Toscana

Da Firenze a Kabul tra i profughi afghani

DI MARIO BERTINIGuido Galli è un fiorentino di Rifredi, legato alla «Madonnina del Grappa», figlio di Paolo, un «figliuolo» di don Facibeni. Guido è un giovane funzionario dell’Onu, che lavora da sei mesi in missione di pace in Afghanistan. Lo abbiamo incontrato, di passaggio a Firenze, nella casa dei genitori, per chiedergli del suo ruolo e del suo lavoro, oltre a notizie fresche dal tormentato Paese asiatico.«Al mio ritorno dovrebbero assegnarmi – spiega Guido – un ruolo di responsabilità meglio definita. Fino ad oggi ho lavorato come addetto al coordinamento dell’assistenza umanitaria delle Nazioni Unite in Afghanistan, con alcune funzioni specifiche: innanzitutto valutare le popolazioni vulnerabili dal punto di vista della protezione e dei diritti umani, specialmente per quanto riguarda gente dispersa o sfollata da una regione all’altra per la guerra o per la siccità. Tutta gente che ha bisogno di protezione perché subisce abusi o violenze da parte di gruppi armati. Il mio lavoro consiste quindi nel coordinare i primi interventi umanitari e protettivi».

Com’è che un fiorentino si è ritrovato in Afghanistan funzionario dell’Onu?

«Quand’ero a Scienze politiche aspiravo alla carriera diplomatica presso le ambasciate. Poi mi sembrò più interessante collaborare con le organizzazioni non governative. Mi è capitato sia in Messico che in Guatemala. Da lì i primi contatti con le Nazioni unite e con le missioni di pace dove poi sono entrato e rimasto a tempo pieno».

Quanto durerà questa missione?

«Per quanto mi riguarda, almeno un altro paio di anni. Finora, come detto, ho avuto questo ruolo di coordinamento, ma d’ora in avanti passerò ad un’azione più politica in un ruolo di “Ufficiale agli affari politici” come membro della nuova missione recentemente costituita con una risoluzione del Consiglio di sicurezza. Lavorerò a uno studio a più alto livello, che si occuperà del processo di pace cercando di creare equilibri etnici o fra gruppi di potere, promuovendo dialoghi o comunque mediazioni».

Un lavoro interessante.

«Tutto è molto bello: è un po’ come rifare l’Università, ma questa volta è l’Università della vita».

Ma qual è la situazione reale del popolo afgano: c’è speranza tra la gente?

«Da un punto di vista umanitario, la situazione è molto difficile. C’è una povertà estrema dovuta a oltre vent’anni di conflitti che hanno distrutto l’intero Paese. Nonostante questo, l’attuale processo di pace alimenta speranze, nella convinzione che questa è un’opportunità storica per uscire da una storia infinita di violenza, ma anche di calamità naturali, perché le due cose sono collegate e hanno lasciato il Paese in ginocchio».

E nella capitale, Kabul, che aria si respira, soprattutto dal punto di vista politico?

«Il più antico quartiere della città è completamente distrutto, ma adesso, con le forze mandate dal Consiglio di sicurezza dell’Onu, la situazione è abbastanza tranquilla, anche se resterà estremamente delicata, da qui a giugno, quando ci saranno le elezioni. In questa fase è probabile che aumentino i conflitti e forse non mancheranno i disordini».

Una domanda sulla donne afghane: si sono realmente liberate dagli integralismi e dalla schiavitù del burqa?

«No, il burqa rimane. Ma il tema è complesso. C’è una tradizione che fa parte della loro cultura, che fa parte della società. In più ci sono stati sei anni di pesante penalizzazione delle donne da parte dei talebani. Noi stiamo lavorando molto in questo campo, perché sei anni di repressione hanno creato dequalificazione, anche professionale delle donne, in un clima di terrore che coinvolgeva anche mariti e padri. Naturalmente, con il tempo, un po’ di emancipazione sarà possibile, ma i tempi sono lunghissimi. Per ora tutte le donne continuano a portare il burqa. Solo a Kabul, in qualche circostanza, ma negli interni e non per strada, ho visto donne senza il burqa con il solo velo iraniano».

Come sono i rapporti con i militari stranieri presenti oggi in Afghanistan?

«Sono rapporti molto delicati, soprattutto per la distinzione dei ruoli che occorre far capire alla popolazione locale. Noi siamo forza di pace e le organizzazioni non governative internazionali con le quali lavoriamo, ci tengono a distinguere il nostro ruolo da quello dei militari».

E i rapporti dell’Afghanistan con i Paesi confinanti?

«Molto complessi, perché nella storia dell’Afghanistan i Paesi confinanti hanno sempre interferito molto e in parte continuano a farlo, soprattutto Iran e Pakistan».

Il vecchio re rientrato dal lungo esilio italiano, com’è stato accolto?

«Premetto che in tutti i posti dove ho lavorato, in tutte le città dove ho operato, compresa Kabul, quando mi presentavo come italiano, mi ringraziavano sempre e attraverso di me volevano ringraziare l’Italia per aver ospitato il loro re per tutti questi anni. Per il resto, il re è arrivato proprio nel giorno in cui io partivo per l’Italia, ma ho notato molta attesa. Mi sembra di poter dire che a livello popolare il re è la figura più affidabile, che dà più speranza. Ed è per questo che i leader territoriali hanno un po’ paura di perdere il loro potere».