Cultura & Società

Labirinti: tortuosa via che porta alla salvezza

di Valeria Novembri

Metafora di complessità, di un percorso in cui è facile smarrirsi ma uscirne richiede impegno e astuzia, il labirinto è uno dei simboli più antichi e più affascinanti. Secondo il mito, a realizzarne il primo esemplare fu il geniale architetto Dedalo su richiesta del re di Creta Minosse, che voleva occultare in tal modo la mostruosità del figlio e impedire che questi seminasse terrore e morte tra gli abitanti di Cnosso. Il Minotauro, infatti, nato dall’insana passione della moglie del re per un toro, aveva natura per metà umana e per metà ferina, e si nutriva di vittime umane: la città di Atene, ogni nove anni, doveva versargli un tributo di sette giovani e sette fanciulle. Tutti ricordano il mito di Dedalo, prigioniero insieme al figlioletto della sua stessa intricata costruzione: per liberarsi, i due si costruirono ali di cera e con esse si innalzarono verso il cielo, ma il desiderio di avvicinarsi al sole fu fatale a Icaro, che precipitò in mare con le ali disfatte dal calore. A questo primo mito si collega una seconda impresa: quella tentata da Teseo per liberare Atene dal periodico tributo di sangue dovuto al Minotauro. Per uccidere il mostro, l’eroe ateniese dovette prima affrontare il percorso intricato da cui – come aveva dimostrato la vicenda del suo stesso costruttore – era impossibile far ritorno. Intervenne a questo punto Arianna, la figlia di Minosse che si era invaghita di Teseo: con una trovata geniale, gli suggerì di segnare il camino con un filo, in modo da ritrovare la strada verso l’uscita, una volta ucciso il mostro. E così accadde: il celebre filo di Arianna salvò Teseo dal sicuro smarrimento, ma non assicurò alla ragazza l’amore dell’eroe, che dopo averle promesso di portarla con sé ad Atene, la abbandonò sull’isola di Nasso. Ma i percorsi della sorte, si sa, sono assai più tortuosi di quanto ammetta l’umana immaginazione, e Arianna fu salvata da Bacco, per guidare con lui il festante corteo del dio.

Nel Medioevo il mito greco non venne dimenticato: fu semplicemente reinterpretato alla luce della visione cristiana del mondo e della storia. In quanto groviglio di strade, intreccio di vie che si dipanano all’interno di uno spazio delimitato, il labirinto divenne da un lato l’emblema del mondo, pericoloso, pieno di insidie e di inganni, dominato dal male e dal peccato: una «selva» intricata dalla quale era difficile uscire indenni.Dall’altro lato la costruzione di Dedalo fu eletta a simbolo di un percorso interiore, una via attraverso la quale l’uomo poteva innalzarsi, scoprire se stesso o addirittura arrivare a Dio. La lotta fra Teseo e il Minotauro venne così a simboleggiare la lotta tra bene e male: una lotta combattuta dentro l’uomo, lungo tutto il percorso della sua vita mortale. Una lotta che aveva avuto inizio con il peccato originale, con la caduta di Adamo ed Eva: scena che non a caso si trova spesso riprodotta a fianco dei labirinti medievali. E i personaggi del mito che ruolo assumevano nell’allegoria cristiana? Il Minotauro rappresentava il male, il peccato o Satana stesso, mentre l’eroe Teseo era figura di Cristo, giunto a salvare l’uomo, liberandolo dall’errore e dal peccato. Queste due interpretazioni sono chiare nei mosaici pavimentali – ahimé quasi completamente perduti – di due chiese italiane: San Michele Maggiore a Pavia e San Savino a Piacenza. Nel primo la scena di Teseo vincitore sul Minotauro era accostata a quella di Davide nell’atto di sconfiggere Golia, creando così un duplice rimando a Cristo, trionfante su Satana. Nel secondo il labirinto era accompagnato da un’iscrizione che lo paragonava al mondo: «Questo labirinto rappresenta simbolicamente il nostro mondo: largo per coloro che vi entrano, molto stretto invece quando si voglia uscirne. Così, a fatica, riesce a tornare alla via della vita chi è prigioniero del mondo, schiacciato sotto il peso dei suoi peccati». Secondo questa complessa simbologia dunque, il mondo, il peccato avvinghiavano gli uomini tra le loro spire, e la strada del ritorno a Dio, della conversione, era assai faticosa.Anche le chiese dunque cominciarono ad accogliere al loro interno o al loro ingresso immagini di labirinti. Gli esemplari più famosi appartengono alle cattedrali gotiche del Nord della Francia. Amiens, Arras, Sens, Reims e Chartres contenevano labirinti pavimentali della fine del sec. XII: su di essi durante il periodo pasquale si celebravano liturgie che alludevano alla risurrezione e alla vittoria di Cristo sul peccato. I loro meandri costituivano i tracciati di un cammino spirituale di purificazione da percorrere in ginocchio, in segno di penitenza o in ricordo del calvario di Cristo. Il più famoso di questi grandi labirinti, chiamati anche Chemins à Jérusalem, è quello di Chartres: tutt’oggi molti sono i fedeli che seguono le volute delle sue spirali, per un percorso di 261,50 metri, fino a raggiungere il centro. In tempi in cui le strade per la Terra Santa erano incerte o addirittura chiuse, a causa delle guerre, un simile rituale rappresentava forse una sorta di pellegrinaggio interiore, un cammino di fede riprodotto in scala, che evitava i pericoli del viaggio reale, ma ne conservava i benefici spirituali. Chi attraversava il labirinto doveva passare per gli intrichi del mondo e vincere il peccato, affrontando l’esperienza disorientante di smarrimento provocata dal muoversi in maniera circolare e concentrica lungo le spire del tortuoso tragitto. Come in una danza sciamanica, come in un itinerario ipnotico.

Fatto sta che anche i bambini erano attratti da quelle arzigogolate immagini sui cui si poteva improvvisare una danza sinuosa: lo aveva già notato Plinio il Vecchio e lo constatò di nuovo a fine Settecento il canonico di Reims, che fece distruggere il labirinto della cattedrale perché, a suo dire, il rumore provocato dai ragazzi che vi scorrazzavano sopra disturbava le funzioni religiose. Meglio tollerati erano certi riti nelle isole britanniche, complice probabilmente l’eredità celtica: qui i labirinti erano tracciati su prato – i famosi circle crops che ancora oggi compaiono talvolta disegnati sui campi, e c’è chi vi legge messaggi alieni – , spesso in prossimità di chiese, ed erano con tutta probabilità utilizzati per danze e giochi legati a festività religiose.

Ma la storia del labirinto non si ferma all’età medievale: quale metafora migliore per indicare i meandri della mente, dopo la scoperta dell’inconscio da parte di Freud? È così che tutta l’arte del Novecento si popola di labirinti: il nuovo Teseo è proprio l’artista moderno che, munito di coraggio e astuzia, crea esplorando le possibilità recondite di ogni linguaggio. Il labirinto allude alla complessità del mondo contemporaneo, in cui non è facile trovare un filo, una chiave interpretativa. Ma l’artista moderno può identificarsi anche con il nuovo Dedalo, che dà vita a nuovi labirinti di significato, contribuendo con la sua arte allo svelamento di ciò che è ignoto, attraverso un arcano percorso della mente, che, come per un’intuizione improvvisa, dai recessi della memoria trae soluzioni nuove e impreviste. Questa in fondo è l’aspirazione di ogni genio dell’arte.

Chiusi e il labirinto di Porsenna

La passione degli antichi per la classificazione, quella stessa passione che aveva individuato e consacrato alla storia le sette meraviglie del mondo, operò una selezione accurata anche tra i labirinti. Quattro erano quelli da tramandare alla memoria dei posteri secondo Plinio il Vecchio: uno in Egitto, uno nell’isola di Lemno, il celebre labirinto cretese e infine quello di Chiusi, in Toscana. È questa la tradizione che si impone per tutto il Medioevo: ne parla persino Petrarca nelle sue epistole «Sine Nomine». Ma esiste davvero un labirinto a Chiusi? Sì, anche se tale definizione trae le sue origini dalla leggenda, più che dal reale scopo dell’intricato groviglio di cunicoli che si snoda al di sotto della città etrusca. L’affascinante percorso sotterraneo che accoglie oggi a Chiusi centinaia di visitatori costituiva in realtà l’antico sistema di drenaggio e approvvigionamento idrico creato dagli Etruschi tra il 500 e il 400 a.C.: un complesso di pozzi e canali scavati nel tufo al di sotto del livello stradale per raccogliere e depurare l’acqua piovana. Qualcosa di simile si trova anche in altre città etrusche, da Perugia a Todi. Ma allora perché quello di Chiusi è definito labirinto? Racconta Plinio il Vecchio nella sua «Naturalis Historia» che il re etrusco Porsenna fece costruire il proprio mausoleo all’interno di un inestricabile labirinto. Il grandioso monumento, secondo una leggenda, conteneva il sarcofago del re, realizzato dai più abili orafi etruschi: esso rappresentava il condottiero su un cocchio trainato da dodici cavalli, e circondato da una chioccia con 5000 pulcini. Il tutto era forgiato in oro massiccio. Molti – persino il grande Leonardo da Vinci – si sono messi in cerca di un simile tesoro, ma pare che nessuno l’abbia mai trovato: alcuni a Chiusi sentono ancora il pigolio della chioccia e dei pulcini, invito a continuare la ricerca. Il vero tesoro, tuttavia, un tesoro d’arte, è oggi quel sistema di cunicoli e gallerie, per buona parte visitabile, ma ancora da scoprire ed esplorare, sul quale le guide e gli abitanti del luogo, che hanno usato il «labirinto» come cantina, come rifugio o luogo per incontri clandestini, hanno centinaia di aneddoti da raccontare.

Lucca e Pontremoli Anche le chiese italiane contenevano immagini di labirinti, sebbene di misure più contenute rispetto a quello colossale di Chartres. A Pavia, Piacenza, Cremona esistono o esistevano esemplari databili al IX-XII secolo, con raffigurazioni del Minotauro, mostro biforme, simbolo di un’umanità degradata, piegata al peccato e al vizio. Il labirinto, infatti, agli occhi dell’uomo medievale rappresentava un’allegoria della via della perdizione, di una «selva oscura» e intricata in cui l’umanità perdeva se stessa e il proprio rapporto con il creatore. Solo l’intervento di Cristo, nelle vesti di Teseo, poteva liberarla dal dedalo dell’errore e ricondurla verso la salvezza. Questo il monito dei labirinti posti all’interno o all’ingresso delle chiese medievali.

In Toscana, la cattedrale di San Martino a Lucca e la chiesa di San Pietro a Pontremoli accoglievano i fedeli con questo simbolo. Il Duomo di Lucca, dal lato del campanile, ha murato su un pilastro del portico un labirinto di pietra, posto ad altezza d’uomo, in verticale. Scolpito su un unico blocco, è accompagnato da un’iscrizione: «Questo è il labirinto costruito da Dedalo cretese, dal quale nessuno che vi entrò poté uscire, eccetto Teseo aiutato dal filo d’Arianna». Un richiamo manifesto al mito, dunque, senza alcun riferimento esplicito all’interpretazione cristiana: segno che la sua valenza religiosa doveva essere universalmente nota. Anticamente, anche il piccolo labirinto di Lucca doveva avere al centro un’immagine di Teseo e del Minotauro, poi cancellata, probabilmente, dal secolare passaggio di dita irriguardose. Dotato di un unico ingresso, posto a destra, il labirinto offre una sola via per raggiungere il centro: indica così un percorso simbolico, interiore, da compiere prima di varcare la soglia, e passare dal mondo profano a quello spirituale della preghiera e della contemplazione. Un itinerario di conversione e di purificazione da affrontare anche fisicamente, magari seguendo con l’indice le linee scolpite sulla pietra. Non è un caso che i due esempi toscani si trovino in chiese collocate lungo l’itinerario della via Francigena: non solo per i legami con la Francia, le cui cattedrali gotiche accoglievano i labirinti più celebri, ma anche perché questi erano il simbolo più adatto a rappresentare il cammino dei pellegrini, faticoso e ricco di insidie. Così Pontremoli, al crocevia di molteplici strade – vi confluivano la Francigena, la via di Genova, la via del Borgallo che portava nel Piacentino, la via del Cirone che conduceva a Parma – , ospitava nella chiesa di San Pietro un labirinto di pietra, a ricordare il viaggio tortuoso di ogni fedele, pellegrino su questa terra, alla ricerca della salvezza.

La parola Da edificio, luogo o intreccio di strade dove è difficile orizzontarsi e da cui è difficile uscire, il termine labirinto si usa in senso figurato per indicare una situazione intricata e poco chiara. In anatomia la parola si usa per indicare l’insieme di cavità formanti una parte dell’orecchio.

Incerta l’etimologia del termine labirinto: c’è chi lo fa derivare da labrys, l’ascia bipenne di pietra venerata a Cnosso come attributo di Zeus Ideo, riprodotta nella favolosa reggia di Minosse dalla pianta assai complessa di vastissime proporzioni e che, perciò, si pensa venisse chiamata «palazzo della labrys», da cui labirinto. Pare sia stato Erodoto a usare per primo il termine a proposito di una tomba faraonica composta di 12 grandi sale e 3 mila stanze minori. Plinio il Vecchio poi descrisse come labirinto la tomba monumentale del re etrusco Porsenna vicino a Chiusi. Un’altra etimologia sostiene che il termine sia collegato con un ambiente sotterraneo: labirion significa cunicolo scavato nel sottosuolo, quindi un percorso intricato e complesso in cui il visitatore è portato a perdere l’orientamento. Ancora un’altra etimologia è quella di labra o Laura, indicanti sia la cava, sia la caverna e la miniera e i loro rocciosi cunicoli.