Cultura & Società

Mura di Toscana, una storia di pietra

di Mauro Del CorsoPer noi toscani, in generale, quando si parla di Murate, il pensiero corre veloce alle antiche claustrali fiorentine, il cui magnifico complesso monastico è destinato a diventare uno dei poli innovativi della città del giglio. Ma la toscana è terra di «murate» per ben altri e più radicati motivi: per tutte quelle città, i borghi, le roccaforti – talvolta ancora integri – che costellano con le loro cinte la nostra regione, forse più di altre. Qui, davvero, le città murate, le lucumonie, le polis, i comuni, le repubbliche hanno seguito un percorso plurisecolare di storia, dalle civiltà preitaliche sino al tardo rinascimento.Il viaggio è lungo, misterioso, affascinante, come sempre quando gli itinerari sono sconosciuti ai più: se si esclude Lucca, nota al mondo come la «città dall’arborato cerchio», difficilmente – di primo acchito – ci vien fatto di pensare ad altro. Eppure c’è, magari difficile da individuare – è vero – ma c’è, e che altro!

Dalle mura ciclopiche di Cosa – che fu colonia romana in quel di Maremma già nel 273 a.C. ed avviata al suo declino non dopo il I sec. d.C. – che rappresentano un’avventura anche solo per raggiungerle (ma il premio finale ne è degno), all’imponente e massiccia cortina etrusca del IV secolo a.C. a Volterra, con l’inquietante Porta all’Arco (rimaneggiata dai Romani), in parte reinglobata nella cinta duecentesca dell’antica città-stato divenuta libero comune: dal perimetro murato, ancora intatto, che i Lucchesi vollero a protezione di Castiglione di Garfagnana nel 1370, che ne fa un borgo fuori dal tempo, alla Rocca retta dal governatore estense Ludovico Ariosto, con le precedenti mura di Castruccio (XIV sec.), nella vicina Castelnuovo. E che dire dell’impianto quasi geometrico di Paganico (in provincia di Grosseto), cinto dai senesi nel 1278 e poi, di nuovo, nel 1334, con le sue torri quadrate e le sue porte? O, ancora, dei tratti superstiti delle mura cinquecentesche di Barga – vero gioiello di borgo murato – così come della cortina difensiva di Cascina, voluta dai Pisani nel 1385, che un tempo vantava le sue quattordici torri?

Ma torniamo agli Etruschi – enigmatici e per noi, oggi, ormai silenziosi – da Cortona, con le sue mura a ridosso dello spazio del Duomo (V secolo) fino a Vetulonia, dove forse si ascende al VI, per arrivare a Populonia, con i resti più antichi ormai racchiusi nel borgo murato nel ‘400. Dal temuto presidio murato di Serravalle pistoiese – un altro salto nel tempo – già romano e nel medioevo conteso tra Pistoia, Firenze e Lucca per la sua invidiata posizione – proseguiamo fino a Vicopisano, caduta nel 1407 sotto i Fiorentini, che vi piazzarono Filippo Brunelleschi a ridisegnare e fortificare, con un risultato, oggi, di rara suggestione, ed alla classica San Gimignano – con le sue mura duecentesche e le torri (in parte rifatte) note al mondo – per spingerci al limpido e razionale rettangolo murato del Cinquecento al Borgo, come si diceva un tempo, San Sepolcro.

Chi più ne ha, più ne metta: continuare sarebbe lungo, perfino tedioso per una troppo rapida successione, che vede inevitabilmente delle lacune, anche importanti. Non esiste borgo, in Toscana, che essendo stato insediamento arcaico od etrusco o romano o libero comune o repubblica o signoria non serbi traccia delle sue mura.

Almeno fino alla progressiva campagna della conquista medicea che, in generale, dal Quattrocento in poi egemonizzò l’Etruria: e, anche qui, pure i nuovi duchi e granduchi si dettero da fare a fortificare, rassettare, consolidare borghi e città, stavolta non più con intenti difensivi, ma di controllo sui nuovi sudditi: prova ne siano le bocche di fuoco spesso orientate verso l’interno delle città, non al di fuori.

Questo, almeno, fino ai nuovi tempi «moderni» – generalmente tra la fine ‘800 e l’inizio del secolo successivo – quando molte cinte murarie scomparvero sotto i colpi del piccone ideologico – ma anche di quello materiale – delle nuove filosofie urbanistiche, incompatibili con l’oscurantismo simboleggiato da quei relitti del passato. Non dovunque, non sempre, ma spesso fu così, o ci andammo vicini: basti scorrere le delibere di alcuni Consigli comunali dell’epoca – quasi sempre i Comuni erano e sono i proprietari delle loro mura – che ne auspicavano l’abbattimento. E qui molto merito ebbero gli eruditi locali, gli uomini di studio, gli archeologici che quando poterono salvarono il salvabile.Nella sin troppo fugace corsa tra le mura di Toscana, volutamente, sono stati toccati solo i cosiddetti (a torto) «centri minori», almeno da un punto di vista demografico o turistico, tranne la turrita città di Folgore. Questo per dimostrare che altrove, nei capoluoghi più grandi o più noti, le cortine murarie sono forse più conosciute, tutelate, promosse? Tutt’altro, semmai il contrario: il che è, appunto, una conferma dell’equivoco «monastico» con cui abbiamo aperto.

Tranne – di nuovo – l’anello lucchese, che dalla fine del Cinquecento sostituisce, anch’esso, cerchie precedenti, chi si ricorda, o visita, le mura di Firenze, o di Siena, Pisa, Grosseto come Pistoia? Eppure ci sono, spesso belle, simbolo di secoli di storia, e anche d’arte. Le mura urbane di Pisa, nate sotto il consolato di Cocco Griffi nel 1155, ancora integre per sei chilometri, seppure nascoste e privatizzate da case, orti e giardini: il secondo complesso monumentale della città, dopo quello della celeberrima piazza del Duomo. A Pistoia, la terza cerchia, trecentesca, dopo la resa a Firenze, ancora in gran parte visibile seppur inglobata nel centro urbano, con la fortezza di Santa Barbara (1539), voluta dalla Dominante.

La cinta muraria di Siena (al momento dell’entrata nel granducato (1559) ancora sui sei chilometri) di nuovo con la fortezza fiorentina. Il perimetro di Grosseto – ancora leggibile e percorribile (la passeggiata) – voluto da Firenze entro la fine del 1500, come le «nuove» mura di Arezzo, su commissione di Cosimo I, del 1538, con tratti delle medievali trecentesche dei Tarlati. Ma, ancora, le fortezze di Livorno (la Vecchia e la Nuova) parte del circuito, come a Firenze quel che rimane (e rimane!) delle mura trecentesche, prima dell’abbattimento per la nuova ed effimera capitale, con i suoi viali, per non parlare della Fortezza, ormai vista solo come spazio espositivo od emporio commerciale (come le ultime, sciagurate vicende edilizie – fortunatamente bloccate – documentano).

Intere tribù di turisti transitano sotto quelle mura, le lambiscono, le circuitano; talvolta, ahimè, i loro bastioni ospitano alla base comodi parcheggi: mai che vi fosse qualcuno pronto a coglierne bellezza, imponenza, significato. A tal punto che molte guide turistiche, per tanti borghi murati, a partire da quelli più grandi come i capoluoghi, di mura non parlano nemmeno, se non a livello storico: provate a scorrere l’indice dei monumenti!

Quando le barriereerano la chiave della libertàLe mura nei nostri borghi, dai più remoti di epoca arcaica fino alle cortine medievali, rappresentano un esempio di come, spesso, la realtà, con i secoli, cambi oltreché d’aspetto, anche di significato, talvolta contrapponendone addirittura l’antica ed originaria percezione.

Cinta muraria, infatti, è simbolo di luogo chiuso, recintato, ostico al mondo esterno, e come tale è ravvisato: quando invece il senso di quelle cortine e di quei bastioni era proprio quanto di più opposto esiste a tale concezione. Perché le mura, per quelle genti, assumevano invece il ruolo di quanto ci sia di più prezioso, aperto, condivisibile nella vita: la libertà. Senza quelle difese – e spesso anche con esse – la «libertas» era a rischio, insidiata, preclusa; il loro crollo era, sempre, sinonimo della fine di una vita libera; la loro manutenzione avvertita come un impegno civico condiviso, il primo bene.

Sembra strano, eppure è così: quanto mai, oggi, appare lontano il concetto di libertà in contrapposizione ad un luogo chiuso, così allora quelle pietre ne erano la chiave di lettura. Così come oggi serve ormai l’immagine dei mari caraibici – capelli al vento – per rappresentare una vita libera e svincolata, leggera e sicura, allora era invece una barriera, una difesa a rappresentare il diritto alla propria libertà. Cambiano i tempi, cambiano i segni, in un eterno divenire.

Questo, almeno, fino all’epoca medicea: proprio in quest’ottica di relatività del tempo, quando Firenze fagocita progressivamente la Toscana – con le armi o con i soldi – le mura urbane diventano, invece, il simbolo della fine della propria libertà per i comuni e le repubbliche. Quei bastioni, i paramenti murari, le loro fortezze servono non più a tutelare la propria vita, ma alla Dominante per controllare e scongiurare tentativi di riappropriarsene.Per poi, di nuovo, in epoca moderna, perdere addirittura ogni senso – di tutela o di privazione di una libertà faticosa – per diventare soltanto un emblema oscuro da abbattere, per svecchiare verso future e progressive sorti più radiose.

E questo è ancora più incomprensibile proprio in tempi quale quello post-unitario – dove il simbolo della libertà comunale rifulgeva di nuovi splendori romantici dalla storia alla letteratura – o quello autarchico del ventennio, dove il continuo richiamo alla storia gloriosa della propria autosufficienza politica, economica, culturale e militare avrebbe dovuto riferirsi in primis, proprio da noi, all’epoca dei liberi comuni, di cui invece si demoliscono antiche mura, insieme a laceranti sventramenti dei centri storici.

Ma la Storia, ed i suoi simboli – come quelle mura che ne segnano il dipanarsi nei millenni – va saputa leggere, pur nella sua mutevolezza semantica legata ai tempi.