo che le istituzioni politiche debbono completare il passaggio a un modello più competitivo. Tale passaggio non solo rafforza il radicamento della Costituzione repubblicana, ma ne è, per così dire, l’effetto. Non dobbiamo sbagliare la prospettiva: è l’incertezza del modello così come lo vediamo oggi realizzato a generare continue tensioni per l’equilibrio costituzionale, non il suo auspicabile coerente completamento. La verità è che gli attuali difetti di funzionamento scaturiscono dal mancato completamento del modello. In altre parole, le istituzioni politiche vanno dotate degli accorgimenti appropriati per consolidare il cuore del modello competitivo che chiarisce e rafforza i ruoli del governo, dell’opposizione e dell’elettore.

L’adesione alla prospettiva del bene comune porta inoltre a riconoscere come prioritario il problema di una concezione e di una prassi coerentemente sussidiaria del federalismo[22], a riconoscere il processo avviato e a porre la questione di come tale processo possa essere completato nella direzione che combina con maggiore efficacia le istanze di sussidiarietà e quelle di solidarietà che, non meno delle prime, degenerano non appena sottratte ai vincoli di limiti chiari e responsabilità imputabili.

(xi) Quale forma di governo (con contrappesi adeguati e una legge elettorale coerente) per completare la transizione secondo criteri di sussidiarietà, di responsabilità imputabile e di efficacia?

31. La transizione in corso è una straordinaria occasione per assicurare all’Italia una generazione di istituzioni politiche adeguate, perché capaci di assolvere alle loro funzioni specifiche e insostituibili in una società di molto cresciuta. La visione del bene comune aiuta a porre la questione del completamento della transizione delle istituzioni politiche in una prospettiva unificante, quella del rapporto tra potere e responsabilità (cfr CV 21). In questi termini, tale questione interroga la realtà ecclesiale a partire da una comprensione storicizzata e attuale della dottrina sociale della Chiesa. Come cattolici, non possiamo guardare alla transizione delle istituzioni politiche con gli occhi dell’osservatore esterno. La dinamica propria del discernimento incorpora infatti il momento del giudizio. Pensiamo dunque che alcune opportunità debbano essere colte per spostare equilibri ancora non stabilizzati verso nuovi assetti più funzionali al bene comune, da un lato per favorire la crescita di una società poliarchica e dall’altro per riconnettere, in forme più immediate e trasparenti, potere e responsabilità. La ricerca di un nuovo equilibrio tra lo spazio politico e quello delle altre funzioni sociali non contraddice la richiesta di una maggiore capacità decisionale delle istituzioni politiche e della corrispondente responsabilità. Istituzioni politiche più forti, più articolate e più facilmente valutabili sono essenziali al processo di crescita di una società che si vuole più ricca e più aperta e sono anche capaci di una relazione più certa e stabile con le molteplici forme di espressione della domanda sociale.

Con lo stesso spirito con cui don Luigi Sturzo, agli inizi degli Anni ’50, poneva in Parlamento i suoi interrogativi e denunciava le “tre malebestie” (assistenzialismo, clientelismo, partitocrazia), noi riproponiamo interrogativi analoghi. Come consentire, in modo pieno e trasparente, agli elettori di scegliere leader e partito (o coalizione) di governo prima del voto, per permettere un chiaro e immediato giudizio retrospettivo e prospettico dei governati sui governanti? Come consentire a chi governa di disporre, con equilibrio ma senza incertezze, degli strumenti appropriati per una rapida e trasparente gestione dell’indirizzo politico? Come garantire all’opposizione parlamentare visibilità e prerogative specifiche nei confronti del governo e della maggioranza? Come regolare, secondo il canone della trasparenza e non del solo divieto, la complessa questione del finanziamento della politica? Guardando al panorama e alla storia delle democrazie delle società avanzate le risposte possono essere diverse, ma non possono tardare ancora e debbono essere coerenti.

Inquadrare le forme di esercizio del potere esecutivo in sistemi di sussidiarietà e di responsabilizzazione personale significa provare a combinare la necessità di efficacia e quella di limitazione del potere politico (cfr CV 57), a cui richiama la visione del bene comune e che si fa particolarmente urgente in un momento di crisi non esente da esiziali e strumentali tentazioni antipolitiche. Tutto ciò conduce a riconoscere che, nelle presenti condizioni di transizione istituzionale, va attribuita un decisa priorità al problema della forma di governo, inclusi i suoi contrappesi e una conforme legge elettorale.

(xii) Come dare coerenza al federalismo?

32. La prospettiva del bene comune e, in particolare, il principio di sussidiarietà cui è ancorata, porta a prestare grande attenzione alle forme di raccordo tra potere politico e responsabilità: le colloca al centro del nostro ragionamento. Possiamo allora chiederci se le politiche di federalismo fiscale di cui si discute in questi tempi ci avvicinino a un migliore rapporto tra potere e responsabilità. Una risposta esauriente non sembra possibile allo stato dei fatti. Il criterio guida è chiaro: nei rapporti fra i territori debbono crescere il potere dei diversi livelli di governo e la loro responsabilità rispetto alle persone che vi abitano. Il sistema fiscale è l’architrave di questo processo, lontano dalle opposte ideologie della chiusura egoistica e identitaria di tipo territoriale e della centralizzazione burocratica dello Stato nazione.

Nelle condizioni politico-istituzionali date, trova adeguata soddisfazione il principio di sussidiarietà? Al momento si prevedono dosi massicce di uniformità anche per i territori fiscalmente autosufficienti, rimettendo in moto un meccanismo centralistico che non fa crescere poteri e responsabilità, che rende un servizio incerto al principio di solidarietà e dimentica i pregi sistemici del principio di sussidiarietà. Ciò si manifesta in misura eclatante nel caso della sanità e richiama più in generale la necessità di garantire i livelli essenziali delle prestazioni su tutto il territorio nazionale. Il diritto alla vita diviene un esercizio retorico senza quello a un’adeguata assistenza sanitaria. Tuttavia si deve a ogni costo evitare che questa ragione giustifichi il finanziamento dell’inefficienza e della quota parassitaria dell’interposizione pubblica nei diversi territori.

La recente legge-delega apre il dibattito su questo tema, ne traccia i confini, impone il confronto. Ci troviamo dunque in una fase di passaggio, nella quale sopravvivono spinte contrapposte che si dispiegheranno nella lunga fase di scrittura dei decreti legislativi e di entrata a regime della riforma. In questa fase potrà prevalere una coalizione di interessi favorevole a un nuovo equilibrio tra promozione delle differenze e riduzione delle diseguaglianze oppure quella opposta. Abbiamo soggetti e interessi pronti a sostenere un equilibrato modello italiano di federalismo fiscale, anche oltre il perimetro degli interessi economici. Il mondo cattolico costituisce nel suo insieme uno di essi: per patrimonio culturale e per configurazione organizzativa, dispone della cultura e delle strutture appropriate per diventare uno dei principali attori di sostegno del processo di redistribuzione dei poteri e delle risorse tra i diversi livelli di governo.

Allo stesso tempo, però, abbiamo a che fare con politiche di riforma caratterizzate da molti elementi d’incertezza, a metà strada tra un funzionale compromesso fra principi di uguale valore (autonomia fiscale e riduzione delle diseguaglianze tra i territori) e la produzione di decisioni-manifesto, spendibili sul piano del consenso ma fragili sul piano dell’architettura istituzionale e del tasso di reale innovazione. È forse opportuno intraprendere un percorso che consenta di meditare nuovamente sui dualismi e sulle differenze territoriali del Paese, ampliando la riflessione al federalismo inteso come decentramento funzionale e non solo territoriale, evitando gli effetti perversi di quello che viene etichettato come “federalismo per abbandono” e analizzando le potenzialità di soluzioni istituzionali differenziate per le diverse realtà territoriali, secondo un’intuizione che in fondo apparteneva agli stessi costituenti.

33. Proprio in vista del lavoro dei prossimi mesi, crediamo opportuno sottolineare un aspetto. Nella lista di problemi che abbiamo proposto non vengono esplicitate alcune grandi questioni, come la questione femminile, quella meridionale e quella ecologica. Non ci sono neppure alcuni temi tradizionali del cattolicesimo italiano, come quello alla valorizzazione del grande patrimonio di città e di qualità del vivere urbano o quello alla riqualificazione della pubblica amministrazione e della spesa che la finanzia.

È importante che sorgano simili interrogativi e che non siano liquidati con risposte di metodo. Seguendo una certa linea, abbiamo selezionato problemi il più precisi e il più realistici possibile. Questa scelta è stata compiuta non per evitare ma per affrontare le questioni più grandi qui ricordate.

Ciò che va fatto è aver ben presenti tali istanze e chiedersi se almeno alcuni dei problemi inseriti nell’agenda costituiscano – date certe condizioni – i punti di partenza migliori per affrontarle.

Un primo esempio si impone: tra le questioni più urgenti, vi è certamente quella della famiglia come specifica forma di relazione fondata sul matrimonio tra una donna e un uomo e aperta all’accoglienza della vita. Nessuno può negare che si tratti di un istituto vitale, ma anche discusso e seriamente minacciato. Nell’agenda proposta, praticamente tutti i problemi sono rilevanti per la famiglia, intesa sia come area di crisi che come risorsa. Limitiamoci però ad alcuni di essi, nei quali questa rilevanza è più evidente: come rendere il mercato del lavoro capace di riconoscere le specifiche esigenze e i peculiari diritti della famiglia e in particolare dei genitori con figli? Quali politiche fiscali e sociali per la famiglia? Come sostenere e dare nuova forza all’esercizio della autorità genitoriale? Come accrescere il potere della famiglia nello scegliere, premiare, punire o promuovere l’offerta scolastica? Come aiutarla a sostenere studi universitari di qualità per i figli? Come riconoscere i diritti dei figli che nascono in Italia da famiglie di non italiani? Certo, in queste domande non si toccano tutti gli aspetti della questione famiglia, ma – ecco il punto – sono questi i problemi da cui è realisticamente possibile partire? Si può realisticamente affermare che a partire da questi nodi è possibile dare alla famiglia le risorse per affrontare l’entusiasmante e sempre difficile compito di dire «sì» alla vita che nasce, a quella che chiede di essere educata, a quella che soffre o va incontro alla morte, alla vita che si manifesta nelle relazioni tra differenze, a partire da quelle di genere e di età?

Un discorso analogo si applica alla questione di un’azione adeguata di accoglienza, rispetto, servizio e difesa alla vita che nasce. Essa è sempre un dono indisponibile di Dio, affidato anzitutto alla responsabilità personale. Sappiamo però che tale irrinunciabile responsabilità può trovarsi a operare in contesti economici, giuridici, familiari e sociali più o meno favorevoli. In riferimento a tali contesti, a noi pare che le questioni qui individuate costituiscano non la totalità di quelle rilevanti, ma alcune di quelle più urgenti. Come dare all’economia una nuova dinamica positiva, al mercato del lavoro forme più adeguate, alle politiche fiscali maggiore equità e maggiore riconoscimento del valore pubblico che la famiglia produce e prima ancora è? Come rilegittimare e sostenere l’autorità di uomini e donne su cui la generazione, la famiglia e il servizio educativo di questa si regge? Come evitare che barriere etniche e cavilli giuridici limitino la doverosa universalità del riconoscimento della vita che nasce? Come dare alle famiglie che educano e crescono i propri figli la ragionevole fiducia in opportunità di mobilità sociale e dunque un poco di serenità in più nell’affrontare l’avventura del mettere al mondo una persona e nell’accettare la fatica di educare i giovani all’impegno, alla responsabilità, al dono di sé, alla maturità richiesta da scelte vocazionali? Come riformare il nostro sistema politico e giuridico perché torni a essere riconosciuta la non egemonia dello Stato sui diritti delle persone? Noi riteniamo che quanto si può fare dal punto di vista sociale per l’accoglienza e il sostegno alla vita nascente passi anzitutto per questi gruppi di problemi, ed è appunto il rapporto tra quell’istanza etica e l’agenda che proponiamo ciò che invitiamo a discutere con serietà e impegno.

In certo senso, chiediamo di fare lo stesso a proposito di tutte le altre grandi questioni. È partire da esse – la questione femminile, quella meridionale, quella ambientale, quella della garanzia della legalità e del contrasto alla criminalità organizzata, e così via – che l’agenda andrà testata e messa in discussione.

Contemporaneamente è importante non dimenticare di mettere in ordine i problemi, anche quando quello che precede sembra essere più piccolo, più tecnico e più “freddo” di quello che segue. Si può, per esempio, pensare di affrontare seriamente la questione ecologica o quella della qualità urbana se non sulla base di un coerente ed efficace sistema di federalismo territoriale e funzionale? Si può affrontare la questione della qualità della pubblica amministrazione e delle risorse che la finanziano senza aver prospettato un certo assetto (fatto di limiti, di competenze e di responsabilità imputabili) alla forma di governo, anzitutto a livello nazionale? Si può efficacemente affrontare un nodo – obiettivamente urgentissimo – come quello della sanità pubblica, se non affrontando quello del potere e delle responsabilità degli esecutivi e del modello di federalismo?

Infine, non vanno dimenticati due vantaggi del convenire, come cattolici ma anche come opinione pubblica, intorno a un’agenda ragionevolmente breve di problemi realistici, prioritari e precisi. Per i credenti significa accettare una visione più seria dei margini – tutt’altro che illimitati – entro i quali esercitare il legittimo pluralismo ideologico e politico[23]. Anche attraverso il richiamo alla concretezza, infatti, si combatte la confusione tra relativismo e pluralismo. Per l’opinione pubblica convergere su un’agenda di questo tipo significa riconoscere nella visione del bene comune un orientamento capace di dare forma all’analisi e alle prassi e condividere la responsabilità per il bene comune nonostante le differenze sociali, culturali o politiche.

V. Eucaristia e città

34. La visione di uomo e di società da cui partiamo per un autentico servizio al bene comune mettono in questione lo sperare. Pongono la domanda intorno a una speranza che incoraggia la ragione e le dà la forza di orientare la volontà. «Dio ci dà la forza di lottare e di soffrire per amore del bene comune, perché Egli è il nostro Tutto, la nostra speranza più grande» (CV 78).

Nell’esperienza della Chiesa e nella nostra esperienza quella speranza – i cui confini non sono a noi rivelati – «è già presente nella fede, da cui anzi è suscitata» (ivi). «Con dolcezza e rispetto, con retta coscienza» (1Pt 3, 15), possiamo dire che l’amore e la speranza che orientano la visione e sostengono l’esercizio della responsabilità per il bene comune sono da noi continuamente ravvivate nell’Eucaristia, sacramento della Chiesa. Del resto, cosciente di quell’economia di salvezza di cui Gesù è compimento (cfr DV 3), la Chiesa si riconosce «in qualche modo come il sacramento, ossia il segno e lo strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano» (LG 1).

35. Unita a Cristo, la Chiesa partecipa al compimento di quel disegno nel quale egli «ha rivelato l’amore del Padre e la magnifica vocazione degli uomini» e, inserendosi sino in fondo nella vita sociale e nel linguaggio degli uomini, «santificò le relazioni umane, innanzitutto quelle familiari, dalle quali trae origine la vita sociale» (GS 32). In Gesù, Dio e uomo si dicono fino in fondo «sì» (RH 9). In Gesù la seconda persona della Santissima Trinità assume sino in fondo la natura umana, conoscendo la tentazione senza cedere al peccato. Con gesti e parole[24] si è fatto carico ed ha insegnato a farsi carico di tutte le necessità della vita umana, donando e donandosi con una sovrabbondanza che non cancella l’originalità di ciascuno ma non è arrestata da alcun confine. Così egli ci ha preparato a comprendere il significato e la realtà del suo sacrificio eucaristico, «la più grande delle meraviglie operate dal Cristo, il mirabile documento del suo amore immenso per gli uomini»[25].

36. Partecipando all’Eucaristia siamo abilitati e invitati a vivere tutta la nostra vita secondo il progetto di vita personale e sociale di Gesù, siamo esortati «per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale» (Rm 12, 1). Con radicale realismo, l’Eucaristia dice che la carità è l’orientamento di coloro che si sono lasciati attrarre da Cristo. Ciò significa anche comprendere e servire il bene comune in qualsiasi condizione, tempo e frangente, esercitando quel discernimento ecclesiale attraverso cui la carità si arricchisce di conoscenza (cfr Fil 1, 9). Qui possiamo solo richiamare la fondamentale affermazione di Benedetto XVI: «la “mistica” del Sacramento ha un carattere sociale» (DCE 14). In verità, tutto il paragrafo andrebbe attentamente meditato per comprendere meglio il nesso tra Eucaristia e città, tra Eucaristia e attiva responsabilità per il bene comune: «L’unione con Cristo è allo stesso tempo unione con tutti gli altri ai quali Egli si dona» (ivi). Esiste forse qualcuno a cui egli non si sia donato? C’è qualcuno a cui lo Spirito Santo abbia cessato di donare «la possibilità di venire associato, nel modo che Dio solo conosce, al mistero pasquale» (GS 22)?

Se ciò è vero sempre, in modo speciale è vero per la domenica e la sua liturgia. «Vissuta così, non solo l’Eucaristia domenicale, ma l’intera domenica diventa una grande scuola di carità, di giustizia e di pace. La presenza del Risorto in mezzo ai suoi si fa progetto di solidarietà, urgenza di rinnovamento interiore, spinta a cambiare le strutture di peccato in cui i singoli, le comunità, talvolta i popoli interi sono irretiti» (DD 72). Ogni Messa domenicale genera e offre bene comune, sostiene visioni e responsabilità di bene comune. Recita solennemente la Preghiera eucaristica V/c:

“Donaci occhi per vederele necessità e le sofferenze dei fratelli;infondi in noi la luce della tua parolaper confortare gli affaticati e gli oppressi:fa’ che ci impegniamo lealmenteal servizio dei poveri e dei sofferenti.La tua Chiesa sia testimonianza vivadi verità e di libertà, di giustizia e di pace,perché tutti gli uomini si apranoalla speranza di un mondo nuovo”.

È una speranza e un amore da cui non basta partire, ma a cui occorre sempre nuovamente tornare (cfr SC 9-10), per esserne continuamente rigenerati. È un partire e un tornare alla mensa e al sacrificio dell’Eucaristia, sino al giorno in cui condivideremo la pace, la giustizia, la comunione e la gioia perfette della Gerusalemme che scende dall’alto.

Quanto la debolezza del nostro impegno per il bene comune della città ha le sue radici nella frammentarietà e nella tiepidezza del nostro tornare e partire dall’Eucaristia celebrata nel giorno del Signore? In un certo senso, è proprio questo l’interrogativo che fa da orizzonte a tutte le domande che ci siamo posti in vista delle giornate di Reggio Calabria e a cui dovremo rispondere durante la 46ª Settimana Sociale.

37. Anche Reggio Calabria non sarà che una tappa. La forza di quell’incontro sarà più chiara solo in seguito, quando potremo meditare e approfondire quanto sarà maturato in quei giorni.

Un incontro vero non è prevedibile nei suoi esiti e dunque non può essere precisa la risposta alla domanda che tanti si pongono e ci pongono su ciò che seguirà.

Fin d’ora, però, il Comitato può indicare alcune prospettive. Anzitutto quella di non disperdere il confronto che a Reggio Calabria avrà luogo. Cercheremo di prestare un ascolto attento e di raccogliere quanto meglio possibile i pensieri e le proposte comunicati in quei giorni e – come tradizione – di restituirlo alle Chiese che sono in Italia e all’intera opinione pubblica.

Un impegno che il Comitato sin d’ora intende fare proprio è quello di non interrompere il lavoro di discernimento che è stato avviato e che ha suscitato tanto interesse. Eventi sempre nuovi renderanno presto necessari approfondimenti, aggiornamenti ed anche cambiamenti nell’«agenda». Di questo impegno fa parte anche il sostegno a tutte le iniziative di discernimento che a livello locale o settoriale si sono attivate in vista dell’evento, non solo per incoraggiarle ma anche perché ciascuna di essere può trarre grande giovamento dal mettersi in rapporto con le altre.

Infine ci sentiamo invitati a cogliere attentamente la grande opportunità costituita dal prossimo Congresso Eucaristico Nazionale, che si svolgerà ad Ancona dal 4 all’11 settembre 2011: i due eventi sono reciprocamente legati e si richiamano l’un l’altro e insieme riprendono concretamente il Convegno Ecclesiale di Verona, nel riferimento agli ambiti di vita proposti come luoghi in cui portare la speranza che viene dal Signore Risorto e dall’incontro con lui nella celebrazione eucaristica domenicale. Ogni anno, poi, è segnato dal grande dono della festa del Corpus Domini. Perché non riscoprire la luce che da quel giorno deriva sul mistero che lega Eucaristia e città? Perché non farne un’occasione per ripensare e rigenerare la visione e la responsabilità dei cattolici per il bene comune?

Con questi pensieri e questa coscienza aspettiamo con gioia le giornate di Reggio Calabria. A esse invitiamo tutti, con vivissima cordialità. A esse ci prepariamo tornando sempre di nuovo alla mensa del cibus viatorum e di lì ripartendo, nella contemplazione della presenza di Gesù Eucaristia, vivente in mezzo a noi, nel cuore delle nostre città. Come Maria, restiamo in ascolto della sua parola, rinnovando il nostro sì per essere pronti a fare tutto ciò che Lui ci dirà (cfr Gv 2, 5), nella fede che «se il Signore non vigila sulla città invano veglia la sentinella» (Sal 127, 1).

Roma, 1° maggio 2010

Memoria di San Giuseppe Lavoratore

SIGLE DEI DOCUMENTI CITATI

CA                  Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Centesimus annus, 1º maggio 1991.

CDSC      Pontificio Consiglio della giustizia e della pace, Compendio della dottrina sociale della Chiesa, 25 ottobre 2004.

CV                  Benedetto XVI, Lettera enciclica Caritas in veritate, 29 giugno 2009.

CVMC      Conferenza Episcopale Italiana, Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia, Orientamenti pastorali dell’Episcopato italiano per il primo decennio del 2000, 29 giugno 2001.

DD                  Giovanni Paolo II, Lettera apostolica Dies Domini, 31 maggio 1998.

DV                  Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione dogmatica Dei Verbum.FC                  Giovanni Paolo II, Esortazione apostolica Familiaris consortio, 22 novembre 1981.

GE                  Concilio Ecumenico Vaticano II, Dichiarazione Gravissimum educationis.

GS                  Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione pastorale Gaudium et spes.

LE                  Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Laborem exercens, 15 settembre 1981.

LG                  Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione dogmatica Lumen gentium.

PP                  Paolo VI, Lettera enciclica Populorum progressio, 26 marzo 1967.

PT                  Giovanni XXIII, Lettera enciclica Pacem in terris, 11 aprile 1963.

RH                  Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Redemptor hominis, 3 aprile 1979.

SC                  Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione Sacrosanctum Concilium.

[1] Cfr Benedetto XVI, Omelia nel Santuario di N.S. di Bonaria, Cagliari, 7 settembre 2008.

[2] Cfr Benedetto XVI, Omelia in occasione della Concelebrazione Eucaristica in Valle Faul a Viterbo, 6 settembre 2009.

[3] Cfr Prolusione alla sessione del Consiglio Episcopale Permanente, 25-27 gennaio 2010, n. 8.

[4] Cfr Comitato scientifico e organizzatore delle Settimane sociali dei cattolici italiani, Documento conclusivo della 45ª Settimana Sociale Il bene comune oggi: un impegno che viene da lontano, 2008, n. 3.

[5] «La società non deve proteggersi dal mercato, come se lo sviluppo di quest’ultimo comportasse ipso facto la morte dei rapporti autenticamente umani. È certamente vero che il mercato può essere orientato in modo negativo, non perché sia questa la sua natura, ma perché una certa ideologia lo può indirizzare in tal senso» (CV 36).

[6] «Questa spinta planetaria può concorrere a creare rischi di danni sconosciuti finora e di nuove divisioni nella famiglia umana» (CV 33).

[7] Caritas in veritate ci sprona con audacia ad affrontare le crisi – anzitutto economiche – che la globalizzazione comporta o comunque si trova ad attraversare senza nostalgia per la sovranità assoluta della politica o per la sua pervasività sociale (“big governement”), ma restando fedeli all’insegnamento del Magistero sociale della Chiesa, per cui l’intervento politico nelle vicende economiche con caratteri di supplenza deve sempre mantenere i caratteri di eccezionalità (cfr CA 48).

[8] Cfr Conferenza Episcopale Italiana, Testimoni di Gesù Risorto, speranza del mondo, traccia di riflessione in preparazione al IV Convegno Ecclesiale Nazionale di Verona, 29 aprile 2005, n. 15 c.

[9] Cfr Conferenza Episcopale Italiana, Per un Paese solidale. Chiesa italiana e Mezzogiorno, 21 febbraio 2010, in particolare n. 5ss.

[10] Cfr anche Benedetto XVI, Lett. enc. Spe salvi, 30 novembre 2007, n. 17.

[11] Così continua il documento conciliare: «I nostri contemporanei stimano grandemente e perseguono con ardore tale libertà, e a ragione. Spesso però la coltivano in modo sbagliato quasi sia lecito tutto quel che piace, compreso il male. La vera libertà, invece, è nell’uomo un segno privilegiato dell’immagine divina. Dio volle, infatti, lasciare l’uomo «in mano al suo consiglio» che cerchi spontaneamente il suo Creatore e giunga liberamente, aderendo a lui, alla piena e beata perfezione. Perciò la dignità dell’uomo richiede che egli agisca secondo scelte consapevoli e libere, mosso cioè e determinato da convinzioni personali, e non per un cieco impulso istintivo o per mera coazione esterna. L’uomo perviene a tale dignità quando, liberandosi da ogni schiavitù di passioni, tende al suo fine mediante la scelta libera del bene e se ne procura con la sua diligente iniziativa i mezzi convenienti. Questa ordinazione verso Dio, la libertà dell’uomo, realmente ferita dal peccato, non può renderla effettiva in pieno se non mediante l’aiuto della grazia divina. Ogni singolo uomo, poi, dovrà rendere conto della propria vita davanti al tribunale di Dio, per tutto quel che avrà fatto di bene e di male».

[12] Testimoni di Gesù Risorto, speranza del mondo, n. 8.

[13] Cfr ad es. Benedetto XVI, Lett. enc. Deus caritas est, 25 dicembre 2005, n. 10.

[14] Cfr Comitato scientifico e organizzatore delle Settimane sociali dei cattolici italiani – Diocesi di Caltagirone, … Senza pregiudizi né preconcetti …, Memoria del novantesimo anniversario dell’“Appello ai liberi e forti”, in vista della celebrazione della 46a Settimana Sociale dei Cattolici Italiani, Roma 2010.

[15] Cfr ad es. CA34.

[16] È decisivo non confondere il concetto di bene comune con altri come ‘interesse generale’, ‘interesse nazionale’ o simili. In questi, infatti, alla collettività di riferimento viene attribuito un valore indipendente e spesso superiore a quello delle singole persone e delle loro relazioni.

[17] Prolusione alla 60ª Assemblea Generale dei Vescovi, Assisi, 9-12 novembre 2009, n. 9.

[18] Giovanni Paolo II, Discorso al Parlamento Italiano, 14 novembre 2002, n. 5.

[19] In base ai dati ISTAT, al 31 dicembre 2008 i residenti stranieri nati in Italia erano 518.700, circa sessantamila in più rispetto alla fine del 2007. Questi numeri non considerano i figli di coppie in cui un solo genitore è italiano.

[20] Nell’anno scolastico 2008-2009, la quota di alunni stranieri iscritti al primo anno delle scuole superiori (sul totale degli iscritti) varia da un minimo del 2% al liceo classico a un massimo del 13% agli istituti professionali.

[21] Congregazione per la dottrina della fede, Nota dottrinale circa alcune questioni riguardanti l’impegno e il comportamento dei cattolici nella vita politica, 24 novembre 2002, n. 1.

[22] Cfr Per un Paese solidale. Chiesa italiana e Mezzogiorno, n. 8.

[23] «La legittima pluralità di opzioni temporali mantiene integra la matrice da cui proviene l’impegno dei cattolici nella politica e questa si richiama direttamente alla dottrina morale e sociale cristiana. È su questo insegnamento che i laici cattolici sono tenuti a confrontarsi sempre per poter avere certezza che la propria partecipazione alla vita politica sia segnata da una coerente responsabilità per le realtà temporali» (Nota dottrinale circa alcune questioni riguardanti l’impegno e il comportamento dei cattolici nella vita politica, n. 3).

[24] Si pensi ai racconti evangelici delle “moltiplicazioni dei pani e dei pesci”: cfr Mt 14, 13-21 || Mc 6, 30-44 || Lc 9, 10-17; Mt 15, 32-39 || Mc 8, 1-10; cfr. Gv 6.

[25] Ufficio delle letture della solennità del Santissimo Corpo e Sangue di Cristo, cfr Opere di san Tommaso d’Aquino, opusc. 57.