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Terrorismo, l’odore della guerra nel cuore dell’Europa

Battere il terrorismo chiede un impegno a tutto campo, che mira a vincere la sfida dell’ignoranza promuovendo a tutti i livelli una cultura dell’incontro, abbattere la piaga delle povertà attraverso una cultura della solidarietà, superare la tentazione della paura e dei ripiegamenti su se stessi con una politica aperta all’altro. La soluzione non è fuori di noi ma si trova alle radici della nostra stessa identità.

C’è una forza di bene, silenziosa ma potente, che attraversa la storia, soprattutto nei suoi momenti più difficili e bui. Parigi, 7 e 8 gennaio 2015. È finita con un bagno di sangue la furia omicida targata jihad che ha sconvolto la città per 55 ore. Due blitz scattati quasi contemporaneamente. Prima l’agguato al settimanale satirico «Charlie Hebdo». Subito dopo l’attacco all’«Ipercacher», una grande drogheria di alimentari kosher sul boulevard de Vincennes, non lontano da Place de la Nation. Tre jihadisti uccisi. Diversi ostaggi liberati. La conta dei morti finale è di 12 uomini e donne. Parigi il giorno dopo: sul boulevard de Vincennes davanti al negozio di alimenti ebrei stazionano giornalisti e telecamere di tutto il mondo. La zona è un grande set cinematografico. Luci, cronisti e microfoni. L’ambiente patinato del giornalismo internazionale viene beffeggiato amaramente dall’odore acre e fastidioso dei gas lacrimogeni e dei colpi di arma da fuoco sparati dalle forze dell’ordine e dagli attentatori. È l’odore della guerra. Un odore sconosciuto agli europei nati dopo gli anni del conflitto mondiale. Lo stesso odore che invece e ogni giorno inalano i siriani, gli iracheni, i curdi, i libici, i sudanesi, gli eritrei. Ma c’è una forza di bene che attraversa l’umanità e si attiva proprio nel momento della caduta più atroce. E sul boulevard de Vincennes, davanti all’«Ipercacher» transennato e ancora ricoperto di fuliggine nera, si danno appuntamento rabbini e imam per dire alle telecamere di tutto il mondo che no, non ci stanno a farsi rubare il loro Dio dalla follia del terrorismo. «Tous ensemble», gridano alzando al cielo le loro mani unite in segno di una fraternità consolidata.

Gli attacchi terroristici di Parigi sconvolgono l’Europa perché con la loro efferatezza fanno capire agli europei, ai Sarkozy, ai Cameron e alle Merkel, che l’Europa non è più sicura. Non sono sicuri i suoi luoghi di culto, le sue redazioni, i suoi centri commerciali. Il jihadismo è ovunque e può attaccare in qualsiasi momento perché sta facendo leva sulle menti dei giovani nati e cresciuti in Europa, soprattutto dei più vulnerabili. Passa appena un mese. È il 14 febbraio e il jihadismo colpisce la Danimarca. Anche qui i blitz sono due e si susseguono a distanza di poche ore: prima una sparatoria con un morto e tre feriti durante un convegno organizzato in ricordo della strage al giornale satirico francese «Charlie Hebdo» a gennaio. Subito dopo nella notte una seconda sparatoria, nei pressi di una sinagoga nel centro della città, con un morto e due feriti. Ma la paura anche qui a Copenaghen non prende il sopravvento. Il Rabbino capo di Danimarca, Jair Melchior, respinge l’invito a emigrare in Israele offerto dal primo ministro Benyamin Netanyahu. «Noi non abbiamo paura – dice -, non lasceremo che i terroristi vengano a cambiare la nostra vita quotidiana». L’Europa è la casa degli ebrei e gli ebrei intendono rimanerci. Parole di coraggio che fanno il giro del mondo come fanno il giro del mondo le immagini dei giovani islamici di Norvegia che all’indomani degli attacchi terroristici di Copenaghen si danno appuntamento via Facebook nella principale sinagoga di Oslo e, mano nella mano, col calare della sera e la fine del giorno di Shabbat, formano un «anello di pace» a protezione degli ebrei.

Il terrorismo è qui. Non abbassa la sua guardia di follia. Attraversa le strade della quotidianità europea. Una follia omicida che ha purtroppo preso di mira anche le chiese cattoliche. Succede in Francia. È di pochi giorni fa la notizia diffusa dal quotidiano «Le Monde», secondo il quale l’attentato sventato il 19 aprile scorso contro la chiesa di Saint-Cyr-Sainte-Julitte a Villejuif (Val-de-Marne) non è l’azione di un lupo solitario, ma un atto di terrorismo commissionato dalla Siria ai jihadisti francesi. Ma anche in questo caso, come fu per Copenaghen, i cattolici francesi non si sono piegati alla logica della paura e hanno reagito invitando i parroci a lasciare aperte le porte delle loro chiese e i fedeli a non cedere alla logica del terrore.

C’è un’Europa che ha sbagliato tanto nel suo passato, soprattutto ai danni dei popoli del sud del mondo e del Medio Oriente. Ammetterlo potrebbe essere una via di soluzione del problema. Per sconfiggere il nemico, i leader politici hanno attivato le reti d’intelligence e di sicurezza e rafforzato i controlli alle frontiere. Ma tutto questo non basta. Il terrorismo fa gioco sulle menti delle persone, ruba le anime, genera zizzania. Battere il terrorismo chiede un impegno a tutto campo, che mira a vincere la sfida dell’ignoranza promuovendo a tutti i livelli una cultura dell’incontro, abbattere la piaga delle povertà attraverso una cultura della solidarietà, superare la tentazione della paura e dei ripiegamenti su se stessi con una politica aperta all’altro. La soluzione non è fuori di noi ma si trova alle radici della nostra stessa identità. Quella radice di fraternità che ha reso l’Europa capace fino ad oggi a riemergere dalle ceneri. Lo può fare anche oggi a patto che non ceda alla tentazione di chiudersi in se stessa, erigendo nuovi muri e fili spinati in preda alla paura. «Tutti insieme», appunto, come hanno fatto gli ebrei, i cristiani, i musulmani a Parigi, Copenaghen e a Oslo. Saranno la cultura e la storia di questa Europa a sconfiggere il drappello nero dell’Isis.