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Terra Santa, «Qui nessuno pensa più al Natale»

Nostra intervista a Sobhy Makhool, diacono cristiano maronita di Gerusalemme, giunto nei giorni scorsi in Italia per aiutare il suo popolo. «Questo Natale arriva per noi in un momento particolarmente difficile - afferma Sobhy - I duri scontri che proseguono ormai da più di un anno e la chiusura del territori palestinesi stanno portando la gente alla disperazione e alla fame».DI ADRIANA ROMALDO

DI ADRIANA ROMALDO

C’è un orologio in Terra Santa le cui lancette, ad ogni secondo che passa, tornano indietro: è l’orologio della pace.Così anche se il calendario il 25 Dicembre segnerà di rosso la solennità del Natale, per la prima volta dopo anni, paradossalmente proprio nei luoghi in cui Gesù è nato, non si farà festa.

A rivelarcelo è Sobhy Makhool, un diacono cristiano maronita della Chiesa di Gerusalemme, ben noto nella Diocesi di Siena-Colle Val d’Elsa-Montalcino a tante persone che nel passato, anche grazie al suo impegno e alla sua organizzazione, hanno potuto recarsi in pellegrinaggio in Terra Santa.

«Questo Natale arriva per noi in un momento particolarmente difficile – afferma Sobhy, giunto in Italia nei giorni scorsi – I duri scontri che proseguono ormai da più di un anno e la chiusura del territori palestinesi stanno portando la gente alla disperazione e alla fame. Non essendoci più alcuna possibilità di lavorare, la vita, soprattutto per le famiglie con molte bocche da sfamare, è diventata veramente difficile. A Betlemme, ad esempio, di solito fin dai primi giorni di dicembre si cominciava a respirare l’aria della festa nelle case, per le strade gremite di pellegrini, nelle chiese. Quest’anno, invece, di pellegrini negli alberghi come nelle basiliche non c’è traccia, si avverte ovunque grande preoccupazione e paura, nessuno pensa a festeggiare il Natale».

Qual è, anche dopo i recenti eventi, lo stato d’animo della gente?

«C’è una grande delusione nel cuore di tutti. Lo scorso anno – continua il diacono – la visita del Papa era riuscita ad infondere grande speranza e fiducia, nessuno si sarebbe immaginato che di lì a poco saremmo tornati improvvisamente in dietro di dieci anni, annullando tutti i progressi fatti sul terreno del dialogo e della pace. È inevitabile che la nuova ondata di violenza e le ripetute incursioni militari da parte di Israele nei Territori dove circa due milioni di Palestinesi, ridotti ormai alla fame, si trovano rinchiusi, portino alla esasperazione incitando a risposte ancora più violente. Ma forse è proprio questa l’intenzione del Governo Israeliano: suscitare, attraverso atteggiamenti sempre più duri e intransigenti una reazione palestinese tanto violenta da giustificare l’annullamento degli accordi di Oslo. Perciò, soprattutto dopo gli avvenimenti di questi ultimi due mesi, anche se è duro ammetterlo, nella nostra Terra tutti hanno ormai smesso di sperare. «Ho proprio paura che in questo momento non ci sia più alcuna via d’uscita. Sharon, la notizia è delle ultime ore, ha deciso di distruggere Arafat, non riconoscendolo più come valido interlocutore, ed è probabile che in questo sia appoggiato da quei Palestinesi che cercano soltanto di realizzare i propri interessi. Il capo dell’Olp è ormai prigioniero a Ramallah, impossibilitato a muoversi e ad avere contatti con l’esterno, senza dubbio colpendo lui si vuole togliere di mezzo l’Autorità palestinese, ma credo che questo sia un grave errore. Arafat è stato un capo carismatico ed eliminarlo significherebbe lasciare spazio ad una situazione di grande caos, un disordine incontrollabile che favorirebbe soltanto Israele, privato così di un interlocutore diretto con cui confrontarsi».

L’attentato alle Torri Gemelle e la guerra in Afganistan hanno avuto qualche ripercussione sulla vostra situazione?

«Dopo l’11 settembre tutto il mondo è stato sconvolto ed è stato obbligato a fermarsi e a riflettere. Per trovare appoggio nei Paesi arabi alla loro guerra contro i Talebani e Bin Laden gli Americani hanno mostrato l’intenzione di fare qualche passo nella direzione dei Palestinesi, prendendo in un certo senso le distanze da alcune azioni di Israele. Ma ora che la guerra è quasi giunta al termine si tirano indietro, dichiarando di non poter fare nulla, anzi appoggiando di nuovo e in modo incondizionato lo Stato ebraico. Del resto Gli Americani hanno sempre fatto i loro interessi e noi ormai siamo abituati a non aspettarci nulla. Non diverso, però, mi sembra l’atteggiamento di tutti gli altri stati del mondo. Tutti pensano al proprio interesse, nessuno più interviene in difesa dei valori e dei diritti fondamentali dei popoli, ognuno si preoccupa soltanto di non essere tagliato fuori dal gioco che giocano tutti e in base a questo fa le proprie scelte».

In questo contesto così drammatico quale posizione avete voi cristiani?

«Purtroppo la nostra è una situazione molto difficile e delicata, che ci pone realmente tra due fuochi. Siamo Palestinesi, ma la nostra fede ci impedisce di poter accettare pratiche come quella dei “Kamikaze” e, in generale, qualunque ricorso alla violenza, per difendere o rivendicare i diritti del nostro popolo, ma proprio per questo i musulmani ci considerano degli infedeli. Per gli Ebrei, invece, siamo comunque Palestinesi e in quanto tali nemici da cui difendersi».

In che modo possiamo aiutarvi dal nostro Paese?

«Non credo sia giusto chiedere un sostegno esclusivamente economico, non sarebbe educativo. Molti cristiani in Terra Santa lavorano nel settore del turismo, soprattutto quello legato ai pellegrinaggi, e dell’artigianato del legno di ulivo. Ed è proprio per questo che sono venuto in Italia: per cercare di vendere qui da voi il materiale che essi producono e lavorano là così da poter offrire loro un aiuto davvero importante e concreto. Ma questo da solo non basta. Abbiamo bisogno anche del sostegno della vostra preghiera per non sentirci abbandonati proprio in quelle terre in cui il Cristo è nato e ha vissuto, terre che in qualche modo, con la nostra presenza, continuiamo a custodire e a difendere anche per voi».

Dunque, alla vigilia di questo Natale, quale futuro è possibile intravedere per questo popolo?

«Dopo dieci anni di tentativi falliti, dall’una e dall’altra parte, per poter realizzare una pace economica o politica, umanamente non mi aspetto molto per il popolo Palestinese – dice con una certa amarezza Sobhy – Tuttavia sono fermamente convinto che si potrà raggiungere la pace soltanto quando tutti, Cristiani, Musulmani ed Ebrei, riconosceranno la pace del cuore di Gesù, l’unica possibile e davvero duratura».

Così, dopo 2000 anni, anche in questa notte di Natale risuonerà per tutti l’annuncio portato dagli angeli ai pastori di Betlemme: «Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini che egli ama» (Lc. 2, 14). Sta agli uomini, dunque, accogliere con cuore umile questo grande dono della pace e darsi da fare con impegno per custodirlo e diffonderlo ovunque.