Vita Chiesa

Quando la missione è un dono

Una presenza costante e capillare. È quella dei missionari italiani nel mondo: 555 fidei donum, 1.000 laici, di cui diversi presenti con la famiglia, 5.000 religiosi, 7.500 religiose, oltre agli inviati dei movimenti ecclesiali. “Se, come diceva il vescovo brasiliano dom Pedro Casaldaliga, la vitalità di una Chiesa si vede dalla sua forza missionaria, si potrebbe tirare più di un respiro di sollievo: in quasi tutte le speciali classifiche dei numeri riferiti alle missioni, l’Italia si trova spesso sul podio”. Lo ha affermato mons. GIUSEPPE ANDREOZZI, direttore dell’Ufficio Cei per la cooperazione missionaria tra le Chiese, al convegno nazionale dei sacerdoti fidei donum rientrati, tenutosi a Chianciano Terme (Siena), dall’8 al 10 novembre, sul tema “Dalle feconde memorie alle coraggiose prospettive”.

LA COOPERAZIONE TRA CHIESE. “Oggi la missione è sempre più comunemente intesa come scambio e ha nei missionari il naturale ponte d’incontro”, ha sottolineato mons. Andreozzi. Questo ruolo riveste una particolare importanza per i fidei donum, che conservando “continui e diretti rapporti con le comunità che hanno visto crescere la loro vocazione e con quelle dove hanno esercitato il ministero” permettono a confratelli, parrocchie e famiglie di “conoscere la missione dal diretto confronto pastorale”. Si tratta, secondo il presidente dell’Ufficio Cei, di un “protagonismo missionario diretto della Chiesa particolare”, che nel tempo “ha fatto emergere un nuovo soggetto: quello del cristiano laico in servizio missionario”.

DIFFICOLTÀ AL RIENTRO. Tra le caratteristiche dell’esperienza di missione, vi dev’essere la temporaneità. “Non fanno un buon servizio alla loro Chiesa locale quelli che non tornano più”, ha ammonito mons. Andreozzi, riconoscendo tuttavia che esistono delle difficoltà legate al rientro: “Molti hanno dovuto affrontare disagi e fatiche legati al cambiamento. L’Italia che ritrovano è diversa da quella che ricordavano. Ma anche la Chiesa in cui sono chiamati a ricollocarsi è altra da quella che hanno lasciato”. Un problema messo in luce anche dal vescovo di Trento, LUIGI BRESSAN, presidente della Commissione Cei per l’evangelizzazione dei popoli e la cooperazione tra le Chiese, che tuttavia ha evidenziato l’importanza della loro partecipazione alla vita delle nostre comunità, spesso mosse da “un impegno prevalente se non esclusivo di conservazione dell’esistente e un rammarico che le cose non siano più come nel passato”. “Per chi ha sperimentato l’entusiasmo delle giovani Chiese – ha ribadito – sarà certamente più facile aiutare a superare il disagio contingente. La pluralità del contesto vissuto permette di proporre motivi anche concreti di speranza e metodologie innovative per il nostro ambiente, ma già sperimentate altrove”.

A CINQUANT’ANNI DALL’ENCICLICA. Il convegno ricorda i 50 anni della promulgazione dell’enciclica Fidei Donum. Essa “fu lo sbocco di innumerevoli richieste di coinvolgimento e di cambiamento nelle vicende missionarie della Chiesa”, ha ricordato il sacerdote padovano don RENZO ZECCHIN. “La Fidei Donum – ha aggiunto – fu profetica nel superamento di due fattori di enorme rilevanza missionaria: la non esclusiva attribuzione della missione ai consacrati, aprendola anche ai laici” e, a seguito del moltiplicarsi dei missionari, l’aiuto a una Chiesa sorella “non solo economico, finanziario, ma espresso prioritariamente attraverso l’invio di persone, germe fecondo di comunione, di scambio, di fraternità paritaria”.

LA SPINTA DEL CONCILIO VATICANO II. “I missionari fidei donum hanno come madre l’enciclica del 1957 e come padre il Concilio, che costituisce una fonte permanente della missione”, ha dichiarato don FRANCO MARTON, direttore del Centro missionario di Treviso. “Occorre mettersi in ascolto del Concilio, che continua a parlare alla Chiesa di oggi e di fronte ai problemi cercare i suggerimenti che esso ci dà – ha precisato –. Non bisogna mai cedere alla tentazione di fermarsi o voltarsi indietro, rimpiangendo il passato”. Il sacerdote trevigiano ha invitato a “leggere e interpretare la storia”, per realizzare una Chiesa “capace di relazioni personali, intense e significative, che accetta le debolezze e i mezzi poveri e non cede alla tentazione della ricchezza, capace di andare verso i popoli e accoglierli, in grado di cambiare e rinnovarsi, e di dare spazio ai laici”. “Una Chiesa siffatta – ha concluso – dovrebbe operare quella lettura della storia suggerita dal Concilio: leggere i segni dei tempi per realizzare un discernimento comunitario, che dia risposta alle sfide dell’oggi”.a cura di Francesco Rossi