Toscana

Dalla Eaton alla ex-Mabro posti di lavoro in pericolo

di Ennio Cicali

Migliaia di posti di lavoro in pericolo. Pesanti conseguenze sul tessuto economico di tante zone della Toscana in bilico tra un cupo declino e un incerto rilancio. Grandi aziende alla ricerca di un futuro che fanno notizia, mentre di altre centinaia di piccole e medie imprese non si sa quasi nulla. Famiglie sospese tra cassa integrazione, mobilità e licenziamenti.

Questo il quadro dell’economia regionale alla fine dell’anno, ma il 2011 non sembra promettere niente di buono. Una crisi che coinvolge quasi tutte le province della Toscana.

Eaton. Entro il 15 dicembre 304 lavoratori della multinazionale americana di Massa Carrara riceveranno le lettere di licenziamento. Anche nei recenti incontri al ministero dello Sviluppo economico la Eaton ha confermato la sua netta chiusura sulla possibilità di utilizzare la cassa integrazione in deroga, pur di fronte alla presentazione di tre proposte di reindustrializzazione ritenute sede e credibili dal ministero, dalla Regione e dagli enti locali. Dal canto loro governo e Regione hanno ribadito che metteranno a disposizione dei progetti di reindustrializzazione tutti gli strumenti di sostegno di cui dispongono (nella foto di Fabrizio Nizza – Massa, la manifestazione di sabato 20 novembre).

Lucchini. In questi giorni il gruppo Severstal dovrebbe far conoscere le proprie intenzioni sul futuro degli impianti siderurgici di Piombino per garantire il lavoro ai 2.300 dipendenti più gli altri mille dell’indotto.  Il sottosegretario allo Sviluppo economico, Stefano Saglia, ha annunciato che l’imprenditore russo si è impegnato a far avere al governo il piano industriale e soprattutto l’esito dei suoi incontri con le banche per capire quale sia l’entità effettiva del debito e la ristrutturazione di esso. «Da parte nostra – ha aggiunto Saglia – abbiamo ribadito alla proprietà che la presenza in Italia del gruppo è assolutamente gradita. Ci interessa sapere quale sia il piano industriale. Se però vi è un disimpegno che sia fatta chiarezza rapidamente perché siamo in condizioni di avere nuove proposte interessanti (sia da parte di un gruppo italiano che di un gruppo internazionale) per continuare l’attività siderurgica di Piombino. Se la proprietà intende proseguire siamo felici, ma se così non dovesse essere la sollecitiamo a dirlo subito».

Isi ex Electrolux. La reindustrializzazione della fabbrica di Scandicci è come una partita a poker che da due anni tiene 370 operai sul filo del rasoio. Si profila una cordata di possibili compratori, composta da Sergio Gattorno, Angelantoni Industrie, Bassilichi e Fidi Toscana, ai quali si dovrebbe aggiungere anche la famiglia Colaiacovo, gli imprenditori umbri del cemento. Guardinghi i sindacati. «Attendiamo l’incontro per capire – ha detto Alessandro Beccastrini (Fim Cisl) – in una trattativa così difficile, l’intervento ministeriale è auspicato con la speranza di mettere d’accordo tra chi cede e chi compra. Certo che oggi si chiude tutto, e le istituzioni non possono garantire neanche un centesimo per gli stipendi.

Unoaerre. È ormai solo un ricordo il marchio, simbolo dell’industria che ha portato il nome di Arezzo nel mondo. Al suo posto la nuova UnoAerre industries. I 10 milioni di euro di liquidità erogati dalle banche andranno alla neonata società. Sul fronte occupazionale si prospettano tagli per un centinaio di dipendenti rispetto ai 390 attuali.

Ex Mabro. «Non ci facciamo liquidare !» È il grido col quale i 274 lavoratori – e soprattutto lavoratrici, le ormai famose «vestaglie azzurre» – dipendenti della fabbrica di abbigliamento di Grosseto hanno manifestato a Firenze per chiedere garanzie sulla continuità occupazionale ed esprimere la netta contrarietà alla messa in liquidazione di una realtà produttiva che, al di là della crisi di liquidità, ha ancora ordini da evadere e nuove commesse all’orizzonte. Purtroppo, la decisione è stata diversa: la ex Mabro sarà messa in liquidazione. La produzione andrà avanti fino all’esaurimento delle commesse, poi ci sarà la cassa integrazione a zero ore. Sembra comunque che ci siano imprenditori interessati a rilevare l’azienda, mentre il presidente della giunta, Enrico Rossi, ha assicurato l’interessamento della Regione Toscana.

Beltrame. Futuro incerto sulle sorti dello stabilimento facente parte della ferriera sangiovannese. Le parti dovrebbero comunque sedersi ad un tavolo entro la fine dell’anno e fare il punto della situazione. I sindacati chiederanno una cassa integrazione straordinaria a partire dal primo marzo, fino a febbraio 2011 i dipendenti usufruiranno della cassa ordinaria. La proprietà vicentina della Beltrame, che produce laminati metallici,  aveva deciso di chiudere due dei suoi stabilimenti fuori dalla Toscana. San Giovanni quindi non chiuderà, ma i lavoratori sono preoccupati per il futuro dell’azienda in mancanza eventuale di nuovi investimenti.

Brunelleschi. Si apre uno spiraglio per la storica azienda di ceramica delle Sieci: dopo quasi sei mesi di attesa, proprietà e lavoratori potranno confrontarsi. Obiettivo: salvare 39 posti di lavoro e un’attività vecchia di 236 anni. I lavoratori hanno proposto di una cooperativa per rilevare l’attività dell’azienda, ora in liquidazione. La Lega Cooperative ha appoggiato il progetto e ha trovato alcuni potenziali partner commerciali interessati ad unirsi al progetto (tra cui la Sacmi di Imola).

Nel complesso panorama dell’economia toscana non mancano le buone notizie. Tra tutte la commessa ai Nuovi cantieri apuani di una nave delle Ferrovie. Due anni di tranquillità per i cantieri di Carrara. In attesa di una decisione sulla privatizzazione osteggiata da enti locali e lavoratori che aspirano al mantenimento del polo produttivo con la regia statale. Altro esempio positivo è quello della Power One di Terranuova Bracciolini, di cui parliamo più sotto.

L’intervista: monsignor Santucci«Se la fabbrica chiude è una sconfitta per tutti»di Renato Bruschi

«I toscani sono creativi, intraprendenti e generosi: riusciranno a superare questo momento difficile della nostra economia». È il primo commento di monsignor Giovanni Santucci, delegato della Conferenza Episcopale Toscana per la pastorale sociale, del lavoro, giustizia, pace e salvaguardia del creato, alle cifre che gli presentiamo sulla crisi del lavoro nella nostra regione. Parole di speranza, simili a quelle pronunciate più volte, in questi mesi, durante gli incontri con gli operai delle aziende in crisi. A metà ottobre, nello stabilimento «Eaton» di Massa, alla Messa, all’interno della fabbrica, ebbe a dire: «Il Vangelo rende forza dalla nostra testimonianza dove la dignità della persona, la ricerca della pace, il senso stesso della fatica e del lavoro sono elevati e risanati dalla fede e dalla speranza». La vicinanza pastorale ai problemi dei lavoratori apuani, monsignor Santucci l’ha manifestata in diversi modi, da quando è vescovo della diocesi di Massa Carrara-Pontremoli. Li ha incontrati all’inizio del suo ministero episcopale, nei mesi scorsi ha avuto colloqui, e ha partecipato al loro fianco, sabato scorso, alla manifestazione che si è tenuta per le vie di Massa.

La «Eaton» a Massa, la «Isi» di Scandicci, la ex-Mabro di Grosseto: tre industrie in crisi, con quasi mille operai che rischiano la sicurezza del posto di lavoro. E poi ci sono altre aziende che versano in gravi difficoltà. Che cosa può fare la Chiesa di fronte a queste situazioni?

«La Chiesa non ha ricette economiche da imporre, né soluzioni in tasca da offrire. Non siamo venditori di sogni; ci stringiamo umilmente alle tante famiglie che temono per il loro futuro, non faremo mancare amicizia e sostegno. La perdita del posto di lavoro, pur essendo un fatto privato, interpella la comunità e rappresenta, in un certo senso, una sconfitta per tutti. Sarebbe riduttivo affrontare le crisi, che stiamo attraversando, unicamente dal punto di vista economico. Serve uno scatto di creatività per ritrovare un rapporto nuovo tra imprenditori, territorio, politica e lavoratori».

Il lavoro nella nostra Regione e in particolare nell’area Apuana, molto provata anche dagli ultimi eventi disastrosi, sta attraversando un periodo di incertezze …

«L’area apuana mi sembra non offra spazi per grandi insediamenti industriali, come avvenuto negli anni passati. Inoltre il territorio sta cambiando vocazione: il turismo e la piccola azienda specializzata potrebbero rappresentare la risorsa del futuro. Non solo qui ma in tutta la Toscana, dove, per altro, già ci si sta orientando in questa direzione. Certo occorrerà assicurare e facilitare la mobilità di merci e persone, ma la strada è tracciata. Ho sempre in mente il caso della “Locman”, sull’isola d’Elba, un’azienda che esporta orologi in tutto il mondo e che ha rilanciato l’economia locale. Le nostre fabbriche dovrebbero essere più geniali per diventare più competitive sul piano della qualità».

Quale contributo possono offrire i cristiani nella ricerca di una economia a misura d’uomo?

«Va ricordato che il cristiano non deve aver paura del futuro. Per noi la settimana inizia la domenica, con la festa e il lavoro dei giorni seguenti va inteso e vissuto come partecipazione all’attività creatrice di Dio, perciò racchiude una dignità altissima, che va difesa da chi tenta di trarne il massimo profitto, mettendo la persona umana in secondo piano. In Toscana c’è una base antropologica straordinaria, per la quale è stato possibile, nel rapporto uomo-territorio, generare bellezza. Le coltivazioni delle nostre colline non sono soltanto l’esito di un progetto economico, ma possiedono un’intrinseca qualità estetica. Testimonianze archeologiche, storiche e artistiche perfino il modo di mangiare, e di lavorare la terra sono lì per dirci: ecco la Toscana. La fede cristiana ha plasmato questa cultura, lasciando segni inconfondibili, favorendo quello che potremo chiamare l’“umanesimo toscano”. Penso quindi che il problema del lavoro debba essere affrontato uscendo dalle strettoie della cronaca, per aprire un discorso più ampio che coinvolga tutti, politici, uomini di cultura, economisti, imprenditori, lavoratori. E i cristiani in questa partita giocano un ruolo decisivo».

Dal suo punto di vista, nel rapporto uomo-lavoro c’è qualcosa da rivedere?

«Mio padre considerava la fabbrica, una cosa sua, anche se non ne era proprietario. Perché le dico questo? Per rimarcare che il lavoro veniva vissuto come provvidenza e benedizione. Oggi è giudicato una condanna. I modelli educativi proposti ai giovani recitano, più o meno, così: nella vita sei furbo se lavori poco e guadagni tanto! Nell’ottica cristiana il lavoro evidenzia la dignità della persona e ne rappresenta il futuro. Senza voler rispolverare vecchie logiche classiste, dobbiamo però dire che ci sono ruoli differenti nella squadra: gli imprenditori devono fare gli imprenditori, non sono “padroni” della vita delle persone, sono solo lavoratori con incarichi di responsabilità. A loro è chiesto di trovare un equilibrio tra produzione e rispetto della dignità dei propri dipendenti».

Se sapesse che un imprenditore cattolico ha l’intenzione di chiudere la propria azienda per riaprirla altrove, dove il costo del lavoro è inferiore, cosa gli direbbe?

«Gli direi: sei più imprenditore che cattolico poiché hai messo al primo posto il guadagno che è una delle motivazioni del lavoro, né l’unica, né la decisiva. Per un cattolico al primo posto sta il rispetto per la dignità della persona».

La scheda: La EatonLa «Eaton» è una multinazionale americana che conta complessivamente  circa 55 mila dipendenti e vende i propri prodotti in più di 125 paesi. Lo stabilimento di Massa fu fondato nel 1985 con una Joint Venture al 50% fra «Eaton» ed «SKF», allo scopo di unire la conoscenza nella costruzione di punterie meccaniche (SKF) e di punterie idrauliche (Eaton), per un reciproco vantaggio nell’acquisire una posizione predominante sul mercato europeo degli attuatori valvola. Nel novembre 1987 la «SKF» vendette alla «Eaton» il suo 50% di quote; da allora Massa è sempre stata posseduta integralmente da «Eaton», passando nel tempo sotto il controllo di diverse divisioni. Nel 2000 la fabbrica massese aveva 570 addetti, nel 2006 era scesa a 375 e nel corso del 2008 l’ultimo snellimento aveva portato il personale a 350 addetti. Il motivo dei tagli progressivi è duplice: il cattivo andamento del mercato automobilistico e quindi delle commesse (-40% nel 2008, di cui il 32% Fiat) e la delocalizzazione in Polonia di alcune linee di produzione. La «vicenda Eaton» si apre ufficialmente nell’ottobre 2008 quando l’azienda comunica la volontà di chiudere, nonostante nel ’97, fosse stato riconosciuto, allo stabilimento di Massa, il miglior livello di «qualità» di tutto il gruppo. Dopo il valzer di trattative e vertenze, tra sindacati, azienda e istituzioni, a fine 2008 è scattata la cassa integrazione. Re.Bru.Il «miracolo» della «Power One» nel Valdarno: nuovo stabilimento e 500 assunzionidi Giacomo Gambassi

Era la scorsa estate quando la multinazionale statunitense Power One faceva riunire in pieno agosto il consiglio comunale di Terranuova Bracciolini per dare il via libera al nuovo padiglione di ricerca e ampliare il suo stabilimento del Valdarno aretino. E il «sì» alla richiesta della società era arrivato all’unanimità, segno di come «nonostante il momento di crisi economica si registri un dato in controtendenza perché qui il numero degli addetti cresce. E un grande contributo in questa direzione viene dato proprio dalla Power One», spiegava l’assessore all’urbanistica, Sergio Chienni.

In fondo è un piccolo prodigio quello che si vive nella cittadina di 12mila abitanti in provincia di Arezzo. Nello stabilimento che quattro anni fa aveva assistito a un passaggio di proprietà controverso che si era portato dietro numerose proteste e che si era concluso con l’acquisto da parte del marchio americano di cui oggi porta il nome, le nuove tecnologie hanno sconfitto la recessione. Da cinquecento dipendenti si è passati a oltre mille (anche se la metà hanno un contratto interinale mentre il resto è assunto a tempo indeterminato). E l’indotto è schizzato in alto. Merito della capacità di rinnovare all’interno della «succursale» del Valdarno della società che ha il suo quartier generale in California.

Una scommessa che ha fatto della Power One l’azienda leader nel settore della pubblica illuminazione telecontrollata e dal 2006 specializzata risparmio energetico attraverso apparecchi indispensabili per il funzionamento di impianti eolici e fotovoltaici. Sono gli inverter, vocabolo che a Terranuova è di casa e che nell’utilizzo di pannelli solari consente di trasformare la corrente continua in alternata da impiegare in ambito domestico o immettere sulla rete di distribuzione. Proprio questi prodotti hanno consentito al sito valdarnese di guadagnare vasti mercati che marcano il segno nella crescita aziendale.Ecco, quindi, la decisione di allargare la sede che adesso si estende su 18mila metri quadrati. Grazie all’atto approvato dal Comune se ne aggiungeranno altri 2mila che saranno integrati con altrettanti metri quadrati che appartenevano al magazzino della Fast Fashion (griffe locale nel campo dell’abbigliamento naufragata sotto i colpi della crisi), che diventeranno il nuovo deposito materiali dello stabilimento hi-tech. «L’ampliamento – ha spiegato Giuseppe Ricci, direttore del sito valdarnese di Power One – permette di colmare una lacuna. La nuova struttura sarà dedicata al settore dello sviluppo che poi è il ramo su cui abbiamo investito di più. I tecnici all’opera in questo comparto sono oltre 130 e, una volta realizzato l’allargamento, abbiamo in programma ulteriori assunzioni per infoltire il gruppo di lavoro».

Del resto il vigore del sito si ripercuote sulle piccole e medie imprese della vallata che collaborano con la multinazionale. Infatti a metà settembre è nato il «Consorzio Terranuova» che riunisce una decina di aziende e che impiega circa 200 addetti nel settore delle energie rinnovabili. Si tratta di ditte che lavorano come terziste per la Power One e che hanno deciso di mettersi insieme per affrontare le commesse proposte dal colosso Usa. Un progetto accolto con soddisfazione dai sindacati locali che definiscono la multinazionale «una locomotiva per le migliori energie del territorio».

In forte crescita in Toscana le «imprese» guidate da immigratidi Leonardo ChiarelliSono sempre di più gli imprenditori stranieri che guidano le aziende toscane. Un indicatore importante della capacità di inserimento nel circuito economico e come misura dei processi  di stabilizzazione in atto. A procedere a una mappatura delle imprese gestite da stranieri ci ha pensato l’Università degli Studi di Firenze con la collaborazione, tra gli altri, della Confesercenti ed il sostegno della Regione. L’Atlante dell’imprenditoria straniera in Toscana è stato curato della professoressa Margherita Azzari, docente di studi storici e geografici all’ateneo fiorentino, che attraverso anche storie e immagini, ha considerato un periodo di tempo che va dal 1998 al 2008. In dieci anni si è verificato un forte cambiamento sia sulla distribuzione di imprenditori stranieri sul nostro territorio, –oggi spalmata su più aree della regione, oltre le tradizionali Firenze e Prato – sia la loro provenienza. Compaiono nuove comunità, da quella iraniana a quella indiana Sikh, radicata nel Valdarno che, se nelle regioni del nord Italia si è specializzata nell’allevamento, in Toscana si è inserita nel settore della lavorazione dei metalli preziosi destinati alle oreficerie e all’alta moda.

Secondo lo studio, il numero delle imprese individuali di stranieri in Toscana è passato dalle circa 7.600 del 1999 a oltre 32 mila nel 2008, di cui 10.000 solo a Firenze e 5.000 a Prato. Se nel 1999 più di un terzo delle aziende straniere era gestito da cittadini delle regioni del mondo avanzato, dieci anni più tardi il quadro è completamente mutato. Nel 1999 l’imprenditoria prevalente riguardava soprattutto il settore turistico (fattorie, agriturismi, agenzie immobiliari) o il terziario. Alla fine del 2008 il contributo dalle economie avanzate subisce un brusco rallentamento mentre cresce a dismisura quello dei cittadini provenienti dall’ex secondo e terzo mondo.

I paesi con la crescita maggiore, 18 volte rispetto al 1999 e 11.306 aziende in totale, sono quelli europei ex socialisti, anzitutto Albania e Romania, che superano quelli est-asiatici che comunque sono triplicati  (quasi 8 mila aziende). Quelli nordafricani, specie Marocco e Tunisia, aumentano di 7 volte toccando quota 4.673 e superando di quasi mille unità le economie avanzate. Di 7 volte crescono anche le imprese di altri paesi africani, soprattutto Senegal, passate da 387 a 2.745. In pratica quasi l’83% (in termini assoluti circa 27 mila) delle imprese condotte da immigrati hanno un titolare proveniente da queste aree geografiche. Al primo posto restano i cinesi, 7.029 imprese, seguti da albanesi (5.114), romeni (4.259) e marocchini (3.489). Queste quattro nazionalità coprono il 73% del totale.

«Fare impresa è un tentativo di radicarsi nel nostro territorio – spiega la professoressa Azzari – per questo abbiamo ritenuto importante leggere questo fenomeno. Chiaramente l’imprenditorialità straniera ha bisogno di una lettura duplice, se da una parte rappresenta il tentativo di radicarsi ed inserirsi con efficacia nel tessuto economico, dall’altra rappresenta forse l’unica strada per ottenere un permesso di soggiorno». «L’Atlante, che abbiamo sostenuto in modo convinto – ha affermato l’assessore regionale al welfare Salvatore Allocca – è uno strumento di grande utilità per comprendere la dinamica di un fenomeno che ha assunto ormai dimensioni importanti. In pratica ci concretizza davanti agli occhi, grazie anche alle immagini che la illustrano, una storia contemporanea. L’elemento che emerge – conclude Allocca –  è la grandissima vitalità di singoli individui alla ricerca di propri spazi all’interno del mercato. In molti casi con successo. L’atteggiamento di apertura ed accoglienza mostrato da istituzioni ed associazioni di categoria merita di essere sottolineato, segnale evidente di come questo dinamismo venga percepito positivamente dalla società toscana».