Vescovi Toscani

Simoni: «Li assistevano con i loro beni» (31-12-1999)

Carissimi tutti, non parlo volentieri di soldi e non faccio volentieri il questuante. Può essere pudore, potrebbe essere un po’ d’orgoglio o di rispetto umano (e questo non sarebbe bene), oppure potrebbe dipendere dal timore di prestare il fianco a chi è sempre pronto ad accusare e sospettare vescovi e preti in fatto di soldi e di ricchezza. Ma una cosa è certa: chi ha a cuore la Chiesa non può dimenticare e trascurare gli aspetti amministrativi ed economici della sua vita e, se occupa posti di responsabilità, deve ricordare ai fedeli i loro doveri in proposito.

Anch’io devo fare così

Ha ragione l’Arcivescovo di Bologna, il cardinale Biffi, quando nella sua nota recente su Il sostegno economico dell’azione pastorale della Chiesa afferma al n. 2, con l’arguzia intelligente che gli è consueta: “Soltanto ai ricchi è concesso di non pensare necessariamente ai soldi. I poveri ci pensano spesso, devono pensarci per forza… Lo sapeva bene anche Gesù. Insegnava certo che bisogna cercare prima di tutto il Regno di Dio e la sua giustizia, perché il resto ci è dato in soprappiù (cfr. Mt. 6,33). Ma non ci ha mai detto che siamo esentati dal darci da fare per avere di che vivere”. Per la verità – aggiungo io – in genere i ricchi pensano spesso, e ossessivamente, ai soldi, e quasi sempre ci pensano per tenerli stretti e aumentarli ancora di più. Speriamo che fra loro non siano pochi i giusti o quelli che cercano di essere tali e si ricordano che la ricchezza può essere “disonesta” (cfr. Lc. 16, 8-9), quelli che si comportano non da padroni assoluti ma da “amministratori” – in nome di Dio, per il bene di tanti – dei beni ricevuti e accumulati. Ce ne sono senz’altro… ma se fossero di più!… Chi ricco non è e deve mandare avanti la famiglia – o deve guidare quella “famiglia delle famiglie cristiane” che è la Chiesa – non può fare a meno di occuparsi e preoccuparsi per “sbarcare il lunario” meglio possibile e far fronte onestamente alle varie necessità, anche sollecitando “quelli di casa” a dare il loro contributo, e anche, se necessario, chiedendo aiuti e stendendo la mano. Certamente un uomo di Chiesa deve fare tutto questo con l’umiltà e la dignità di chi serve soltanto il Signore e con un’immensa fiducia in Lui, ricordando ad ogni ora che la cosa essenziale è vivere come ci ha insegnato Gesù e che “il resto”, prima o poi, non ci sarà fatto mancare … (cfr. Mt. 6,25-34; Lc. 22, 35). Anch’io devo fare così.

Come ci ha insegnato Gesù…

Chi più spirituale, fiducioso, evangelico – ed evangelicamente povero – di Gesù? Certamente nessuno. Ebbene, Gesù e i suoi discepoli disponevano di un fondo (per quanto ridotto), avevano una cassa per le necessità della loro vita, per i poveri e per le tasse da pagare (cfr. Gv. 4,8; 12,6; 13,29; e Mt. 17, 24-25), ed erano assistiti da alcune “sorelle”. L’evangelista Luca riferisce che il Maestro, mentre andava per le città e i villaggi a predicare il Vangelo del Regno di Dio, aveva con sé, insieme ai dodici, alcune donne da Lui “liberate” e salvate…”che li assistevano con i loro beni”. Mi pare bellissimo – ed assai significativo per la Chiesa di ogni tempo – questo flash sulla primitiva comunità del Signore. Non si può dimenticare, inoltre, che per effetto della loro conversione a Pentecoste i primi cristiani di Gerusalemme pratica-vano la comunione dei beni in modo tale che tra loro non c’era alcun bisognoso (cfr. At. 2, 44ss e 4, 32ss). Non è che disprezzassero i beni materiali in sé, disprezzavano piuttosto e ripudiavano con decisione la cupidigia e l’egoismo, nonostante che neanche loro fossero immuni da tentazioni e cadute (cfr. At. 5, 1ss). I propri beni li mettevano a disposizione e li “spezzavano”, li “distri-buivano”, li condividevano come il Pane eucaristico. In questo spirito S. Paolo organizzò fra le comunità da lui fondate una colletta in favore dei “fratelli” di Gerusalemme e della Giudea che si erano venuti a trovare in gravi difficoltà. Consiglio a tutti di rileggere i brani neotestamentari al riguardo (cfr. At. 11, 28-30; Rom. 15, 25-28; I Cor. 16, 1-4; II Cor. 8 e 9). Essi ci fanno capire bene che una comunità è veramente “spirituale” nella misura in cui al suo interno si attua una circolazione fraterna e generosa dei beni “materiali”. Il vero servizio liturgico non può essere separato dal servizio e dall’aiuto a coloro che si trovano nel bisogno; la comunione eucaristica effettivamente compresa e vissuta si traduce anche in comunione economica. La vera fraternità comporta la ricerca del più alto livello possibile di uguaglianza, e l’autentico attaccamento al Signore e alla Chiesa si dimostra anche con la capacità di privarsi, in una misura o nell’altra, secondo coscienza, dei propri averi allo scopo di sostenere la vita e la missione della comunità.

Come facevano le prime comunità…

Un documento della Conferenza Episcopa-le Italiana di dieci anni or sono, Sovvenire alle necessità della Chiesa (14 novembre 1989), illustra bene le ragioni, lo spirito e le forme del sostegno economico alla Chiesa da parte dei cristiani così come avveniva al tempo delle comunità aposto-liche e nei primi secoli. Tra l’altro riporta qualche brano della Prima Apologia scritta da S. Giustino intorno all’anno 150 (cfr. il volume Gli Apologisti Greci, Ed. Città Nuova, 1986). Mentre un tempo – confessa Giustino – eravamo “bramosi più di ogni altro dei mezzi per conseguire ricchezza e possedi-menti, ora, portando in comunità quanto possediamo, lo condividiamo con chi è bisognoso” (14, 2). Senza dire che “in ogni luogo e per ogni cosa cerchiamo di pagare tributi e tasse ai vostri esattori come da Lui (Gesù) ci è stato insegnato” (17,1). E la domenica – “il giorno detto del sole” – durante l’assemblea eucaristica, da parte di coloro “che hanno in abbondanza” si dà liberamente quello che si vuole, “e quanto viene raccolto è consegnato al presidente”, ed “egli stesso va ad aiutare gli orfani, le vedove e coloro che sono bisognosi a causa della malattia o per qualche altro motivo, coloro che sono in carcere e gli stranieri che sono pellegrini: è insomma protettore di tutti coloro che sono nel bisogno” (67, 6).

Dai primi secoli ai nostri giorni

Nel corso dei secoli è stato complesso il rapporto fra Chiesa e beni economici, fra ideale evangelico della povertà e della carità e uso del denaro e dei beni materiali da parte delle persone e delle istituzioni della Chiesa, fra problemi materiali legati alla vita e alla multiforme missione ecclesiale e contributo dei fedeli alla loro soluzione, fra istituzioni ecclesiastiche e istituzioni civili in materia amministrativa ed economica. Si tratta di una storia densa di generosità cristiana, di creatività e di operosità benefica d’ogni genere, di adattamento alle varie situazioni, di difesa della libertà della Chiesa, ma nella quale non sono mancati purtroppo anche abusi, comportamenti ambigui e compromessi col “mondo”. La tensione tra fedeltà evangelica (più o meno radicale) e cedimenti mondani (più o meno gravi) non si è mai spenta. Certamente, però, non è venuta meno lungo i secoli la coerenza con un principio elementare, quello secondo cui la Chiesa vive e opera in mezzo alla società anzitutto col doveroso sostegno anche economico dei suoi fedeli: la partecipazione ecclesiale è anche partecipazione economica, e le sue varie forme non sono che la concreta traduzione – ora più perfetta, ora più mediocre – della “comunione dei beni” di cui si parla negli scritti del Nuovo Testamento e che resterà sempre un ideale “obbligato” per tutti i cristiani (e non solo per le comunità monastiche e religiose). In questa luce va vista la prassi delle elemosine, delle decime, delle donazioni, dei lasciti, dei legati pii, delle pie fondazioni, delle offerte in denaro e in natura, e cose analoghe. Esprimeva bene questa esigenza il tradizionale precetto: “sovvenire alle ne-cessità della Chiesa contribuendo secondo le leggi e le usanze”. Il nuovo Codice di Diritto Canonico (1983), al can. 222-par.1 così detta: “I fedeli hanno il dovere di sovvenire alle necessità della Chiesa per permetterle di disporre di quanto è necessario per il culto divino, per le opere dell’apostolato e della carità e per l’onesto sostentamento dei ministri sacri”. E nel can. 1254-par.1 si afferma che “la Chiesa Cattolica ha il diritto nativo, indipendentemente dal potere civile, di acquistare, possedere, amministrare e alienare beni temporali per conseguire i fini che le sono propri”. Naturalmente, a questo diritto – da rivendicare nei confronti dei poteri civili – corrisponde il dovere, per la Chiesa, di essere anzitutto evangelica e “libera” anche nella ricerca, nell’amministrazione e nell’uso dei beni materiali. Di questo, lo so bene, si deve ricordare – e questo deve ricordare a tutti – un vescovo diocesano mentre esercita il diritto-dovere di tener desta la coscienza dei fedeli anche in questa materia e il diritto-dovere di chiedere e di istituire una forma o un’altra di aiuti e di contributi. Il Sinodo Diocesano della nostra Chiesa pratese ha trattato ampiamente questa materia e ha deliberato in proposito in modo chiaro e convincente (cfr. nn. 912-917).

Come stanno le cose oggi?

Con gli indirizzi del Concilio Ecumenico Vaticano II (1962-1965), col nuovo Codice di Diritto Canonico (1983) e con la revisione del Concordato fra l’Italia e la Santa Sede (1984) è stato superato nella Chiesa italiana il vecchio sistema economico – recepito dal Concordato del 1929 – che era sostanzialmente basato sul cosiddetto “beneficio ecclesiastico” (un complesso di beni formatosi nei secoli e destinato a provvedere alle necessità dell’ufficio dei vescovi, dei parroci, ecc.), nonchè sulle cosiddette “congrue” (assegni integrativi erogati dallo Stato ai vescovi e ai sacerdoti, anche per risarcire la Chiesa della perdita degli enti ecclesiastici soppressi e dei beni incamerati in seguito alle leggi eversive promulgate fra il 1700 e il 1800). Il nuovo sistema – con le disposizioni entrate in vigore dal 1 gennaio 1987 – appare più adeguato al principio della collaborazione a cui si sono impegnati, nella loro reciproca indipendenza e sovranità, lo Stato e la Chiesa, oltre a quello del congruo e dignitoso sostamento del clero a servizio delle Diocesi. Tenendo conto della normativa prevista nella legge e di altre normative in materia, si ha – oggi – il quadro seguente: a) Oltre, naturalmente, alla proprietà dei vari edifici, storici o meno, è rimasto alle Diocesi, alle parrocchie e alle altre chiese – degli antichi benefici – quanto è stato ritenuto necessario ed utile, in beni mobili e immobili, per le rispettive attività pastorali. In ogni Diocesi la massima parte degli antichi “beni beneficiali” (in genere terreni e case non di stretto uso pastorale) è stata trasferita a un’istituzione nuova, l’Istituto Diocesano per il Sostentamento del Clero (IDSC), il quale opera in collegamento con l’analogo Istituto Centrale per il Sostentamento del Clero (ICSC), e al quale trasmette il ricavato della propria amministrazione. Ambedue gli Istituti sono regolati da leggi statali ed ecclesiastiche che ne assicurano il funzionamento e la trasparenza. b) I cespiti complessivi in dote alle Diocesi non sono sufficienti, spesso, a sostenere né il loro personale, né le loro attività e opere varie, né gli stessi edifici (alcuni dei quali, ovviamente, non possono essere alienati, dato il valore religioso, storico e artistico che essi hanno). Un tale sostegno resta affidato anzitutto ai fedeli e alle comunità, che adempiono a questo devere con offerte, contributi ed elargizioni date in occasione della domenica, delle feste, delle celebrazioni e in altre circostanze o con altre modalità. Di per sé, infatti, spetta ad ogni comunità provvedere sia all'”apostolato” che all'”apo-stolo”. Va tenuto presente, però, che ordinaria-mente – almeno in Diocesi come la nostra – sono poche le comunità in grado di sostenere da sole tutte le spese necessarie per la pastorale parrocchiale e diocesana, la carità, la cooperazione missionaria e il sostentamento dei propri sacerdoti. c) Lo Stato italiano favorisce la Chiesa in due maniere. La prima maniera è quella del cosiddetto “otto per mille”, che in pratica consiste in questo: l’otto per mille delle entrate dello Stato ricavate dall’imposta IRPEF – e che lo stesso Stato si è impegnato a destinare per scopi di interesse sociale o di carattere religioso – viene destinato alla Chiesa Cattolica in base e in proporzione alle scelte fatte dai cittadini contribuenti al momento della dichiarazione dei redditi. Sono i cittadini, quindi, a stabilire, in ultima analisi, quanto dev’essere trasmesso alla Chiesa Cattolica. Va ricordato, d’altra parte, che del sistema “otto per mille” usufruiscono anche altre Confessioni cristiane e altri Gruppi religiosi che abbiano sottoscritto intese con lo Stato, secondo il principio pattizio contenuto nell’articolo 8 della nostra Costituzione. La seconda maniera consiste in questo: le erogazioni liberali in denaro date alla Chiesa Cattolica per il sostentamento dei sacerdoti – e inviate all’Istituto Centrale per il Sostentamento del Clero (ICSC) – sono “deducibili”, fino a due milioni, dal reddito complessivo delle persone fisiche. d) Gli introiti dell'”otto per mille” sono impiegati dalla Chiesa italiana e dalle singole Diocesi per questi scopi: 1) esigenze di culto e pastorale (ad esempio, chiese nuove e nuovi ambienti parrocchiali, attività pastorali diocesane, contributi per i beni culturali e artistici, sostegno ai tribu-nali ecclesiastici regionali soprattutto per alleggerire il costo delle cause matrimonia-li, attività ecclesiali di rilievo nazionale …); 2) interventi caritativi a favore della col-lettività nazionale o di paesi del Terzo Mondo; 3) contributo all’Istituto Nazionale per il Sostentamento del Clero (ICSC), al fine di assicurare la remunerazione ai ves-covi e ai sacerdoti e di provvedere anche alla loro pensione. Le erogazioni od offerte “deducibili”, invece, sono impiegate esclusivamente per il sostentamento del clero. Naturalmente – ecco una cosa importante da ricordare – maggiore sarà il gettito di queste erogazioni e minore sarà il contributo dell'”otto per mille” alla cassa del sostentamento del clero e, di conseguenza, più grandi saranno le possibilità dello stesso “otto per mille” di provvedere alle esigenze pastorali, alle chiese nuove, alle opere di carità, ai beni culturali. e) Da sole – ritorno a dirlo – le singole Chiese diocesane non possono riuscire, se non in parte (spesso in piccola parte), a restaurare e a riparare gli edifici di culto, spesso di valore artistico-monumentale, e le tante e tante opere d’arte. Poiché tali edifici e tali opere sono un bene culturale dell’intera nazione e delle comunità locali, lo Stato e gli Enti Locali contribuiscono in maniera rilevante ai numerosi necessari restauri. Al riguardo, inoltre, si rivelano sempre più provvidenziali le cosiddette “sponsorizzazioni” da parte di enti, aziende e privati. Naturalmente, restano impegnate in tutto questo le Chiese locali, con i loro fedeli, e spesso lo sono con notevoli sacrifici.

Come si mantengono, oggi, i preti, il vescovo e l’attività diocesana e parrocchiale?

a) Ordinariamente un nostro sacerdote riceve dal vigente sistema italiano del sostentamento del clero una remunerazione mensile che si aggira tra 1.400.000 e 1.500.000 lire e può contare sulle offerte ricevute a titolo personale (ad esempio, in occasione della celebrazione di Sante Messe o con altre modalità parrocchiali o istituzionali). La remunerazione mensile ricordata qui sopra è la risultante di una quota versata dalla comunità in cui il sacerdote presta servizio (in genere è una quota assai ridotta) e dal contributo (prevalente) dell’Istituto Centrale per il Sostentamento del Clero (ICSC). I nostri preti, così, sono messi in grado di vivere in maniera dignitosa. E più i preti sono generosi, più la gente è generosa con loro. Guai, d’altra parte, se un prete accumulasse, indebitamente, per sé. b) Le offerte raccolte la domenica o donate in altre circostanze ordinarie o straordinarie sono destinate alla chiesa e alla comunità, alle sue attività pastorali, alla sua vita di culto, alla sua carità, al mantenimento dei suoi ambienti, oppure a particolari intenzioni diocesane ed universali oltre che a speciali aiuti ai bisognosi vicini e lontani o ai missionari (si pensi alle diverse “giornate”: per le Missioni, per la Carità, per il Seminario, per la Terra Santa, ecc.). Grande in Diocesi di Prato è stata la generosità del nostro popolo per la costruzione delle chiese nuove, per le opere di carità e di apostolato, per interventi di restauro, per il sostegno alle Missioni e ai bisognosi. c) Ogni comunità parrocchiale, e ogni altra comunità e istituzione, non ha solo il dovere di contribuire, ma anche il diritto di essere amministrata bene, con correttezza, trasparenza, saggezza, corresponsabilità. A questo scopo in ciascuna parrocchia deve funzionare realmente – non sulla carta e basta – l’apposito consiglio per gli affari economici, previsto dal Codice di Diritto Canonico (can. 537) e dal nostro Sinodo Diocesano (cfr. n. 916) e regolato dalle direttive diocesane. Le parrocchie però non possono compiere nessun atto di amministrazione straordinaria senza il benestare della Diocesi. d) Al tempo stesso ogni parrocchia, in coerenza con la sua propria natura, ha con la Diocesi un doveroso e reciproco scambio, morale e materiale, di “dare ed avere”, che giova a tutti ed esprime l’unità della Chiesa locale. In questo spirito ogni comunità parrocchiale – così come ogni istituzione ed opera diocesana – concorre a sostenere le spese della vita e della pastorale della Diocesi (a tutt’oggi, tra noi, nella misura del 3% sulle proprie entrate). e) Anche il vescovo vive e fa fronte ai propri doveri di cristiano e di cittadino con la remunerazione prevista dal sistema nazionale del sostentamento del clero (complessivamente riceve di fatto circa 2 milioni mensili), nonché con le “elemosi-ne” delle Sante Messe ed alcune offerte donategli a titolo strettamente personale. Alle spese generali della casa e dell’ ufficio del vescovo di Prato fa fronte la Curia, che amministra i redditi derivanti da alcune locazioni del palazzo vescovile. Attualmente le offerte consegnate al vescovo di Prato in varie circostanze del suo ministero sono impiegate da lui stesso, a sua discrezione, per interventi di carità o per particolari necessità pastorali. f) Ai costi della vita e dell’attività della Diocesi, sia di quella ordinaria che fa capo ai vari uffici pastorali, sia di quella straordinaria (eventi, celebrazioni e inizia-tive speciali) si provvede anzitutto con i contributi annuali delle singole parrocchie e di alcuni enti diocesani (il 3% di cui so-pra), con una percentuale (tra il 10 e il 15%) del ricavato delle eventuali vendite effettuate nell’ambito diocesano, nonché con le somme provenienti annualmente dall'”otto per mille”. In questi anni il costo complessivo della vita diocesana – per stipendi, uffici, attività correnti, iniziative varie, spese generali – si è aggirato sui 500 milioni annui. Se venisse meno il reddito dell'”otto per mille” saremmo in gravi difficoltà. Non rientrano ovviamente in questa amministrazione “ordinaria” né alcune speciali attività pastorali e caritative diocesane, né la costruzione o il restauro degli edifici, né la vita di alcuni particolari enti e servizi della Diocesi (ad esempio, il Seminario, la Cattedrale, Villa del Palco, il settimanale “Toscana oggi-La Voce”, le case per ferie …).

L’ “otto per mille” e la nostra Diocesi

a) Nel decennio scorso la percentuale dei pratesi che hanno “votato” per l'”otto per mille” alla Chiesa Cattolica è stata abbastanza alta: gli ultimi rilievi ci dicono che in provincia di Prato la percentuale è stata dell’84,1%, un dato superiore a quello regionale toscano (78,7%) e a quello medio dell’Italia centrale (83,1%), ma inferiore a quello della media nazionale (86,1%). Al riguardo possiamo dirci abbastanza soddisfatti. Non proprio soddisfatti, invece, si può essere a proposito delle offerte “deducibili”, perlomeno in rapporto allo scopo per cui sono state istituite. In questi ultimi anni, infatti, mentre il sostentamento del nostro clero diocesano (un centinaio di persone) – assicurato soprattutto coi soldi dell'”otto per mille” dal centro nazionale – costa complessivamente oltre 2 miliardi l’anno, le offerte “deducibili” dei pratesi al riguardo sono state poco più di 4.000 per un totale di circa 145 milioni. Se si tiene conto che le parrocchie ed altri enti della Diocesi contribuiscono, per la loro parte, alla remunerazione dei propri sacerdoti con la somma complessiva di circa 600 milioni, e che l’Istututo Diocesano Sostentamento Clero contribuisce, per lo stesso scopo, con circa 80 milioni inviati all’Istituto Centrale, si capisce bene che è soprattutto l'”otto per mille” a sostenere ben oltre la metà di quest’onere. Il che impedisce, ovviamente, che vengano finanziate amaggiormente con esso la carità, la pastorale, gli edifici di culto, i beni culturali. b) Oltre che per il sostentamento dei nostri sacerdoti (secondo le cifre or ora ricordate) l'”otto per mille” è stato ed è tuttora un aiuto di grande rilievo per la vita complessiva della Chiesa pratese. Ecco i dati più significativi. 1. Sul capitolo “edilizia di culto” è arrivata alla nostra Diocesi negli anni ’90 una somma di 2 miliardi e 350 milioni, di cui hanno usufruito, per le loro chiese nuove, le parrocchie di Vergaio, di Reggiana, del Pino, di Galcetello, di Fontanelle, dei Santi Martiri. 2. Tra il 1990 e il 1999 i contributi per “gli interventi caritativi” in Diocesi sono stati di 2 miliardi e 900 milioni (circa 250/300 milioni annui). Queste somme sono servite a sostenere varie opere e attività della Caritas diocesana a favore di pratesi e di stranieri, a integrare il finanziamento dei lavori del centro per cerebrolesi sopra la Castellina, dell’asilo notturno La Pira in via Pistoiese e di casa Betania (anch’essa in via Pistoiese), nonché ad aiutare la nostra Mis-sione diocesana in Ecuador. 3. Il contributo per “il culto e la pastorale” – sempre nel periodo 1990-1999 – è stato di 4 miliardi e 848 milioni (circa 400/450 milioni annui): una somma notevole impie-gata per la vita ordinaria e le attività cor-renti della Diocesi e dei vari uffici, per sostenere attività pastorali particolari (ad esempio l’Oratorio cittadino di S. Anna e la Missione diocesana in preparazione al Giubileo), nonché – cosa preziosa e provvi-denziale che ci è stata consentita – per la ri-duzione del pesante debito diocesano (che, come è noto, ha costituito il problema fi-nanziario-amministrativo più serio e fatico-so affrontato in questi anni). 4. Contributi per circa un miliardo di lire sono in parte venuti e in parte sono stati stanziati a sostegno di importanti restauri in complessi monumentali e storici (come la Badia di Vaiano, S. Ippolito di Vernio, S. Lorenzo a Pizzidimonte), e hanno finanziato interventi a favore dei nostri beni librari e archivistici. c) Per la precisione – e a scanso di equivoci e di illusioni – va notato che nel corso degli ultimi anni l’entità rilevante dei contributi pervenutici – soprattutto per “il culto e la pastorale” e per “gli interventi caritativi” – è dipesa dal fatto che lo Stato ha erogato in questo periodo una parte delle somme dell'”otto per mille” che avrebbe dovuto erogare negli anni precedenti e che invece, a causa delle proprie difficoltà finanziarie, aveva chiesto e ottenuto di liquidare successivamente. Tale “conguaglio” si è ormai esaurito. E quindi d’ora in avanti il contributo dell'”otto per mille” alle Diocesi (e dunque anche a noi) – particolarmente sui due capitoli ricordati – sarà certamente assai inferiore. Stando così le cose, riceveremo molto meno da Roma. Il che – considerati i benefici che abbiamo avuto da questo “sistema” concordatario – ci spinge ancora di più ad impegnarci affinché non diminuisca in questi anni la scelta convinta dell'”otto per mille” a favore della Chiesa Cattolica e crescano tra noi le offerte “deducibili” per il sostentamento del clero, attualmente troppo scarse.

Due mezzi importanti da usare

Fermo restando – ripeto – che ogni fedele e ogni famiglia cristiana, nella misura delle proprie possibilità, ha il dovere di sostenere la propria comunità diocesana e parrocchiale nei modi più tradizionali e consueti e secondo le diverse necessità, è di grande importanza tuttavia che ognuno capisca il valore delle due forme di contribuzione messe a disposizione dagli attuali accordi tra Stato e Chiesa in Italia. a) Firmare per l'”otto per mille” alla Chiesa Cattolica – nella propria dichiarazione dei redditi – è un atto facile e rilevante di fede e di partecipazione ecclesiale, e non costa nulla. E’ una sorta di “votazione” per la propria Chiesa; è una scelta di grande valore ideale e pratico finalizzata a che vada alla propria Chiesa, per le sue attività e necessità, una quota-parte delle somme ricavate dalle imposte sul reddito delle persone fisiche che lo Stato incassa e che liberamente ha deciso di mettere a disposizione per scopi di carattere religioso e umanitario. Sarebbe grave non farlo, magari per trascu-ratezza o a causa di qualche antipatia o di qualche (più o meno motivato o sciocco) risentimento particolare. b) Con le offerte “deducibili”, poi, si ha modo di sostenere i propri sacerdoti, i quali – come si diceva – ricevono un assegno mensile proveniente dall’Istituto Centrale per il Sostentamento del Clero (ICSC), il cui fondo – lo ripetiamo ancora – è alimen-tato da tali elargizioni liberali oltre che dalle somme (in genere piccole) inviate dai singoli Istituti Diocesani per il Sostentamento del Clero (IDSC) e soprattutto dal contributo (per ora molto grande) derivante dall'”otto per mille”. Non pochi fedeli – come si sa – inviano offerte a questa o quell’altra istituzione religiosa, missionaria o assistenziale, e per questa o quell’altra opera buona. Tutto bene, naturalmente. Ma si deve capire di più che oggi, in Italia, una delle principali “opere buone” consiste proprio – oltre che nel firmare per l'”otto per mille” alla propria Chiesa – nell’inviare offerte per il congruo e dignitoso sostentamento dei sacerdoti (tramite gli appositi bollettini che si trovano in parrocchia o in sedi diocesane). Senza dire, poi, che questa “opera buona” – oltre ad avere il valore di un gesto di fede e di partecipazione alla vita della comunità cristiana – costituisce una testimonianza significativa e certamente influente anche sul piano sociale e civile. Nella nostra Diocesi ci si sta impegnando perchè questo sia compreso da tutti. Bisogna impegnarsi ancora. c) In conclusione, concorrendo a sostenere la Chiesa attraverso l'”otto per mille” e con le offerte “deducibili”, si presta un aiuto di grandissimo rilievo alle Diocesi italiane e alla nostra Diocesi. Senza questi proventi tutto si farebbe più difficile per noi, sia per la nostra vita pastorale e missionaria e la nostra carità, sia che (in questo momento soprattutto) per la progressiva e definitiva soluzione dei nostri particolari problemi finanziari.

Ho a cuore la Chiesa!

Carissimi tutti, queste pagine sono state scritte per ricordare ai cristiani della Chiesa pratese un valore da tener sempre presente e un dovere da osservare generosamente. Chi ha vivo il senso dell’appartenenza ecclesiale sentirà questa osservanza come un’esigenza di famiglia, come un punto d’onore. Contribuire a mantenere e sostenere – in diverse forme, e sempre per convinzione e del tutto liberamente – la propria comunità e la sua missione è un “sacrificio gradito a Dio”, che non pesa a chi ama. Chi ama, semmai, sente il peso di non poter fare di più. D’altra parte, ciascuno dà quello che può dare, in proporzione alle sue effettive possibilità (e soprattutto in proporzione al suo amore). Parlando della colletta in favore dei cristiani di Gerusalemme, S. Paolo scriveva: “Ciascuno dia secondo quanto ha deciso nel suo cuore, non con tristezza né per forza, perchè Dio ama chi dona con gioia” (2Cor. 9,7). Chi ha a cuore la Chiesa, e anche chi, pur non essendo pienamente inserito nella sua vita, ne apprezza tuttavia l’opera e la presenza, non dirà scioccamente che ai preti e alle parrocchie ci deve pensare il Vaticano… né si farà influenzare da grossolane polemiche e chiacchere di un genere o di un altro, da bar o da salotto, su vescovi e preti. Chi ha a cuore la Chiesa, e chi in ogni modo la guarda con rispetto e onestà, sa pure che l’aiuto ad essa elargito – a cominciare da quello dell'”otto per mille” e delle offerte “deducibili” – dev’essere assolutamente disinteressato. La Chiesa non può barattare una firma sulla dichiarazione dei redditi o un qualsiasi beneficio economico con la propria libertà di parola, di azione e di testimonianza cristiana. La Chiesa non può sottostare ai ricatti di chi dispone di poteri e di averi. In realtà tantissimi fedeli a Prato – singoli e famiglie, donne e uomini del nostro popolo, nei passati decenni e tutt’oggi – hanno avuto la “gloria” di sostenere con una grande generosità parrocchie, comunità religiose e molteplici opere della vita e della missione diocesana. Non avremmo avuto Villa del Palco, l’Opera S. Rita, il Pensionato della Giovane, Villa Maria Assunta, le case marine e montane, i centri di accoglienza della Caritas, la mensa e l’asilo notturno La Pira, l’Oratorio di S. Anna e non poche scuole – e l’elenco non è completo – senza la “diffusa” carità del nostro popolo e quella di alcune persone e famiglie. Come non riconoscere, con gratitudine, il cuore dei cristiani pratesi! Molti si son ricordati di “sovvenire alle necessità della Chiesa” in circostanze lieti o tristi. Non pochi se ne sono ricordati nell’atto di far testamento. E oggi? Il fiume delle generosità operosa e gratuita non si è esaurito fra noi. Ma per essere sinceri, bisogna confessare che il cuore e la borsa di non pochi fra coloro che hanno beni in abbondanza si potrebbero aprire assai di più. A Prato – e tra i credenti di Prato – ci sono capitali e disponibilità così grandi che in un batter d’occhio si potrebbero risolvere alcuni seri problemi della Chiesa pratese e incrementare preziosissime opere di carità, di educazione, dei nostri ragazzi, di coopera-zione missionaria… (senza dimenticare, si intende, che i capitali sono primariamente destinati al lavoro, alla produzione di ricchezza per il benessere di tutti, alla solidarietà sociale, affinchè – come ci ispira a dire un testo degli Atti degli Apostoli 4, 24 “non ci sia nessuno bignososo tra voi”). Quante sofferenze e ansietà sarebbero alleggerite, e quante attività benefiche sarebbero realizzate se certe orecchie sentissero veramente, o di più, la “musica” della parola e dell’amore di Cristo! Ringrazio tutti coloro che, questa musica divina, l’hanno sentita e la sentono, senza chiudere il cuore. Ce ne sono, ce ne sono fra la nostra gente, in ogni categoria, grazie al Signore! Che siano ancora di più, che siano molti davvero coloro che possano dire in coscienza: “ho a cuore la Chiesa”! Ringrazio pure chi aiuta il vescovo a stendere la mano e a ricordare il valore e l’esigenza del sostegno – anche del sostegno economico – alla Chiesa in Italia e a Prato. Tutto questo si fa unicamente per la causa del Vangelo e della salvezza umana, per il bene terreno ed eterno di innumerevoli persone, in coerenza con la nostra fede e con l’Eucarestia domenicale.

Prato, 31 Dicembre 1999