Vita Chiesa

Malati e disabili, vivere la fede è un diritto. E aiuta a curarsi

Tra i diritti di cui le persone disabili e i malati mentali sono portatori ce n’è uno che viene spesso trascurato: è quello a poter vivere la propria fede, a veder tutelata e valorizzata la dimensione religiosa e spirituale della propria personalità. Una tendenza che da diverse parti si cerca di invertire. «In campo medico – spiega Stefano Lassi, psichiatra della fondazione Oda di Firenze e vicepresidente toscano dell’Aippc – ci sono documenti innovativi che sottolineano l’importanza, da parte degli operatori sanitari, di riconoscere, valorizzare e promuovere l’esperienza religiosa e spirituale del paziente quando questa funge da fattore di protezione e promozione della salute».

E proprio durante il convegno fiorentino è stato presentato un nuovo documento (vedi allegato), approvato dal consiglio dell’Ordine Provinciale dei Medici Chirughi e degli Odontoiatri di Firenze, che si intitola «Deontologia e valorizzazione della spiritualità». Un testo che ricorda ai medici l’importanza del rispetto e della valorizzazione della vita spirituale del paziente: secondo il presidente dell’Ordine dei Medici di Firenze, Antonio Panti, una novità nel mondo medico: «Certo, già il giuramento di Ippocrate prevede che l’assistenza del medico nei confronti del paziente prescinda da qualsiasi discriminazione – ha spiegato Panti – ma quello che abbiamo appena approvato come ordine è un vero e proprio invito alla capacità del medico di fare appello alle doti profonde dell’animo umano, perché sappiamo bene che nel processo di guarigione supportare l’individualità e la spiritualità del paziente è fondamentale». «In un momento come questo – ha aggiunto Panti – che registra una mescolanza di valori e linguaggi morali, anche all’interno della stessa religione, è più che mai importante richiamare i dottori alla comprensione e al supporto profondo della dimensione religiosa del paziente».

Si legge nel documento: «Si tratta oggi di porre l’accento sull’empatia che deve caratterizzare la relazione col paziente, affinché il medico non soltanto rispetti i convincimenti della persona ma ne sappia valorizzare e stimolare la dimensione etica, spirituale o religiosa per favorirne la reazione positiva alla malattia e alla cronicità».

Ancora: «Il Consiglio dell’Ordine dei Medici ed Odontoiatri della Provincia di Firenze intende aprire una riflessione sul rapporto fra paziente e terapeuta di fronte alla sempre più frequente evenienza che tale relazione si debba costruire in presenza di diverse visioni del mondo, ideologie, opinioni e credenze».

E della necessità di una «alleanza» tra scienza e fede, tra medicina e religione, per una maggiore efficacia nella cura della persona ha parlato anche il cardinale Giuseppe Betori, arcivescovo di Firenze: «La particolarità di questo convegno – ha spiegato  nel suo saluto –  è che va ad approfondire temi importanti che considerano la persona nella sua integralità e pone al centro di queste riflessioni i deboli, non i potenti».

La spiritualità, aggiunge Serafino Corti, docente di psicologia della disabilità all’Università Cattolica, «è un elemento costitutivo della qualità della vita anche per le persone disabili». Da una cura della malattia mentale che tenga conto della dimensione spirituale, spiega il presidente degli psicologi cattolici della toscana Daniele Mugnaini, sono nate anche esperienze importanti. Come quella de «L’Arca», fondata in Francia nel 1964 da Jean Vanier e oggi presente in 34 paesi del mondo. L’anziano fondatore non è potuto intervenire al convegno fiorentino, ma ha inviato un messaggio molto bello in cui invita a vedere nel disabile «una persona capace di amare e portare il suo dono agli altri. Le persone con handicap hanno il diritto di scoprire questa spiritualità dell’amore che le aiuta ad aprirsi all’universale, a Dio ed anche ad assumere la fragilità la più completa che è la morte».

E l’Arca, ha raccontato la coordinatrice italiana Guendalina Malvezzi, è nata proprio per rispondere alle domande fondamentali che vengono da ogni persona, anche disabile: «Mi vuoi bene? Sono importante per te? Sono tuo amico?». Nel racconto dell’esperienza dell’Arca, anche una storia che fa sorridere. Quella di un giovane disabile mentale che viene mandato a fare una visita da un cardiologo. Al suo ritorno gli viene chiesto: «Allora, che cosa ha visto il dottore nel tuo cuore?» e lui risponde, sicuro: «È ovvio, ci ha visto Gesù». «Ah sì? E cosa ci faceva Gesù nel tuo cuore?» «Si riposava». Un dialogo che ci fa capire quanto, con la loro semplicità e con il loro intuito, le persone disabili possano vivere la dimensione religiosa in maniera vera e profonda come e più di chiunque altro.

Queste esperienze di cura integrale della persona, anche nella sua dimensione spirituale, si contrappongono, ha fatto notare Francesco D’Agostino, presidente onorario del comitato nazionale di bioetica, a una «bioetica scellerata» che vuole distinguere la categoria di essere umano da quella di persona, come se potessero esistere esseri umani che non sono persone e quindi non hanno diritto al rispetto e alla cura.

Parte da principi esattamente opposti l’esperienza dell’Oda: «La persona disabile – spiega il presidente della Fondazione, don Vasco Giuliani – anche quando risulta ferita nella mente o nelle sue capacità sensoriali e intellettive, con tutte le limitazioni e le sofferenze da cui è segnata, ci obbliga ad interrogarci con attenzione e rispetto sul mistero dell’uomo che in ogni situazione di vita mantiene la sua dignità e il suo valore di figlio di Dio. Per questo anche il disabile intellettivo deve essere facilitato a partecipare, per quanto gli è possibile, alla vita della società ed essere aiutato ad attuare tutte le sue potenzialità di ordine fisico, psichico e spirituale».

Un impegno anche per le parrocchie: «La parola d’ordine è inclusione»

Qual è l’approccio che la Chiesa insegna ad avere nei confronti dei disabili? Secondo suor Veronica Donatello, responsabile del settore per la catechesi dei disabili dell’ufficio catechistico nazionale della Cei, la parola d’ordine è «inclusione». Nei suoi documenti, sottolinea, fin dagli anni Settanta la Chiesa – anticipando e favorendo la diffusione di questi concetti anche in ambito civile – ha cercato di indicare le strade per fare in modo che la presenza delle persone disabili diventi «ordinaria» all’interno della comunità. «Nelle parrocchie, nelle attività pastorali, nei gruppi e nelle associazioni – afferma suor Veronica – ci deve essere un posto per tutti». Ma è davvero così? «Girando l’Italia posso dire che per fortuna c’è grande sensibilità, grande disponibilità all’accoglienza: magari ci può essere a volte il timore di non sapere come fare o di non essere in grado». Oggi poi sarebbe il momento di fare un passo in più: non limitarsi all’accoglienza delle persone disabili, ma andarle a cercare, fare sentire loro e le loro famiglie parte della comunità: «anche questa – aggiunge suor Veronica Donatello – è una forma di nuova evangelizzazione».

Suor Veronica è intervenuta al convegno di Firenze su spiritualità, salute mentale e disabilità: «È stata un’occasione molto importante – sottolinea – perché queste cose non basta farle, bisogna parlarne il più possibile perché entrino nella vita ordinaria delle persone. Ed è interessante mettere insieme persone che lavorano in ambiti diversi, chi ha competenza medica, chi ha esperienza in campo religioso: tutti abbiamo molto da imparare gli uni dagli altri».

A proposito di catechesi dei disabili, aggiunge, «Dobbiamo partire dal presupposto che i limiti, le debolezze, le fragilità personali non sono un ostacolo per Dio, che è in grado di raggiungere il cuore di tutti». Facendo catechesi con persone che hanno limiti sensoriali, ad esempio (carenze nella vista o nell’udito) possiamo valorizzare l’uso del corpo, del movimento. L’importante – conclude – è che la catechesi dei disabili non sia affidata a qualche volenteroso o basata solo su rapporti tra due persone: deve essere l’intera comunità a farsene carico.