Vita Chiesa

1° novembre: card Betori, connessione tra crisi della persona e della società umana e crisi ecologica

La visione dell’Apocalisse è un’impressionante immagine del percorso della storia, un’illuminante interpretazione dei tempi, anche dei nostri tempi, in cui conforta la presenza del primo cavaliere, figura di Cristo. Lo ha detto l’arcivescovo di Firenze, cardinale Giuseppe Betori, nell’omelia pronunciata oggi durante le Messa celbrata nel duomo di Firenze in occasione della festa di Ognissanti.

Di seguito l’omelia del cardinale Betori

Il testo del libro dell’Apocalisse di Giovanni che ha aperto la liturgia della parola spinge il nostro sguardo nel mistero della storia verso la sua pienezza. Per comprenderne il messaggio occorre tornare due capitoli indietro nella lettura del libro, fino all’inizio del quinto capitolo, quando nelle mani dell’Eterno, assiso sul trono, compare un rotolo, «un libro scritto sul lato interno e su quello esterno, sigillato con sette sigilli» (Ap 5,1). Solo Cristo, l’Agnello immolato ma vivente, avrebbe potuto aprire quel rotolo e a lui s’innalza la lode nel cielo: «Tu sei degno di prendere il libro e di aprirne i sigilli, perché sei stato immolato e hai riscattato per Dio, con il tuo sangue, uomini di ogni tribù, lingua, popolo e nazione» (Ap 5,9-10). Nel rotolo è contenuto il disegno di Dio sulla storia, che si svela solo alla luce del mistero di morte e risurrezione del suo Figlio. Ed è quanto accade: all’apertura dei sette sigilli, uno dopo l’altro, si mostra il senso della storia. Si comincia con i primi quattro sigilli: a ogni sigillo aperto appare un cavallo con il rispettivo cavaliere. Il primo, il cavallo bianco il cui cavaliere porta un arco e la corona, assicura che, nella storia, la vittoria è di Dio. È un segno di fiducia per gli uomini che attraversano con timore le vicende del tempo. Come indicano i tre cavalli che vengono dopo – il rosso, il nero e il verde –, la storia è segnata dalla violenza, dal sangue e dalla guerra, poi dall’ingiustizia, in specie quella sociale, infine dalla morte, che fa seguito a carestie, calamità, epidemie. 

La visione dell’Apocalisse è un’impressionante immagine del percorso della storia, un’illuminante interpretazione dei tempi, anche dei nostri tempi, in cui conforta la presenza del primo cavaliere, figura di Cristo. Nell’intreccio delle vicende umane la sua presenza ci dice che la vittoria è nelle sue mani ed è certa: non siamo abbandonati all’impero della violenza, dell’ingiustizia e della morte. Ma, dopo questo messaggio di consolazione, l’apertura del quinto sigillo pone un interrogativo, l’interrogativo di sempre dell’uomo: perché il male? I primi martiri chiedono il perché del silenzio di Dio mentre su di loro infuriano i persecutori: «Fino a quando, Sovrano, tu che sei santo e veritiero, non farai giustizia?» (Ap 6,10). La risposta di Dio è la consegna di una veste bianca, promessa di vittoria e di ricompensa, a cui si aggiunge però l’invito alla pazienza: altri fratelli lungo i secoli dovranno ancora condividere, nel martirio, la partecipazione alla croce di Cristo. Tempi di sofferenza infatti si devono ancora abbattere sul mondo. Li svela il sesto sigillo: il mondo è sconvolto da sciagure e calamità . Non è solo l’umanità a soffrire per le fragilità connesse alla sua condizione creaturale e al peccato e per le sofferenze generate dalle lacerazioni sociali, ma il mistero del male penetra il creato e rovescia l’immagine armonica che il Creatore aveva impresso in esso. Parole che sentiamo a noi vicine nell’odierna connessione tra crisi della persona e della società umana e crisi ecologica. L’autore dell’Apocalisse vede in esse espressioni dell’“ira di Dio”, parole di stampo antico che possiamo riesprimere così: il mondo viene stravolto, e con esso l’umanità, quando questa si chiude alla presenza di Dio e all’agire del suo amore. Lo ha insegnato con chiarezza Papa Francesco nell’enciclica Laudato si’.

Si giunge così alla scena descritta nella pagina che è stata oggi proclamata. Prima che la devastazione del mondo giunga al suo estremo, Dio si prende cura dei discepoli fedeli e li segna con «il sigillo del Dio vivente» (Ap 7,2), cioè il nome dell’Agnello, Cristo, insieme a quello del Padre suo (cfr. Ap 14,1). Un sigillo è un segno di appartenenza. Nella fede appartiene a Dio, si diventa servi di Cristo e del Padre. Siamo posti in dipendenza da lui e al tempo stesso condividiamo la sua vita. Si svela qui il senso stesso della santità: essere in comunione con Dio. E questo non ciascuno per sé, individualmente, ma appartenendo a un popolo. Lo dice il numero centoquarantaquattromila, un numero apparentemente misterioso, ma il suo significato è chiaro dal momento che dodici sono le tribù di Israele, e centoquarantaquattromila si ottiene moltiplicando dodici per dodici e infine per mille – una misura indefinita –, e così quel numero misterioso vuole rappresentare il popolo di Dio giunto alla sua pienezza. Questo popolo, in quanto appartiene a Dio, è in grado di attraversare la storia resistendo a quanto di negativo si abbatte su di essa. A questo punto lo sguardo del veggente dell’Apocalisse balza oltre la storia, va al suo compimento e contempla di nuovo questo stesso popolo, ma ormai giunto, alla fine dei tempi, alla condizione celeste, definitiva: è «una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua» (Ap 7,14). La palma che i membri di questo popolo portano in mano indica che essi hanno condiviso con l’Agnello la vittoria sul male e la loro esistenza è divenuta conforme alla loro appartenenza a Dio. Sono i santi, che oggi celebriamo, e che cogliamo nell’atto del rendere gloria a chi ha dato loro la forza di trasformare la loro vita: «La salvezza appartiene al nostro Dio, seduto sul trono, e all’Agnello» (Ap 7,10). Giovanni, nella sua lettera definisce questa trasformazione essere figli di Dio: «Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è» (1Gv 3,2).

Vivere da figli la vita stessa di Dio – secondo quanto abbiamo ascoltato dal Vangelo – è la beatitudine che spetta a chi condivide con Gesù questi atteggiamenti: riconoscersi poveri davanti a Dio, farsi partecipi delle sofferenze causate dal male nel mondo, nutrire sentimenti di mitezza, aspirare alla giustizia, coltivare un cuore misericordioso, orientare la vita secondo il pensiero di Dio, costruire la pace, accettare la persecuzione per la giustizia e per il Vangelo. La contemplazione della santità nei nostri fratelli e sorelle che ci hanno preceduto rimanendo fedeli alla loro appartenenza al Signore e manifestando nelle loro opere come la vita divina ricevuta si traduca in vita buona, diventa anche esortazione a metterci su questa stessa strada. È questo anche il senso del Cammino sinodale che abbiamo avviato qualche giorno fa. Esso è anzitutto cammino di conversione, cambiamento di vita per assumere quell’atteggiamento di ascolto dello Spirito e dei fratelli e sorelle che ci aiuta a comprendere la volontà di Dio, in cui incamminarci per diventare santi. Sentiamo l’invito del Papa e dei Vescovi a camminare insieme come un invito a condividere il nostro anelito alla santità e a testimoniarla come vita buona per tutti. 

Giuseppe card. Betori 

Arcivescovo di Firenze