Vita Chiesa

Pentecoste: card. Betori, i cristiani non si chiudano in comunità impermeabili al mondo, siano coraggiosi testimoni

Il cardinale Giuseppe Betori nell’omelia ha preso spunto da alcuni passaggi della sua ultima lettera pastorale dedicata agli Atti degli apostoli e dalla figura del suo predecessore, il cardinale Giovanni Benelli, di cui pochi giorni fa è stato ricordato il centenario: “La sua proverbiale efficienza non era un tributo alla cultura moderna del fare, ma la spinta a dare forma concreta a un’esistenza trasformata dalla fede, in grado quindi di offrire una visibile testimonianza di Cristo”-

Di seguito l’Omelia del cardinale

Per comprendere come gli Atti degli Apostoli intendono il mistero della discesa dello Spirito Santo sulla Chiesa nascente, il testo che ci è stato proposto come prima lettura è fondamentale ma non basta. I primi versetti del cap. 2 degli Atti ci presentano infatti i segni che accompagnano la venuta dello Spirito a Pentecoste e ne rivelano il significato, ma poi occorre tener presente il resto del capitolo per conoscere gli effetti di questo dono, per non tacere del fatto che il libro degli Atti conosce altre tre effusioni collettive dello Spirito: a Cesarea, sui pagani nella casa di Cornelio; a Samaria, a conferma del battesimo che i samaritani hanno ricevuto da Filippo; infine a Efeso, sui discepoli che avevano conosciuto solo il battesimo di Giovanni.

Tutto parte dal compiersi di segni che nella storia del popolo di Dio avevano più volte accompagnato la manifestazione del Signore: fragore, vento e fuoco. Sembra di essere di nuovo sul monte Sinai, ma a Gerusalemme non viene donata una legge tramite Mosè: i discepoli di Gesù vengono invece «colmati di Spirito Santo» e cominciano a «parlare in altre lingue, nel modo con cui lo Spirito dava loro il potere di esprimersi» (At 2,4). Intorno a loro c’è gente proveniente da tutte le parti del mondo e «ciascuno li udiva parlare nella propria lingua» (At 2,6). Uomini, finora perplessi e sfiduciati, paurosi e bloccati, scendono in strada e proclamano «le grandi opere di Dio» (At 2,11) a un gruppo di persone che, seppure tutti giudei, provengono però da regioni che coprono tutto il mondo allora conosciuto; e la loro parola è capace di entrare in dialogo con la cultura di ciascuno dei presenti, che li sentono parlare «nella propria lingua nativa». La libertà coraggiosa dell’annuncio e la sua destinazione universale è quanto emerge con forza tra i caratteri che accompagnano l’esperienza dello Spirito a Pentecoste. Caratteri, soprattutto il secondo, che connotano anche le altre manifestazioni a Cesarea, Samaria ed Efeso, con il superamento dei confini etnici e religiosi che ciascuna di queste esperienze comporta, nei riguardi rispettivamente del paganesimo, dell’eresia samaritana, della comunità dei discepoli del Battista.

Prospettive queste di particolare significato oggi in cui la minore rilevanza dell’esperienza ecclesiale nel contesto culturale rischia di indurre i cristiani a chiudersi in comunità impermeabili al mondo invece che a farsi coraggiosi testimoni della bellezza perenne del Vangelo. Di questo ci parla anche il vangelo di Giovanni, in cui Gesù presenta il dono dello Spirito come il dono di un «Paraclito» (Gv 15,26), cioè di colui che ci esorta, incoraggia, sprona, consiglia sul cammino della fedeltà al Vangelo di Gesù; e al tempo stesso ci protegge, affianca, appoggia, soccorre, prende le nostre difese nel combattimento contro il male per mantenere questa fedeltà; intercede inoltre per noi, nostro avvocato nel confronto con il mondo, come anche di fronte al trono di Dio; e infine ci consola, perché la lotta del discepolo non esclude anche ferite, fragilità, sconfitte. Tutto questo fa un paraclito. Ma lo stesso vangelo ricorda che lo Spirito è anche «lo Spirito della verità»(Gv 15,26), colui che «guiderà a tutta la verità» (Gv 16,13). La verità, lo sappiamo, è Gesù stesso, perché solo in lui risplende il vero volto di Dio e il vero volto dell’uomo. Solo lo Spirito, che illumina gli occhi della nostra fede, rende possibile entrare nel mistero di Gesù e scorgere in lui il dono con cui il Padre ha voluto redimere l’umanità, far superare lo scandalo della croce e riconoscere il Risorto in mezzo a noi. Grazie allo Spirito la verità di Gesù appare come fondamento di un mondo nuovo e vero, redento dalle sue limitazioni e rifondato sul progetto divino che lo ha voluto e creato. 

A queste riflessioni, su fede, Chiesa e testimonianza, voglio accostare la memoria di un nostro caro pastore fiorentino, il card. Giovanni Benelli, di cui da poco abbiamo ricordato i cento anni della nascita. Uomo di Chiesa di tempra non comune, animato dalla salda convinzione che il Vangelo è un bene da non tenere racchiuso nel segreto delle coscienze, ma affermato come principio capace di orientare il bene comune della società. Pronto anche a subire incomprensioni, mai però vinto dalla paura nella continua semina del Vangelo, impegno primo di ogni pastore. La Chiesa fiorentina gli deve essere grata per la sollecitudine pastorale che ne animò il servizio tra noi, fino a una morte prematura in cui molti hanno riconosciuto la conseguenza di una vita spesa per gli altri oltre ogni limite. La sua proverbiale efficienza non era un tributo alla cultura moderna del fare, ma la spinta a dare forma concreta a un’esistenza trasformata dalla fede, in grado quindi di offrire una visibile testimonianza di Cristo.

L’orizzonte ampio della fede è quello che oggi Papa Francesco invita a far nostro nell’ottica di un’evangelizzazione che si spinga alle periferie umane, materiali e spirituali: «Anche le nostre comunità sono chiamate ad uscire dai vari tipi di “confini” che ci possono essere, per offrire a tutti la parola di salvezza che Gesù è venuto a portare. Si tratta di aprirsi ad orizzonti di vita che offrano speranza a quanti stazionano nelle periferie esistenziali e non hanno ancora sperimentato, o hanno smarrito, la forza e la luce dell’incontro con Cristo» (Angelus, 20 settembre 2020). È lo stesso orizzonte che ci siamo proposti come Chiesa fiorentina nel Cammino sinodale in atto. Allargando ora lo sguardo agli effetti del dono dello Spirito, dobbiamo notare che essi anzitutto prendono la forma dell’annuncio della fede, della parola che testimonia la risurrezione di Gesù. Dal dono dello Spirito scaturisce l’annuncio. Ricordiamo le parole del santo papa Paolo VI nell’esortazione apostolica Evangelii nuntiandi: «Evangelizzare è la grazia e la vocazione propria della Chiesa, la sua identità più profonda. Essa esiste per evangelizzare». A questa immagine di Chiesa ho voluto dedicare la mia ultima lettera pastorale nel Natale scorso, che concludevo con questa indicazione: «Resta decisivo per l’annuncio cristiano essere in grado di generare un’esperienza e un’immagine dell’umano in cui si possano riconoscere le aspirazioni più profonde del cuore dell’uomo. Questo vale per dare un volto credibile alla figura personale e all’esperienza a cui ciascuno sente di poter dare vita, scoprire una meta per un cammino, uno scopo per un progetto, una missione per un impegno» (“La parola di Dio cresceva”, 2020, n. 8). Dall’annuncio nasce la Chiesa, che la conclusione del secondo capitolo degli Atti definisce nelle quattro note che la edificano: «Erano perseveranti nell’insegnamento degli apostoli e nella comunione, nello spezzare il pane e nelle preghiere» (At 2,42). Si è Chiesa in quanto si sta all’ascolto della Parola che trasmette la testimonianza degli apostoli; si vive una comunione affettiva ed effettiva, nelle relazioni interpersonali e nelle forme concrete della carità che non lascia ai margini nessuno; si celebra l’Eucaristia comunione alla sorgente della vita che è Cristo, incontrato nel suo mistero pasquale; si è uniti al Padre nella preghiera, nell’invocazione e nella lode. È la carta di identità della Chiesa, con cui misurarsi ogni giorno nella nostra fedeltà al Vangelo. Una Chiesa da edificare con atteggiamento di servizio, lo stesso che il santo papa Giovanni Paolo II riconosceva nel card. Benelli, quando di lui diceva: «Un uomo che è stato al servizio della Chiesa senza mai servirsi di essa». Lo stesso spirito di gratuità e libertà invochiamo per noi in questa Pentecoste.

Giuseppe card. Betori