Il film: “Gli spiriti dell’isola”, stregati dall’Irlanda

Non c’è nemmeno la lotta per la sopravvivenza che il regista americano Robert Flaherty immortalò nel capolavoro L’uomo di Aran (1934), etno-documentario ambientato nell’arcipelago omonimo: no, nel villaggio in cui risiedono Pádraic e Colm, il primo allevatore e l’altro suonatore di violino, si vive discretamente, di pesca e pastorizia. E si trovano anche tempo e risorse per andare ogni giorno al pub dove passare il pomeriggio a bere birra e a parlare. Ma a parlare di che?

Da questo immobilismo esistenziale, Pádraic è scosso all’improvviso quando un giorno l’amico Colm, più vecchio di lui, non si presenta all’appuntamento quotidiano di bevute. Sostiene di non aver più voglia di ascoltare Pádraic perdendo tempo con le sue chiacchiere vacue: ha bisogno di tempo e di concentrazione per realizzare una ballata tradizionale sulle banshees, gli spiriti-streghe del titolo. Sembra trattarsi di una rottura definitiva della antica amicizia, di cui tutti chiedono conto al solo Pádraic che non si arrende e comincia a tormentare Colm per avere almeno una motivazione. Riceverà in cambio solo una minaccia: se continuerà a infastidirlo, questi si taglierà un dito per volta della mano destra – quella con cui suona il violino e con cui compone la sua canzone. Lo dice senza astio, ma con determinazione.

Come un personaggio di Luigi Pirandello, Pádraic si accorge all’improvviso di aver indossato una maschera per anni (e si badi proprio al gesto emblematico che compie quando va in casa di Colm la prima volta…) e di quanto quella maschera da vitellone, gentile ma ottuso, non gli corrisponda. È considerato dagli altri soltanto un gradino più su di Dominic, il giovane “scemo del villaggio” che tutti scansano – in realtà vittima di un padre anaffettivo e violento. Colm in questa consapevolezza acquisita di fatto svolge un ruolo catartico. Proprio il semplice Dominic fa presente a Pádraic che l’ex amico «magari ha fatto tutto questo per farti credere in te stesso». Da parte sua il violinista sente la vecchiaia avanzare e perciò vuol lasciare una traccia di sé prima di sparire da questo mondo, una creatura che gli sopravviva sotto forma di composizione musicale.

Pur incentrata sul rapporto dialettico e conflittuale tra i due, la vicenda ha il vero protagonista in Pádraic: benché in modo paradossale, è lui che impara a crescere, ad accettare il suo vero io, a trovare una collocazione adeguata nell’isola, a prendersi cura delle bestie – le uniche che gli corrispondono. Una banshee si aggira misteriosa e inquietante fra gli abitanti di Inisherin, quasi fosse un’emanazione di quella terra che spinge o all’assuefazione o all’autodistruzione. Qualcuno riesce a fuggirne, altri soccombono. Pádraic resiste e finalmente diventa uomo.

Come nei precedenti film di Martin McDonagh (In Bruges, 2008; Tre manifesti a Ebbing, Missouri, 2017) anche qui troviamo un conflitto tra l’individuo e la collettività, tra gli uomini e l’ambiente, raccontato con sapienza drammaturgica (la sceneggiatura è tratta da un suo testo teatrale) e impeccabile direzione artistica. Una parabola suggestiva e intrigante che invita a riflettere sul senso che diamo alla nostra vita e ai nostri rapporti umani.

 

Gli spiriti dell’isola (t.o.: The Banshees of Inisherin)

Regia e sceneggiatura: Martin McDonagh; fotografia (colore): Ben Davis; musica: Carter Burwell; interpreti: Colin Farrell, Brendan Gleeson, Barry Keoghan, Kerry Condon; origine: Usa-UK-Irlanda 2022; formato: 1:2,39; durata: 114 min.