Toscana

Settimane sociali, i cattolici rilanciano il bene comune

di Claudio Turrini

«La sfida è questa: rilanciare l’interesse per il bene comune tra i cattolici, perché poi diventino stimolo per l’intera società. Non il bene di alcuni o della maggioranza, ma di tutti». Monsignor Paolo Tarchi, fiesolano, Direttore dell’Ufficio per i problemi sociali e del lavoro della Conferenza episcopale italiana, sintetizza così gli obiettivi della Settima sociale in programma in questi giorni in Toscana, per la quale il suo Ufficio sta lavorando da tempo, assieme all’apposito Comitato scientifico e organizzativo. Oltre mille i partecipanti, provenienti da tutta l’Italia.

Questa Settimana sarà quella del «centenario». Ma è solo un appuntamento celebrativo?

«Il Comitato scientifico organizzatore ha pensato questa Settimana guardando al passato ma per progettare il futuro. Tanto è vero che il momento celebrativo è limitato alla prima sessione, giovedì a Pistoia con la relazione di Andrea Riccardi e l’intervento del prof. Petracchi sull’impatto che ebbe la prima Settimana sociale».

E come si guarda al futuro?

«Nel documento preparatorio il n. 2 sintetizza benissimo il senso di questa rivisitazione storica. Però poi dal n. 13 in poi tutto il documento guarda al futuro, alle sfide che abbiamo davanti: il problema della laicità nella postmodernità, il problema di un recupero del valore della verità e quindi il superamento di una visione privatistica dell’elemento religioso. E tutti i grandi temi di oggi: dalla biopolitica, all’educazione…».

Il problema della collocazione dei cattolici nel quadro politico non compare però nel programma…

«Direi che è trasversale. Rilanciare il bene comune nell’era della globalizzazione, come farà Zamagni nella sua relazione, cercando di superare il concetto di laicità e di sdoganare il pensiero cattolico dentro il dibattito culturale, per creare le condizioni di una riflessione culturale ma anche per una nuova alleanza per il bene del Paese tra laici e cattolici, questo dice molte cose. Dice la voglia dei cattolici di recuperare un protagonismo che 100 anni di storia ci riconsegna».

La Settimana si concluderà con un documento?

«Tutte le Settimane hanno un documento preparatorio e uno conclusivo. Non saranno le conclusioni affidate a Dalla Torre, domenica, ad essere definitive, ma il Comitato scientifico raccoglierà i molti stimoli avuti durante i lavori della Settimana e nel giro di qualche mese produrrà un documento che sintetizza e rilancia alle comunità locali il valore della riflessione fatta».

Che ricaduta ha avuto tra i cattolici l’ultima Settimana sociale, quella di Bologna, nel 2004?

«Prima di dire questo bisogna fare una premessa storica. Fino al 1970 facevano capo non alla Conferenza episcopale italiana ma alla Segreteria di Stato. Il Concilio crea una situazione nuova. Nella ripresa delle Settimane, che avviene per volontà del secondo Convegno ecclesiale, quello di Loreto (1985), che portò poi al documento del 1988 e alla prima Settimana nel 1991, le Settimane sociali vengono assunte dalla Conferenza episcopale italiana che nel frattempo ha raggiunto un suo protagonismo nella società italiana: per esempio la strutturazione negli Uffici e le molte iniziative a servizio delle comunità locali, i Convegni ecclesiali…».

Il contesto nel quale si inseriscono è cambiato, però non sembra che incidano come facevano le prime…

«Le prime Settimane erano l’occasione in cui i cattolici si ritrovavano anche per stabilire certe strategie che di lì ad un anno si dovevano realizzare. Erano molto operative. Se si pensa a quando nacquero, erano la risposta che i cattolici organizzati attraverso prima l’Opera dei Congressi e poi l’Unione Popolare di Toniolo, davano alle sfide dell’epoca, mettendo in rete tutte le forze che avevano. Oggi, come dice il documento del 1988, sono un’occasione per una riflessione di alto profilo sulle sfide che i cattolici hanno davanti. Quindi non sono orientate immediatamente alla prassi o alla pastorale, sono una riflessione alta che viene consegnata alle diocesi e alle associazioni perché da alcune linee che emergono si possono poi individuare percorsi operativi».

Tornando alla Settimana di Bologna, che frutti ha dato?

«L’esperienza di Bologna è stata di per sé bene accolta, ha avuto grande attenzione sui mezzi di comunicazione. Il dibattito su “nuovi poteri e nuovi scenari” è in qualche modo entrato – anche se non sempre in modo visibile – in molte realtà, permettendo di capire il nuovo. “il mondo che cambia”, come i documenti della Chiesa italiana continuamente ci ripropongono. È stata un’occasione per vedere i limiti di una politica nazionale e il bisogno di pensare la politica in termini nuovi alla luce anche dei poteri nuovi che stavano nascendo. Però non si può dire che è stata una Settimana che ha impegnato tutta la comunità, come avveniva per le Settimane nella loro prima stagione storica».

Nel programma non compaiono esponenti politici. È una scelta precisa?

«Nel percorso preparatorio abbiamo incontrato i politici il 13 giugno scorso, al centro congressi dell’Università Gregoriana. Ce n’era un buon numero, da entrambi gli schieramenti, tra cui il presidente Prodi e vari ministri. Noi abbiamo presentato loro il documento preparatorio e abbiamo detto che le Settimane sociali sono un luogo di riflessione a cui possono – se vogliono – partecipare. È una riflessione che fa bene anche a loro: che vengano, ascoltino… E in tanti, in effetti saranno presenti in platea».

I temi dibattuti

Le prospettive della biopolitica» ed «Educare e formare», «Bene comune nell’era della globalizzazione» e «Stato, mercato e terzo settore»: questi i temi delle quattro sessioni del 19 e 20 ottobre. Abbiamo chiesto ad alcuni relatori di anticipare in sintesi «il messaggio» dei loro interventi alla Settimana sociale «del centenario».

SOLO DIRITTI SOGGETTIVI? Nel clima culturale attualmente dominante, «l’ampliamento dei diritti soggettivi può comportare una degenerazione del concetto di biopolitica, che rischia di svuotare dall’interno l’idea e il ruolo stesso del diritto, ed il suo legame don il bene comune». È la tesi di fondo di Laura Palazzani, ordinario di Filosofia del diritto alla Lumsa, che a Pisa parla delle «gender theories» (teorie di genere, ndr.), «molto popolari soprattutto in America» e alla base delle quali «c’è l’idea che l’identità sessuale, maschile o femminile, sia una scelta di autodeterminazione dell’individuo». Uno degli obiettivi concreti è quello di puntare «alla legittimazione delle coppie omosessuali: scelgo io che tipo di rapporto avere con l’altro, a prescindere dal sesso di appartenenza; compresa la possibilità di avere figli, adottandolo o grazie all’ausilio delle tecniche riproduttive».

NO AL «GIOCO AL RIBASSO». «Oggi la questione educativa è diventata pressante, anche se nei fatti resta marginale». A sostenerlo è Luisa Ribolzi, docente di Sociologia dell’educazione all’Università di Genova, secondo la quale «parlare di crisi della scuola significa avere una cartina al tornasole delle difficoltà presenti nella società», riassumibili «nell’illusione che la scuola sia neutrale e nella tendenza a sostituire ad un sistema educativo basato su valori coerenti e condivisi la “filosofia della neutralità”». Nasce da qui la tendenza al «gioco al ribasso» in termini educativi, ossia sull’inclinazione a trovare un accordo su un’educazione «di basso profilo» perché «l’unica in grado di non generare conflitti». La parola chiave, invece, della lunga e ancora attuale tradizione cattolica in campo educativo è «servizio», inteso come «progetto formativo forte finalizzato al bene comune». «La stabilità di una società non dipende soltanto dal buon funzionamento delle istituzioni, dall’onestà della classe dirigente, dalla capacità di emanare leggi giuste, ma anche dalle virtù civiche dei cittadini»: è il nucleo di fondo dell’intervento di Giorgio Chiosso, ordinario di Storia della pedagogia all’Università di Torino, a parere del quale «non basta identificare un nucleo di valori condivisi sul piano della cittadinanza o di comportamenti virtuosi in campo etico se poi non si riesce a metterli in pratica. Ci vogliono, insomma, cittadini «di carattere», in grado di sostenere i giovani «a farsi una ragione del loro esistere nel mondo e del senso della vita sociale e capaci di perseguirli con determinazione».

SUSSIDIARIETÀ E DISUGUAGLIANZE. «Registriamo una viva preoccupazione, perché oggi il mercato e quindi gli obiettivi ed interessi dell’economia e della finanza sembrano essere divenuti strumenti “fuori controllo”, addirittura strumenti, interessi ed obiettivi che orientano la politica, piuttosto che essere la politica a utilizzare questi strumenti per raggiungere il “bene comune”»: lo dice Sergio Marelli, direttore generale della Focsiv, che interviene nella sessione dedicata a «Stato, mercato e terzo settore». Secondo Marelli, «occorre favorire l’attuazione del principio di sussidiarietà», mentre a livello internazionale siamo di fronte a «una economia non ancora equilibrata, che produce diseguaglianze anche gravi su scala planetaria».

INTERESSI INDIVIDUALI. «L’idea di bene comune che l’economia moderna e contemporanea ha fatto proprio nasce dalla “mutua indifferenza”»: è il concetto che Luigino Bruni, docente di economia politica all’Università Milano-Bicocca, pone come presupposto per riflettere su «Stato, mercato e terzo settore». «Ciò significa che la moderna teoria economica tende ad affermare che ognuno fa il proprio interesse, cercando di interagire il meno possibile con l’altro e il mercato trasforma gli interessi individuali in “bene comune”. Ma noi cattolici – domanda – possiamo essere contenti di una tale visione?». Secondo Bruni, «ovviamente no», perché «nasce da una antropologia che non è quella cristiana» e indica tre esempi di «economia diversa, orientata al “prendersi cura”: il commercio equo e solidale, la micro-finanza e finanza etica, l’economia di comunione».

IL CAPITALE SOCIALE. Per Giovanna Rossi, docente di sociologia della famiglia all’Università Cattolica di Milano «il “capitale sociale” rappresenta l’unità di misura con cui leggere tre ambiti: quello dell’associazionismo familiare, del volontariato e delle cosiddette “federazioni multilevel”, cioé le realtà complesse nel cui ambito ci sono varie tipologie di organizzazioni correlate. Il fattore unificante di questa realtà del terzo settore, cui nel nostro paese corrispondono ben 22 mila enti, secondo i dati Istat, è costituito appunto dal “capitale sociale” che si manifesta con quattro caratteristiche: un approccio relazionale di rete, la fiducia, la reciprocità e la cooperatività». Nella situazione odierna – secondo Giovanna Rossi – «occorre riconoscere il ruolo insostituibile di queste forme di privato sociale nella produzione del bene comune».

DARE SOSTANZA AL RAPPORTO LAICI-CATTOLICI. Una Settimana sociale «proiettata al futuro», nella «doppia logica» dell’elaborazione culturale e dell’individuazione di «linee di azioni comuni, al servizio del Paese». Così Cesare Mirabelli, presidente emerito della Corte Costituzionale, vede la 45ª edizione delle Settimane sociali. Un’edizione, quella del centenario, che «potrebbe cadere nel rischio dell’enfasi celebrativa», ma in realtà intende «dare sostanza» alla lettura del rapporto tra cattolici e politica. «Il bene comune – ha detto Mirabelli – non è una formula retorica, ma la chiave di volta della vita della comunità, la ragion d’essere delle istituzioni, l’ancoraggio in vista dell’impegno concreto». In questo contesto, «l’azione dei cattolici non è separata o contro qualcuno, o distaccata dalle cose reali». E «la democrazia non ci perde se, a fronte di problematiche etiche complesse, le diverse convinzioni vengono proposte, discusse e democraticamente difese. Temi come la famiglia e la bioetica appaiono essenziali per i cattolici e costituiscono dei valori non in antitesi con la laicità. Del resto la nostra Costituzione si basa su alcuni principi fondamentali che sono il primato della persona, la solidarietà, la sussidiarietà, l’ancoraggio alla democrazia come metodo». (a cura di Luigi Crimella e Maria Michela Nicolais)

L’inizio a Pistoia nell’«anno anticlericale»

Pistoia, dopo cento anni, ospita la giornata inaugurale delle Settimane Sociali. Ma cento anni fa quale era la realtà a Pistoia e perché fu scelta questa piccola cittadina? Pistoia contava, allora, 12-13 mila abitanti, il governo locale era composto di cattolici e liberali; era una città tranquilla, ma facilmente raggiungibile dal Nord e dal Sud dell’Italia, sia per strada, sia per ferrovia.

Il 1907 non era un anno facile per i cattolici. Lo storico Giorgio Petracchi, direttore del Dipartimento di Scienze Storiche e Documentarie dell’Università d’Udine, pistoiese, autore della Comunicazione «Il timone e la vela», nella giornata inaugurale delle Settimane, ha definito il 1907 l’anno più anticlericale in Italia. Alcuni scandali avevano avuto eco sulle pagine dei quotidiani, ma si ebbero anche azioni violente, in varie parti del paese, contro la Chiesa. Pistoia, piccolo centro, si prestava, soprattutto perché l’intento era di non attirare reazioni violente e si voleva anche dare una scarsa informazione su quest’evento, che si realizzava tra il 23 e il 28 settembre di quell’anno.

Nacque come un convegno di Studi per addetti ai lavori, che si articolò con le lezioni che si tenevano presso il Palazzo Dè Rossi e le Conferenze serali ( a cui si accedeva solo su invito) presso il Teatro Politeama, in Via del Can Bianco e che oggi non esiste più.

La Chiesa di Pistoia viveva, in quel periodo, una realtà difficile, come emerge dalle ricerche di Petracchi. Nel 1905 vi era stata un’ispezione del Visitatore Apostolico, Pietro Paolo Moreschini, passionista; aveva visitato settanta parrocchie, ma la sua relazione, tra l’altro, sottolineava la scarsa partecipazione ai precetti ecclesiali in città e, in campagna, anche se vi era maggiore partecipazione, ciò non sempre corrispondeva ad un segnale di sentimento autentico. La Settimana voleva essere un’occasione per dare una scossa alla Diocesi; una missione di rievangelizzazione che andava ad incoraggiare e sostenere anche le iniziative di don Orazio Ceccarelli e don Dario Flori, due sacerdoti animatori e promotori d’iniziative sociali nelle campagne.

La partecipazione dei delegati andò oltre ogni aspettativa degli organizzatori, con quasi cinquecento persone che arrivarono da tutta l’Italia e animarono i dibattiti degli incontri. La cosa non piacque, però agli anticlericali, massoni e anarchici, e la reazione violenta non si fece attendere.

La sera del 25 settembre, al termine della conferenza, quando i partecipanti si stavano allontanando e Giuseppe Toniolo si stava dirigendo verso la Stazione, un folto gruppo di anticlericali aggredì i cattolici e dopo fischi e offese ci fu una fitta sassaiola. Ma la cosa forse più grave fu l’imposizione ai negozianti a chiudere i loro esercizi il 27 settembre, appendendo un cartello con scritto «Chiuso per sciopero anticlericale».

La città subì tutto questo nel silenzio quasi totale. Ma il seme gettato con i lavori dei convegnisti non andò perduto. La reazione dei credenti cominciò a manifestarsi. La stampa ebbe un salto di qualità professionale, gli articoli cominciarono ad essere firmati senza timore. Il Settimanale cattolico «La Difesa» aumentò la sua diffusione passando dalle seicento alle milleduecento copie. Nacque la Casa Editrice «Giovanni Grazzini Editore» per la pubblicazione di libri cattolici. L’azione sociale nelle campagne fu incoraggiata e nell’arco dei tre anni successivi si sviluppò in maniera insperabile; nacquero decine di nuovi circoli, che realizzavano scuole serali, corsi d’istruzione per l’agricoltura, biblioteche, attività di beneficenza e sportive.

Le Casse Rurali da sei passarono a trentadue. Si sviluppava una sempre più diffusa scuola di democrazia, con attenzione alle problematiche sociali e diretta ad un maggior coinvolgimento delle fasce più emarginate dalla vita dello Stato.

Un seme che continua a dare frutti anche nella realtà d’oggi, con la testimonianza di decine d’esperienze di servizio e di risposte ai bisogni di chi soffre, ma anche con proposte culturali e la presenza sensibile delle Banche di Credito Cooperativo, nate dalle Casse Rurali.

Maurizio Gori

Toniolo, un santo con il carisma dell’unità

di Andrea Zanotto

Casa Toniolo, a Pisa nell’omonima piazza, sarà aperta ai delegati della Settimana Sociale dal 19 al 21 ottobre, dalle ore 14 alle ore 16. È l’occasione per parlare di Giuseppe Toniolo con don Enrico Giovacchini, direttore della Fondazione Toniolo di Pisa.

In cosa va ricercata l’originalità di Toniolo?

«L’intuizione della necessità di un cristianesimo impegnato nella cultura. Toniolo si inserì nel movimento cattolico con il suo tipico spirito costruttivo: non opporre, ma proporre. E poi un’attenzione alla ricerca, allo studio, nell’ambito delle scienze sociali, di cui oggi, troppo spesso, anche all’interno del clero, si sente la mancanza. È più facile trincerarsi dietro le proprie convinzioni ideologiche, prima che ideali, senza un vero confronto con gli altri. Ciò non significa non ricercare l’unità. Al contrario: il laico cattolico deve impegnarsi nel seminare e costruire assieme agli altri. E Toniolo era veramente l’uomo dell’unità, che però ricercava non attraverso l’omologazione dei propri pensieri e della propria personalità, ma con un costante impegno di riflessione culturale».

Un atteggiamento che è possibile rendere ancora attuale?

«Sarebbe importantissimo, soprattutto oggi, quando spesso, anche all’interno del mondo cattolico, si parte dalle divisioni e poi non si riesce a trovare ciò che unisce. In questo senso si può dire che Toniolo abbia esercitato un carisma profetico, proprio perché il profeta non è solo colui che denuncia, ma colui che nel denunciare va a indicare vie nuove. La ricerca della santità non era per lui un “di più” del proprio impegno professionale e di lavoro, ma l’impegno laico di santificare la propria vita impegnandosi a migliorare sempre sia la sua qualità professionale che il suo ruolo di padre e marito».

In effetti sembra che Toniolo abbia vissuto con grande impegno la propria professione…

«Subito dopo i doveri spirituali e famigliari per il professore era importante svolgere al meglio il suo dovere di docente curando non solo la ricerca scientifica, ma soprattutto il rapporto con gli studenti. Cosa significasse, lo indica il proposito: “aver massima sollecitudine dei miei discepoli, trattandolo come sacro deposito, come amici del mio cuore, da dirigere nelle vie del Signore».

Cosa ha rappresentato Pisa, per Toniolo?

«Gli anni in cui ha vissuto Pisa sono stati gli anni della piena maturità. Il professore, infatti, nato a Treviso nel 1845, si laureò in diritto all’Università di Padova, dove cominciò la sua carriera come assistente, e dopo una parentesi a Venezia e a Modena, si trasferì a Pisa, dove abitò per 40 anni con la moglie Maria Schiratti e i loro sette figli».

E a Pisa la sua testimonianza continua a essere fonte di idee nuove…

«L’ultima è la nascita dell’associazione degli “Amici di Toniolo”, frutto di anni di lavoro, incontri, seminari di formazione, e che ha appena scelto la sua presidente: la trentenne Silvia Roggero. Lo scopo dell’associazione, sulla traccia dell’insegnamento di Toniolo, non è tanto un impegno politico partitico, ma uno sviluppo delle sensibilità, soprattutto dei giovani, in ambito sociale».