La vita è un inferno in bianco e nero: «L’UOMO CHE NON C’ERA»

DI FRANCESCO MININNIJoel e Ethan Coen continuano a raccontare le loro storie di cinema e di vita incuranti dell’impatto che potrebbero avere sul pubblico. Il che, a Hollywood, può significare la cosa peggiore che possa capitare: l’insuccesso. Quando i Coen venano le loro storie tristi di sorrisi ora beffardi ora grotteschi, nessuno si lamenta. Ma quando, come ne «L’uomo che non c’era», rivelano un fatalismo incrollabile senza cercare alternative di alcun genere, il pubblico americano volta loro le spalle.

Un barbiere (che in realtà non sembra nato per fare il barbiere) ha una moglie (che in realtà non sembra nata per fare la moglie) che lo tradisce con l’affarista più in vista della città. Il barbiere è un uomo tranquillo, taciturno, triste, che però vorrebbe essere qualcun altro e qualcos’altro. Il tradimento della moglie, per una sorte di rassegnazione, non lo affliggerebbe più di tanto se non gli si presentasse l’occasione di mettersi in affari in proprio con un capitale di 10.000 dollari. La via più semplice per procurarsi il denaro gli sembra ricattare l’amante della moglie. Dopodichè, tutto prende una piega che nessuno si aspetta e che trasformerà il dramma in tragedia.

Il bianco e nero è quello degli anni Quaranta, quando il postino suonava sempre due volte e il diavolo faceva le pentole ma non i coperchi. Il malessere di vivere, però, è quello di oggi, dove in un certo senso si paga la colpa di vivere molto al di sopra delle azioni commesse. La peculiarità de «L’uomo che non c’era» (un titolo quasi kafkiano) è che tutti quelli che cadono nelle reti della giustizia pagano per qualcosa che non hanno commesso. Il barbiere, interpretato con straordinaria misura da Billy Bob Thornton, è un frustrato di un genere tutto particolare: trasmette infatti l’impressione di non voler avere di più, ma che sia qualcun altro ad averne sfruttando quelle occasioni che a lui non sono state offerte. Un genere di altruismo che, partendo dal ricatto, non può che ritorcersi contro di lui: ma con una freddezza e un eccesso di punizione che rendono tutto infinitamente triste. Il problema de «L’uomo che non c’era» sta probabilmente in una mancanza di equilibrio: a una prima parte nella quale i Coen continuano a giocare col cinema evocando personaggi ed atmosfere del tempo passato, fa riscontro una seconda che dà un brusco stop alla nostalgia per calarsi nel delirio esistenziale senza speranza, presentando situazioni troppo estreme per trovare posto in un quadro del ’49. Così sono i Coen: capaci di fare il verso a Frank Capra in «Mister Hula Hoop», di rifare l’Odissea in «Fratello, dove sei?» e poi di ammettere pubblicamente: abbiamo scherzato, la vita è un inferno. E questa volta non danno affatto l’impressione di scherzare.

L’UOMO CHE NON C’ERA di Joel Coen