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Gli esperti bocciano la legge elettorale senza rimpiangere quella precedente

di Andrea ZanottoCome ha funzionato la nuova legge elettorale? Male, per giudizio unanime di alcuni tra i maggiori politologi e giuristi italiani riuniti a Pisa per una giornata di studio organizzata alla Scuola Sant’Anna e presieduta dal prof. Emanuele Rossi. Giudizio prevedibile, visto che neppure tra i politici, a cominciare dal suo estensore, l’ex ministro Calderoli, c’è qualcuno che voglia difenderla. Le critiche non sono state motivate solo dai risultati pratici, numerici, che la legge ha prodotto, ma anche dal modo in cui è stata redatta e approvata.

Andrea Pertici, dell’università di Pisa, ha ricordato come il «Consiglio delle elezioni democratiche» (organismo del Consiglio d’Europa) inviti gli stati membri a non cambiare le proprie leggi elettorali in prossimità delle scadenze elettorali, e in ogni caso a farlo solo quando vi è un accordo tra maggioranza e opposizione. E per Michela Manetti, dell’università di Siena, «il modo veloce in cui è stata approvata» può addirittura «tradursi in vizio costituzionale». In effetti per arrivare rapidamente alla votazione della legge è stato completamente stravolto il calendario dei lavori parlamentari, solitamente rigidissimo, e al Senato non c’è stato addirittura alcun lavoro preparatorio alla discussione in aula e, di fatto, la legge è stata approvata senza alcun reale dibattito.

Insomma è una «legge extraparlamentare, cioè decisa da pochi leader al di fuori dal parlamento», ha sostenuto Roberto D’Alimonte, dell’università di Firenze. Che ha anche definito una «lotteria» il modo in cui si eleggono i senatori. La differenza tra la legge elettorale del Senato e quella della Camera è stato uno degli argomenti su cui più spesso si sono concentrati molti relatori. Così come sulla mancanza di una vera soglia di sbarramento, che è bassa per i partiti che si presentano da soli e di fatto inesistente per i partiti coalizzati. Oppure sulla singolare norma che impedisce di conteggiare il voto dei valdostani al fine di assegnare il premio di maggioranza.

«Ridiamo la cittadinanza italiana ai valdostani», ha scherzato Stefano Ceccanti, della «Sapienza» di Roma. Meno scherzosamente molti relatori si sono concentrati sull’assurdità – per oltre 200 candidati, circa un terzo del parlamento – di attendere che i leader, eletti in più circoscrizioni, optassero per un collegio o per un altro, magari favorendo i candidati della propria corrente. Un potere del resto già esercitato al momento della compilazione delle liste.

Critiche meno nette alla nuova legge sono venute solo dai relatori che si sono concentrati sull’analisi del malfunzionamento del sistema politico italiano, di cui il sistema elettorale è una conseguenza, più che una causa. Così Giovanni Tarli Barbieri, dell’università di Firenze, ha evidenziato come già «la legge precedente avesse reso possibile la creazione delle cosiddette liste-civetta» e come anche nei «vecchi» «collegi uninominali la scelta dei candidati fosse frutto di un accordo preelettorale tra le segreterie dei partiti». Non basta una legge elettorale a indurre i politici a un comportamento «virtuoso». In realtà «la norma – ha detto Carlo Fusaro, dell’università di Firenze – può sì incentivare, indurre, ma poi contano la responsabilità individuale e la cultura politica di un paese».

Affermazione condivisa da Giulio Enea Vigevani, dell’università di Milano-Bicocca, che ha portato ad esempio due grandi paesi europei: Gran Bretagna e Germania. Se il partito laburista inglese si fosse alleato ai liberali – come gli consentiva la legge – avrebbe evitato di stare tredici anni all’opposizione, durante i governi Thatcher e Major, e allo stesso modo i socialdemocratici tedeschi sarebbero stati certi di battere la Cdu-Csu se avessero concesso qualche collegio sicuro ai loro alleati Verdi, in bilico sulla soglia di sbarramento del 5%. Ma sia i laburisti britannici, sia i socialdemocratici tedeschi non hanno accettato compromessi o accordi poco chiari e si sono presentati da soli davanti agli elettori. Scelte però giudicate incomprensibili dallo stesso professor Vigevani: un’alleanza in «stile italiano» sarebbe stata molto più vantaggiosa per quei partiti.