Vita Chiesa

Il paradosso della missione: oggi più che partire vuol dire «stare accanto»

Mons. Gabriele Marchesi è partito nel 2003 per il Brasile, inviato dalla diocesi di Fiesole come prete «fidei donum» nel Maranhão. Nel 2013 è stato nominato vescovo di Floresta.«Dio ha tanto amato il mondo, da dare il suo Figlio unigenito» (Gv 3,16); «Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi» (Gv20,21). All’inizio di tutto c’è la grandezza meravigliosa dell’amore di Dio che compie ciò che era inimmaginabile: si fa, egli stesso, creatura umana per comunicarci quella vita per la quale eravamo stati creati e che per noi era divenuta irraggiungibile. È qui l’inizio e il fine di ogni missione. L’amore di Dio, il suo amore comunicato a noi attraverso il Figlio Gesù e il dono dello Spirito Santo, è l’inizio, il fine e lo strumento di ogni missione, tutto nasce dall’amore, si esprime nell’amore e conduce all’amore.

Ma l’amore, come nell’Incarnazione, ha spesso vie paradossali: «Perché i miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie – oracolo del Signore. Quanto il cielo sovrasta la terra, tanto le mie vie sovrastano le vostre vie, i miei pensieri sovrastano i vostri pensieri» (Is 55,8-9). È così che oggi, in questo mondo così fortemente toccato dalla pandemia, anche la missione si trova a dover affrontare un apparente paradosso per incarnare, sempre di nuovo e sempre con maggior fedeltà, il perenne amore di Dio per tutte le sue creature. Quando parliamo di missione, siamo abituati a pensare subito al «partire». Non può esserci missione senza un partire. Ma oggi siamo chiamati a riflettere e a domandarci: in questo 2021 e in questo mondo denudato di tante false sicurezze come ci viene consegnato dal Covid 19, cosa vuol dire «missione»? Qui in diocesi di Floresta, già dopo l’ultima Pasqua abbiamo cominciato un processo di ascolto delle persone per poter elaborare il nostro prossimo piano pastorale triennale, e abbiamo cominciato a chiedere come si sentivano e di cosa provavano più bisogno, come pensavano che la Chiesa, la Comunità dei credenti, potesse aiutare e indicare cammini di rinascita. Le risposte sono state incredibilmente concordi: abbiamo bisogno di presenza, di presenza di pastori, di fratelli e sorelle, di comunità. La missione oggi, più che partire, vuol dire «stare accanto», farsi prossimo. Missione, oggi, è rompere l’isolamento in cui le persone si trovano, ristabilire, nelle forme che l’amore ci detterà, lacci di unità e di armonia, è riscoprire la fraternità che ci unisce e ci dà dignità e valore, è rompere l’indifferenza e l’egoismo che ci separano gli uni dagli altri, è fare del nostro tempo una ricchezza da condividere, perché solo riempiendolo di presenza amica potremo dargli valore autentico.

Ma la missione, normalmente è vista anche come «annunciare», come «parlare». E qui abbiamo la seconda sfida. Oggi la missione deve iniziare nel silenzio dell’ascolto. Troppo abbiamo detto senza ascoltare, troppo siamo stati persuasi di avere tutta la verità, troppo abbiamo fatto tacere le parole, i lamenti, le grida, di tanta parte dei nostri fratelli e sorelle. Risposte frettolose e facili consolazioni non fanno parte del vocabolario della missione, e oggi la vita minacciata, la vita sofferta di molti è terribilmente esigente: dobbiamo ascoltare, dobbiamo imparare a condividere le domande, a sentire quello che passa nel cuore delle persone, prima di dare risposte. Il silenzio umile di che è disposto a condividere la situazione dell’altro, di chi sa «rallegrarsi con quelli che sono nella gioia e piangere con quelli che sono nel pianto» (Rm 12,15) deve essere la testimonianza forte che, così come il nostro Signore, siamo vicini per condividere, fatti servi per amore e per amare. Se non ci si fa ospiti e fratelli della sofferenza e della speranza delle persone, come poterle invitare ad essere ospiti e fratelli della nostra fede?

E infine, l’ultimo paradosso: la missione è per convertire le genti. Oggi abbiamo bisogno più che mai di stare accanto, in silenzio, per convertirci a un amore che non sia «a parole» ma con i fatti e in verità. È nell’appello alla conversione che ci viene dal momento presente, nella disponibilità a lasciarci educare dallo Spirito che ci sta parlando in modo inatteso e imprevedibile, nella docilità di chi sempre si riconosce discepolo, che potremo riprendere con maggior vigore il nostro impegno missionario. Non aggrappiamoci a quello che sempre abbiamo fatto, non mettiamoci a cercare facili successi contando con la nostra esperienza. Solo se ci lasceremo plasmare da Dio, come nel giorno della creazione, potremo essere, oggi, quell’immagine di sé che Dio volle imprimere in ogni creatura umana affinché tutto il creato fosse «regno di Dio». E anche noi saremo stati quei servi «inutili» che avranno però compiuto il loro dovere.*vescovo di Floresta