Cultura & Società

Usa, Tramonto dell’impero o vigilia di «nuovo corso»

di Franco Cardini

Bisogna anzitutto guardar alla realtà con occhi disincantati. L’«era Bush jr.» si chiude con un fallimento completo, che non ha forse alcun riscontro nell’intera storia di tutti gli Stati Uniti d’America. Il corso trionfalmente avviato nel 2001 all’insegna della lotta per la sicurezza, dello slancio turbocapitalista e dell’«esportazione della democrazia» si conclude su un fallimento dell’impegno militare in Iraq e in Afghanistan tanto grave che ormai neppure negli ambienti militari si esita più a parlar apertamente di sconfitta, l’onta dell’aver provocato una guerra sulla base di una menzogna (le «armi segrete di distruzione di massa», che l’Iraq di Saddam Hussein non ha mai avuto) sta in queste settimane trovando la sua conclusione nel disastro completo di una politica economico-finanziaria fondata sulla deregulation, sulla sistematica penalizzazione dei ceti medi e sulla svalutazione continua del dollaro, mentre ormai apertamente si parla di una crisi che qualcuno giunge a paragonare a quella del ’29.

È sul piano internazionale, su quello del prestigio e della stabilità delle alleanze, che il fallimento si misura in prima linea. «Le sfide globali di oggi mettono a dura prova le democrazie del mondo. Questo libro è un campanello d’allarme e dovrebbe essere letto da politici, esperti di affari internazionali e da tutti coloro che desiderano una guida per orientarsi nelle pericolose acque della geopolitica del XXI secolo». Sono le parole con cui il senatore John McCain ha presentato e commentato l’ultimo saggio di Robert Kagan, Il ritorno della storia e la fine dei sogni, edito negli Stati Uniti quest’anno e tempestivamente (quanto!) tradotto in italiano presso Mondadori. Non va dimenticato chi sia Robert Kagan. Figlio di un illustre storico, impiegato nel Dipartimento di Stato tra 1984 e 1988, attualmente senior associate presso il Carnegie Endowment for International Peace, durante la fase iniziale della seconda guerra irakena, cioè tra 2003 e 2004, egli pubblicò a ruota due saggi, anch’essi subito tradotti in italiano, col rispettivo titolo di Paradiso e Potere e Il diritto di fare la guerra. Si trattava di due scritti destinati a presentare il volto intellettualmente più rispettabile e al tempo stesso politicamente più deciso del neoconservativismo statunitense, la posizione emersa tra 1997 e 1998, espressa dal celebre documento Project for a New American Century (P.N.A.C.) e indirizzata a legittimare una stagione di deciso, forte intervento – anche militare – nei problemi del mondo che con energia indirizzasse eventi e strutture del mondo attuale in un senso rigorosamente compatibile con gli «interessi» degli Stati Uniti: ciò in evidente contrasto con la vecchia, prudente linea della scuola realista rappresentata da personaggi come Kissinger e Brzezinski e fautrice d’una politica del «bilanciamento» e del «contenimento». La tesi del Kagan, non priva di aspetti letterari pittoreschi, contrapponeva l’America, nuova Roma nel mondo, «popolo di Marte» decisa a difendere anche con la forza la libertà e la democrazia, alla vecchia Europa, nuova Ellade raffinata ma inerme, «popolo di Venere». Nel nome di questa complementarità euroamericana, su cui riposava il concetto di Occidente, il Kagan legittimava in quanto pretesa «politica di difesa preventiva» l’aggressione all’Iraq del marzo-aprile 2003, fondata sulle menzogne relative alla «armi segrete di distruzione di massa».

Il pessimo andamento delle guerre scatenate dalle due successive occupazioni dell’Afghanistan e dell’Iraq, accoppiato alla sempre più evidente recessione dell’economia statunitense e al crescere esponenziale del suo debito internazionale, ha accompagnato gli Stati Uniti d’America verso una crisi che appare irreversibile e molto grave, per quanto non si riesca ancora a valutarne profondità ed entità né si sia in grado di comprendere in che misura essa si riverserà su tutto il mondo, a partire dall’Europa.

Siamo così, oggi, dinanzi al fallimento su tutta la linea del governo Bush e dei suoi consiglieri, il gruppo guidato dal vicepresidente Dick Cheney e da Condoleeza Rice alcuni tra i più estremisti del quale, come Donald Rumsfeld e Paul Wolfowitz, sono stati precipitosamente costretti ad abbandonare addirittura la scena politica coperti di disdoro. Ma il fronte neocons ha tempestivamente avviato una linea di riposizionamento attorno al senatore McCain e alla signora Palin, la governatrice dell’Alaska che non è mai uscita dai confini degli States e che ritiene, con i gruppi più radicali del creazionismo protestante, che l’età geologica del mondo si possa ottenere sommando gli anni di vita dei patriarchi secondo una divertente interpretazione letterale del senso biblico.Prendendo atto di tutto ciò senza tuttavia dar segno di voler valutare, all’interno del momento attuale, il peso dei colossali errori del gruppo cui appartiene e suoi personali, Robert Kagan abbandona nel suo nuovo saggio la linea «huntingtoniana» del necessario scontro di civiltà e sposa quella, «neoantifukuyamiana», del «ritorno della storia», di cui peraltro lo stesso Francis Fukuyama si era accorto. Fine dei sogni, ci avverte il Kagan graziosamente dimenticando che quei «sogni», se tali erano, appartenevano anzitutto a lui e ai suoi compari; e che erano lui e i suoi compari ad aver cercato d’imporli a tutto «l’Occidente». Ora, alla frittata combinata da loro, è ovvio che tutti dovremmo contribuir a riparare in qualche modo.

Ma «tutti» chi? È ovvio, secondo il Kagan. Ormai il «secolo americano» (quello preconizzato come nuovo dal P.N.A.C. di meno di un decennio fa) non c’è più: e chi ci ricordava boriosamente che la Superpotenza era padrona del mondo, ora ci avverte con premuroso spirito d’amicizia che l’era del multilateralismo è iniziata ma che siamo tutti su una stessa barca. E, fingendo di dimenticare che la politica estera statunitense egemonizza ancora fortemente quella europea mentre le forze armate Usa e/o Nato occupano ancora l’Europa dei 27, Kagan ci parla tranquillamente del ritorno degli stati-nazione ancora forti e del fatto che tutti quelli occidentali dovrebbero adesso concordemente fronteggiare i nuovi comuni nemici, costituiti naturalmente dalle «nuove autocrazie» russa e cinese che starebbero destabilizzando l’intero scacchiere asiatico, mediorientale e addirittura africano e latinoamericano, nonché – è logico – dal solito fondamentalismo islamico.

Ma questo fallimento si accompagna ormai al dilagare della crisi economico-finanziaria, che molti economisti o sedicenti tali dichiarano fosse imprevedibile mentre era del tutto vero il contrario, l’avevano (l’avevamo) prevista in tanti, e del resto – ha ragione Sartori sul «Corriere» del 16 ottobre scorso – se una scienza economica non sa prevedere, allora non serve a nulla.

Erano stati fin troppi a dare il segnale d’allarme: la deregulation, in economia, può anche servire e perfino giovare. A patto di durar poco. Le regole ci vogliono: è evidente che esse non possono comunque mettere al riparo da tutto, ma il mercato non può reggere se non si fonda su norme chiare e corrette, prima di tutte la proibizione dei monopoli e la repressione dei falsi prodotti, in prima linea di quelli finanziari. l’«economia sociale di mercato» non è un optional: è necessaria; e non è per nulla vero che nel sistema liberalcapitalistico le crisi siano «inevitabili» e «fisiologiche». Che il sistema demenziale dei subprime e l’insufficiente copertura dei mutui ci avrebbero condotti al disastro, era logico e lo avevano detto in tanti. Le avvisaglie del pericolo che stava correndo il «sistema-modello» islandese, ad esempio, erano state rilevate da molti: ma i governi e le lobbies degli speculatori hanno a lungo preferito guardare altrove.

I reiterati tentativi sia del governo di Washington sia di molti membri del parlamento statunitense, di privatizzare la Sicurezza Sociale, datano del resto da almeno tre anni: e ciò significava dirottare verso Wall Street e affidare alla speculazione in borsa miliardi e miliardi di dollari, abbandonandoli alla speculazione. I risultati si sono visti. Sono stati i fondi pensionistici privati a far bancarotta, non quelli della Sicurezza Sociale a gestione pubblica.Ma i nodi che oggi vengono al pettine sono di vecchia data; le loro origini sono lontane. Fino dagli Anni Sessanta le élites politiche statunitensi avevano optato per la progressiva trasformazione dell’economia americana «di manifattura» in una di «servizi», promovendo unilateralmente i settori finanziario, immobiliare e assicurativo: il che ha progressivamente determinato l’ascesa degli affitti, l’esenzione diffusa da tasse e sussidi, la distruzione o il dislocamento dell’industria, la fuga massiccia di capitali dall’investimento produttivo alla speculazione, l’indebitamento progressivo dei consumatori.

L’ascesa del capitale finanziario è andata, ormai da circa un quarantennio, accompagnandosi a quella di un affarismo che – com’ebbe a denunziare lo stesso presidente Eisenhower – coinvolgeva sempre più i settori della dirigenza militare. Distogliendosi dall’espansione del mercato interno e mirando sempre più a forme d’intervento militare in paesi lontani, l’intero asse del potere economico è passato dal capitale industriale a quello finanziario. Il capitale finanziario, essenziale per finanziare i deficit di bilancio in cui è incorso il governo attraverso le spese militari è progressivamente cresciuto d’influenza, finendo per creare un’enorme bolla speculativa. Ora, la ripresa economica statunitense dipende in larga misura anche dal drastico ridimensionamento delle spese militari e d’una politica «imperiale» che mantiene costose basi in tutto il mondo mentre la società civile attraversa una fase di sofferenza sconosciuta da otto decenni.

Tuttavia, è importante il segnale del corale rifiuto della società civile statunitense di fronte al proposto trasferimento a Wall Street del settore della Sicurezza Sociale e dunque, come immediata conseguenza, il suo definitivo mutare da «diritto» a «servizio».

Avranno gli Stati Uniti d’America la forza, il coraggio, l’energia necessari a imporre a se stessi un mutamento economico ma anche morale e comportamentale profondo, che includa la fine del tempo delle speranze dei facili guadagni e la reintroduzione d’una seria ed efficace politica sociale fondata sul rinnovato controllo delle attività private, sull’austerità, su un cambiamento serio di rotta anche in politica estera e quindi sul taglio deciso e radicale delle ormai insostenibili spese militari (che però, non dimentichiamolo, erano portatrici di colossali guadagni ad alcune lobbies)? Il problema non è certo esclusivamente statunitense, dal momento che l’interdipendenza tra paesi è ormai profonda e irreversibile. Il prossimo presidente degli Stati Uniti non dovrà limitarsi a gestire il passaggio da un mondo fondato sull’equilibrio del controllo da parte della superpotenza unica a un mondo multilaterale, caratterizzato da più forze e da più voci. Guai se in America questo necessario mutamento fosse avvertito come la «fine dell’impero». Il nuovo presidente degli Stati Uniti dovrà far capire e accettare che non d’involuzione, bensì di mutamento di rotta e di obiettivi si tratta: di un «nuovo corso», dopo quelli inaugurati da Roosevelt al principio degli Anni Trenta e da Kennedy ai primi Anni Sessanta. Gli Stati Uniti sono portatori di straordinarie, insospettabili risorse e di grandi energie. Potranno farcela: e noi li accoglieremo tutti volentieri come partners, sia pure di straordinaria importanza, piuttosto che non come leaders in crisi.