Toscana

Pesce, attenti a cosa compriamo

Un vademecum per capire esattamente cosa stiamo comprando al banco del pesce. È l’iniziativa di Federconsumatori Toscana realizzata insieme alla Camera di commercio di Firenze e alle associazioni Adiconsum e Adoc. Si tratta di una piccola guida per «acquisire maggiori conoscenze sul prodotto pesce per orientarsi meglio nell’acquisto di un alimento che sta incontrando il crescente favore da parte del consumatore».

Il vademecum segue tutta la filiera ittica: dalla produzione alle tavole dei toscani. Si inizia con la produzione del pesce che può essere pescato o allevato. «Il litorale toscano – si legge nella guida – si estende per 578 Km, pari a circa l’8% dell’intera costa italiana. La consistenza della flotta marittima in Toscana è stata valutata in 871, il 4,5% del totale nazionale (19.363 imbarcazioni), per un tonnellaggio complessivo di 10 mila TSL, 4,4% del totale italiano». Nella nostra regione esistono due aree dove la piscicoltura si è tradizionalmente sviluppata: «una a nord con le province di Massa Carrara e di Lucca dove sono presenti gran parte degli allevamenti di specie di acqua dolce (trote), ed una a sud intorno a Grosseto e Piombino, dove invece si ha l’allevamento delle specie marine ed eurialine (spigola, orata e anguilla)».

E poi i mercati del pesce che «sono localizzati nelle città lungo la costa, in genere vicino ai porti delle marinerie di pesca». Mentre «il mercato ittico di Firenze è di tipo terminale e viene gestito dalla società Mercafir a capitale misto pubblico e privato, con un bacino di utenza a carattere locale ed interessante le province di Firenze e Prato». Poi la distribuzione del pesce è affidata alle pescherie ed ai mercatini rionali. Da qualche tempo anche le gradi catene dei supermercati hanno aperto delle pescherie con il prodotto fresco, internamente ai loro punti vendita.

Attenzione alle «severe norme igieniche vengono seguite per poter vendere il pesce: i prodotti ittici vanno mantenuti nel banco di vendita su in letto di ghiaccio che ne rallenta la progressiva alterazione; i pesci vanno venduti fino a quando possiedono un buon grado di freschezza; quando la pelle diventa secca, la carne meno elastica, l’occhio concavo e non trasparente, le branchie assumono la colorazione rosso bruno e si comincia a sentire odore di ammoniaca, il pesce si dice stantio e non è più ammesso alla vendita».

«Il 1° gennaio 2002 – spiega la guida di Federconsumatori – sono entrate in vigore le nuove norme comunitarie sull’etichettatura del pesce: in tutti i paesi dell’Unione Europea, i prodotti ittici vivi, freschi o refrigerati, congelati, secchi, salati o in salamoia destinati al consumatore finale possono essere commercializzati solo se recano un’indicazione o un’etichetta che contenga: la denominazione commerciale della specie; il metodo di produzione; la zona di cattura o di allevamento». Non solo. L’indicazione obbligatoria del peso dello sgocciolato – nel caso di prodotto preconfezionato – «costituisce un indubbio elemento di trasparenza nei confronti del consumatore, che viene messo al corrente del peso di pesce realmente contenuto nella confezione. Infatti, la semplice indicazione del peso del prodotto lascia il consumatore nel dubbio circa l’incidenza del prezzo dell’acqua, salamoia, glassa (detto liquido di governo) sul prezzo totale».S.P. La storiadi Antonella MontiSalvatore Di Roberto ha poco più di settant’anni, è pensionato dopo sessant’anni trascorsi in mare. «Quante notti ho dormito sul “pagliolo” sotto una tenda», racconta dopo non poche preghiere perché per i pescatori di una volta, abituati a guardare e sentire il rumore del mare, parlare serve a poco e poi… anche i pesci con cui hanno a che fare per tutta la vita sono muti.

«Di pesci – sottolinea – me ne intendo davvero ma non cambierei un’acciuga o una sarda con un’aragosta per nessuna cosa al mondo: noi uomini di mare ci siamo sempre cucinati da soli, anche senza donne, e quello che si pescava si mangiava e si imparava presto a cucinarlo al meglio».

Salvatore è a Porto Santo Stefano da sessant’anni fa. Il viaggio fu un’avventura. «Arrivai qui con mio padre e i miei fratelli da Napoli – racconta – su una barca di otto metri a vela senza motore. Eravamo in cinque a bordo, era il 1946, avevo 12 anni ma già da sei anni pescavo. Mio padre, prima della guerra, trovò lavoro all’Ansaldo di Bagnoli ma la vita di mare era un’altra cosa. Così per non fare andare i suoi figli “sotto padrone” ci comprò una barca. Ho sei fratelli e anche loro sono tutti pescatori. La vita da pescatore di allora era più dura di quella di oggi, si lavorava 24 ore su 24 senza nessuna festa. Come tante altre famiglie arrivate dalla Campania, i primi tempi facevamo sei mesi qui, all’Argentario, e sei mesi a Pozzuoli. Ho fatto il soldato in Sicilia e a Porto S.Stefano e aspettavo la libera uscita per andare a pescare». E qui ha trovato anche la donna della sua vita. «Dopo la morte di mia madre, mio padre si risposò all’Argentario – spiega – e anche io ho preso moglie qui. Con lei, abbiamo messo al mondo sette figli, tre maschi e quattro femmine, quasi lo stesso numero delle barche che ho avuto nei miei anni in mare».

La sua vita di pescatore è ricca di aneddoti e di pescate da ricordare come quella volta dello squalo bianco. «Si pescava fra Montecristo e l’Elba, insomma nell’Arcipelago toscano, – continua Salvatore – ma se si andava a pesce spada ci si allungava fino alla Corsica e alla Sardegna. La pescata più famosa mi successe intorno agli anni ’70. Ricordo che uscimmo in mare come facevo sempre con mio fratello Antonio e andammo a tirare su la rete lasciata nel canale tra il Giglio, Giannutri e l’Argentario. All’epoca, si tirava su a mano senza verricello. Una volta sul posto non trovammo più il segnale. Stavamo su un fondale di 95 metri e non capivamo come poteva essersi spostato. Una volta ritrovato, con molta fatica tirammo su la rete e nel vedere brillare una grossa cosa color metallo pensammo di aver preso un’elica. Invece era uno squalo bianco lungo nove metri e pesante più di 10 quintali. Lo rimorchiammo in porto e poi lo tirarono sulla banchina con una gru. Quando gli aprimmo la pancia, dentro c’erano una bombola di gas, due delfini e due tartarughe. Ricordo che alcuni vecchi pescatori presero subito i delfini e ci fecero il mosciame. Poi ci fu l’assalto ai denti e a noi, che l’avevamo pescato, non toccò niente! E pensare che, all’epoca, un dente dei più piccoli costava già 1.000 lire!».

Ma le avventure di Salvatore non finiscono qui. «Un’altra volta – ricorda – si uscì per buttare le reti a Punta Lividonia e giunti sul posto vedemmo gli sbuffi d’acqua di un balenottero. Forse ci prese in simpatia, di fatto ci seguì fin dentro il porto e cominciò a costeggiare la banchina facendo alzare tutte le barche. Poi, decise di suicidarsi, dette una testata alla banchina e morì… Le autorità ce lo fecero rimorchiare all’Argentarola dove lo lasciammo legato agli scogli. Dopo poco, un forte temporale lo sciolse e la carcassa cominciò a vagare qua e là e ogni tanto si veniva a sapere che lo avevano visto nei pressi di qualche cala o dei porti fino a quando, a Marina di Grosseto, decisero di farlo esplodere con grande dispiacere dei gabbiani che ci banchettavano sopra».

E poi c’è quella volta che trovano un’altra creatura del mare: «Una paura la prendemmo con la manta quando la trovammo attaccata alle coffe che avevamo messo per i merluzzi e il pesce spada. Era così grande che ci trascinava la barca. Per fortuna riuscimmo a liberarla. Tanto non era commerciabile».

Anche se Salvatore è andato in pensione, l’attività è portata avanti dai figli. «Oggi –spiega – c’è mio figlio Zaccaria (42 anni) e suo cugino a continuare il nostro lavoro sul Motopesca S. Salvatore e lo fanno con passione anche se i giovani si lamentano che questo lavoro li tiene troppo impegnati fino a quindici ore al giorno. Ho passato la vita in mare e il mare non mi ha trattato male perché l’ho sempre rispettato e questo ho insegnato ai miei figli, a non fare gli spacconi perché Nettuno, dio del mare, si vendica sempre». L’ultima riflessione è sulla sua vita passata in mare. «Se ci ripenso riconosco che è stata una vita dura: quando scoppiò la guerra, avevo fatto solo la seconda elementare così mi misero subito a lavorare. In tutti questi anni a bordo, la scuola mi è mancata anche se tanti problemi sono riuscito a risolverli lo stesso perché è vero che la pratica quasi sempre vale più della grammatica. Oggi – conclude Salvatore – ho già otto nipoti che certo non proveranno mai la fatica di venire da Napoli all’Argentario a vela senza motore né si assorbiranno l’umidità di tante notti passate in mezzo al mare ma qualcuno continuerà a scegliere questo lavoro perché, la passione del mare, si trasmette nel sangue…».

Il mercato itticodi Porto S. StefanoNel 1933 in Via Marconi, 34 c’era già una struttura che però serviva solo come supporto all’attività di pesca. Nel 1973 i pescatori santostefanesi vendevano il pesce direttamente ai pescivendoli che li aspettavano sulla panchina al rientro dalle loro giornate di pesca. Il consorzio vero e proprio o meglio la Coop.a r l.Produttori Sant’Andrea ubicata in località Porto (Banchina Toscana) nacque tredici anni fa e subito una cinquantina di pescatori ne entrarono a far parte stanchi di subire il prezzo imposto dai pescivendoli. Da allora, il pescato dell’Argentario viene astato e parte subito per i grandi mercati nazionali con in testa da sempre quello di Roma, a seguire Napoli, Genova fino ai mercati di Milano e Torino. Oggi, ad essere consorziate sono 26 imbarcazioni di cui 16 motopesca a strascico e 10 motobarche a tramaglio (tramaglini). Le famiglie che vivono del pescato di tali barche sono quasi 80. Fuori dal Consorzio sempre a Porto S.Stefano, pescano altre 15 imbarcazioni mentre a Porto Ercole a lavorare sono 5 o 6 pescherecci.Di norma, per una giornata di pesca tutte le barche consorziate portano al mercato circa 3 tonnellate di pesce. Tra le pescate memorabili quella del 1978 quando rientrò una barca piena colma di dentici… una pesca davvero miracolosa. «Quei dentici non stavano nelle cassette tanto erano grandi –racconta Luciano Longobardi, un’operatore della cooperativa – e quasi tutti pesavano 6-7 chili l’uno. Ricordo che a noi ci regalarono uno dei più piccoli e ci cenammo in quattro».