Opinioni & Commenti

Il «senso comune» a dieci anni dal Family Day

Il 12 maggio del 2007, a Roma, su iniziativa del Forum delle associazioni familiari, si tenne il primo Family Day. Un milione di persone raggiunse la capitale da ogni angolo d’Italia per ostacolare i «Dico», primo tentativo per introdurre in Italia una legislazione destinata ad equiparare le unioni etero e omosessuali alla famiglia secondo il dettato costituzionale, ovvero l’unione di un uomo e una donna aperta alla procreazione. Quella piazza riuscì a bloccare l’iter della legge inserendo un piccolo granello di sabbia in un meccanismo che sembrava inarrestabile.

In quei giorni, il fronte degli organizzatori evocava il «senso comune degli italiani» che riconosceva il valore della famiglia così come emergeva da storia, cultura,  tradizione, vissuto personale e comunitario.

Affermazione non contestata dal fronte opposto che preferiva difendere le ragioni di una minoranza sulla base della prevalenza della dimensione culturale su quella naturale. Diciamo la verità: sono trascorsi solo 10 anni, eppure sembra di vivere in un altro secolo. Le unioni civili sono legge dello Stato, mentre si avvia all’approvazione definitiva una legge sulle dichiarazioni anticipate di trattamento che da molti viene indicata come anticamera dell’eutanasia. Per non parlare dello svuotamento progressivo della legge 40 che disciplina la fecondazione assistita e i reiterati attacchi all’obiezione di coscienza sul versante dell’aborto e del fine vita.

Forse il cambiamento più profondo del «senso comune» è legato proprio al vissuto personale nei confronti della vita di coppia e della famiglia. L’esplosione delle convivenze ha spinto persino la Chiesa cattolica, con lo stesso Papa Francesco, a una semplice presa d’atto e a un incoraggiamento pastorale a tutta la comunità cristiana perché sviluppi una strategia dell’accoglienza (senza pregiudizi) che consenta alla Chiesa di non  perdere contatti con le generazioni di oggi, ma soprattutto con quelle di domani.

Alcune cifre sono più esaustive di ogni ragionamento per comprendere il salto culturale e antropologico nella definizione del nuovo «senso comune». Le ha fornite  un demografo laico come Roberto Volpi: «C’è una sola tipologia di famiglia, in Italia, che cresce: quella unipersonale, costituita da una sola persona. Più di otto milioni di persone vivono da sole, e rappresentano il 32% delle famiglie italiane. Diminuiscono indiscriminatamente tutte le altre tipologie di famiglia secondo il numero dei componenti». Ma il dato più significativo del salto del «senso comune» sta nel fallimento del progetto di coppia. Il 40% delle famiglie unipersonali è costituito da persone mai sposate. E il trend sembra culturalmente e antropologicamente inarrestabile, con conseguenze demografiche devastanti.

I  dati recenti sul flop delle unioni civili in Italia, solo 2800 in otto mesi di applicazione della legge, confermano il sospetto che non saranno certo le unioni omosessuali a ricostituire il bacino delle «famiglie». Anche perché per ottenere questo effetto si dovrebbe paradossalmente estendere loro il diritto all’adozione, il riconoscimento dei figli nati da precedenti unioni e il ricorso sistematico alla gestazione per altri. Prospettive che non sembrano registrare, almeno per ora, un consenso sociale diffuso. Ma, come abbiamo visto, i cambiamenti sociali sono diventati rapidissimi e incontrollabili. Complici anche le incursioni di un potere giudiziario sempre più socialmente creativo.

Dunque, il nuovo «senso comune» degli italiani sembra essere una miscela di individualismo esasperato volto al solipsismo emotivo, di una cultura del «gender» sempre più invasiva, di un rifiuto sordo delle responsabilità relazionali legate alla coppia e alla famiglia, di un rinvio a tempo indeterminato della scelta riproduttiva.

Tutto perduto? Niente affatto. Basta non guardare con rimpianto al passato, non esaltare il Family Day del 2007 e neppure liquidarlo come una contorsione conservatrice, consegnandolo piuttosto alla storia del cattolicesimo italiano. E lanciare, invece, uno sguardo sereno e realistico sul presente chiedendoci cosa ciascuno di noi possa fare, non per ostacolare ad ogni costo e con ogni mezzo il nuovo «senso comune» degli italiani, quanto per umanizzarlo. Nella consapevolezza che non è il «sensus fidei» a essere messo in discussione, quanto il perimetro dell’umanesimo a cui i cattolici italiani possono e devono continuare ad offrire un contributo straordinario di valori e di solidarietà.