Cultura & Società

La guerra del Kebab

di Lorenzo Maffei

Ben cinque kebab nel centro storico di Lucca sono troppi, devono aver pensato in giunta comunale, e poi «secondo molti abitanti mandano cattivo odore» dichiara il sindaco Mauro Favilla in una intervista radiofonica. Allora l’assessore allo sviluppo economico Filippo Candelise (Forza Italia) ha messo nero su bianco un nuovo regolamento che restringe le maglie per l’apertura di nuovi esercizi all’interno del perimetro delle mura urbane. Chi non risponde a certi requisiti non può aprire alcuna attività, e poiché il regolamento è stato approvato in consiglio comunale (dalla sola maggioranza di centrodestra), è da ritenersi già esecutivo anche nella nota parte in cui si vieta il proliferare di «locali di diverse etnie». Questo particolare riferimento alle etnie ha fatto scattare una fragorosa polemica politica che ha visto da una parte il centrosinistra lucchese gridare al «provvedimento razzista» e dall’altra una difesa del regolamento con un ammissione da parte del Sindaco stesso di aver esagerato in alcune parti, manifestando la volontà di voler cambiare qualche parola del regolamento stesso. Ma al momento non è stata iniziata in consiglio comunale alcuna attività per poter modificare il regolamento che di fatto è già attuabile.

Come detto, le disposizioni approvate riguardano solo gli esercizi commerciali all’interno del perimetro delle Mura urbane. Queste disposizioni pongono un freno all’apertura di nuove pizzerie al taglio, fast food, rivendite di articoli da mare o da spiaggia, articoli per la nautica, sexy-shop ed esercizi di media e grande distribuzione, così come kebab e «locali di diverse etnie». In più si richiede che il personale dei ristoranti esistenti sappia l’inglese e sia vestito in modo decoroso, che gli interni dei locali siano compatibili con le bellezze del centro storico, che i proprietari vigilino (pena multe salate) su ciò che avviene fuori dai loro locali, per evitare rumorosi assemblamenti di persone, soprattutto la sera. Ogni ristorante poi, è obbligato a mettere nel menù almeno un piatto tipico lucchese. I commercianti, e tra questi in particolare i ristoratori, da sempre chiedono regolamentazioni più strette per salvaguardare la tipicità dei prodotti locali. E per questo, i vertici delle associazioni di categoria spesso si sono scagliati contro fast-food, pizzerie al taglio e negli ultimi anni contro i kebab; ma battagliano anche contro le sagre che tolgono potenziali clienti nei mesi estivi.

Oltre ai commercianti, molti movimenti di cittadini, comitati spontanei, e Italia Nostra da sempre monitorizzano le vie e le piazze del centro, ed evidenziano problemi nell’arredo urbano, nella pulizia, negli accessi di troppi veicoli dentro le mura, sullo stato di abbandono di palazzi e monumenti. Tuttavia nessuno mai aveva tirato in ballo limiti etnici da mettere agli esercizi commerciali. Al massimo è la conservazione dei beni culturali e ambientali, sono le motivazioni economiche, a muovere certe richieste. Nel dibattito a seguito di questo regolamento è entrato anche il Presidente della Provincia di Lucca Stefano Baccelli, che ha ammesso la necessità di poter discutere del decoro urbano cittadino ma allo stesso tempo ha dichiarato che nella situazione attuale dovrebbero essere messi sotto controllo  anche «i punti vendita di alcune catene in franchising che, negli ultimi anni, hanno pesantemente peggiorato l’aspetto della città» ed ha sottolineato come in tutte le città del mondo «i ristoranti etnici riscuotano il favore della gente, contribuendo a richiamare visitatori e a garantire vitalità e sviluppo economico». La città si è spaccata, ed ha vissuto con fastidio l’interesse nei massmedia nazionali e internazionali suscitato da questa scelta del Comune. Certo è, però, che molti enti e associazioni da tempo chiedono che il centro storico di Lucca, cioè i quattro chilometri quadrati all’interno delle Mura, sia riconosciuto come patrimonio mondiale dell’umanità, scomodando quindi l’Unesco. Su questo al momento ancora nessuno si è adoperato.

LA SCHEDA

La carne che giraIl kebab è un piatto a base di carne tipico della cucina mediorientale. Il termine («Döner Kebap») significa carne che gira o comunque arrostita. La carne (solitamente agnello e manzo, montone o pollo), tagliata a fettine, viene sagomata e infilata nello spiedo verticale, fino a formare un grosso cilindro alla cui sommità vengono poi infilzate parti grasse che, scolando, evitano l’eccessivo abbrustolimento ed essiccamento della carne arrostita. Il tutto viene quindi messo a ruotare vicino a una fonte di calore che una volta era fornita dalla brace sistemata in apposite griglie disposte verticalmente intorno allo spiedo e che oggi è invece è rappresentata da apposite macchine che utilizzano l’elettricità o il gas. Prima di essere cotta la carne viene condita o marinata. Il taglio poi procede dall’esterno e dal basso verso l’alto. Un tempo eseguito con un coltello affilatissimo oggi il taglio viene effettuato con una macchinetta elettrica rotante che asporta sottili fettine. Viene servita all’interno di panini o collocata su un piatto vero e proprio. Tradizionalmente per il panino si usa il pane arabo. Come condimento si aggiungono verdure miste e varie salse.

Tra presunto razzismo gastronomico e tutela del patrimonio

Quando ho letto la notizia pensavo ad uno scherzo – scrive sul suo blog Quinto quarto l’enogastronomo fiorentino Leonardo Romanelli –. Ma poi ho scoperto che era tutto vero».

«Quello che impressiona, leggendo il regolamento comunale, è la superficialità – spiega Romanelli – con la quale viene trattato l’argomento. Vietare di somministrare cibi etnici impone ai vigili preposti ai controlli una conoscenza delle varie cucine non indifferente». Ma non solo: «Si arriva ad obbligare il personale ad essere “fornito di elegante uniforme adatta agli ambienti nei quali si svolge il servizio”. Come se mettere uno smoking o una giacca con papillon nobilitasse il lavoro dei camerieri. E poi si obbligano i gestori a preparare almeno un piatto con ingredienti tipici del territorio: una bella minestra di farro precotta e poi riscaldata va quindi benissimo!».

Certo è che il problema esiste. Nelle nostre città, anche qui in Toscana, stanno proliferando, insieme ai negozi di kebab, soprattutto i call center e gli alimentari gestiti da stranieri. «Speriamo che siano realmente negozi che danno lavoro – dice un vecchio commerciante del centro storico di Firenze –, ma spesso, soprattutto in questi alimentari, non ci vedo nessuno».

All’interno delle mura di Lucca si contano 5 negozi di kebab. A Firenze ce ne sono ormai ogni pochi metri.

«Siamo contrari — dice l’assessore regionale alla cultura Paolo Cocchi — a forme occulte di razzismo gastronomico ». «Ma quale razzismo! L’unico nostro scopo è quello di tutelare il patrimonio storico del centro», replicano da Lucca.

Insomma, il dibattito è aperto. La «guerra del kebab» va avanti ed acquista una valenza culturale, oltre che politica.