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Ue e Usa: divise dagli esteri, unite dalla democrazia

di Simone PitossiStati Uniti e Europa: i due colossi che si affacciano sull’Atlantico sono uniti dall’idea di diffondere la democrazia nel mondo. Ma c’è un particolare che li divide: il modo di raggiungere questo obiettivo soprattutto dal punto di vista dei mezzi usati. Sono queste le conclusioni emerse dal convegno «La politica di Europa e Stati Uniti di fronte alle sfide della globalizzazione», organizzato da «Eunonomia». Alla tavola rotonda nel Salone dei Cinquecento di Palazzo Vecchio a Firenze hanno preso parte ospiti di rilievo internazionale: gli statunitensi Richard Perle e Michael Ledeen (consiglieri del presidente Bush), il presidente dei Ds Massimo D’Alema, il sindaco di Firenze Leonardo Domenici, il presidente della Regione Toscana Claudio Martini, il professor Alessandro Pizzorno e il presidente della Provincia di Firenze Matteo Renzi. Ha coordinato il dibattito Farian Sabahi , giornalista esperta di politica internazionale.

Gli Stati Uniti «non aspetteranno molto se vedranno che qualcuno li attacca. Anche i giordani la pensano così». Lo ha detto Richard Perle, consigliere per la politica estera di George Bush e intellettuale «neo–con». Perle ha sottolineato che «è impossibile comprendere la politica estera americana degli ultimi anni senza capire cosa ha rappresentato per gli americani l’11 settembre».

Improvvisamente, ha ricordato, il popolo americano si è sentito «vulnerabile» e ha detto rivolto al pubblico presente, «se vedete un missile che sta per colpirvi cosa fate? Cercate di bloccarlo. Noi abbiamo fatto questo». In questo senso, secondo Perle, gli Usa non hanno «imposto la democrazia» in altri Paesi ma hanno «rimosso gli ostacoli sulla strada della democrazia». La cosiddetta «guerra preventiva», dunque, «non è un approccio stravagante e imperialista», ma «la cosa giusta da fare» perché «non vogliamo più essere incapaci di difendere le persone». Perle ha detto di auspicare un «sistema internazionale in grado di proteggere le persone», ma «non lo abbiamo» e «se l’Onu non è in grado di agire, quale possibilità abbiamo?». Ben più duro il giudizio di Michael Ledeen, intellettuale neo-conservatore, secondo cui le Nazioni Unite sono «la più grande organizzazione criminale del nostro tempo». Ledeen ha anche invitato l’Occidente a sostenere la «rivoluzione democratica in atto», denunciando il «mancato sostegno nei confronti dei gruppi che si oppongono ai regimi di Iran e Siria», al contrario di quanto accade, ad esempio, per la Liberia. «Questa ipocrisia – ha aggiunto – ci porterà più bombe e più terrorismo».

Il modello anglosassone basato sull’«etica di potenza» ha «creato più guai di quanti ne ha risolti» ma il modello europeo incentrato sul principio di legalità ha spesso prodotto «impotenza». Ne è convinto il presidente dei Ds Massimo D’Alema. Sul modo di affrontare i problemi e i conflitti internazionali, D’Alema ha ricordato la tradizione europea, basata sull’idea che debba sempre prevalere il diritto, e il modello anglosassone basato sull’«etica di potenza». Entrambi i modelli, secondo il presidente Ds, hanno delle controindicazioni: nel primo caso, infatti, la concezione che il governo del mondo debba basarsi sempre sulla legalità «ha spesso condotto all’impotenza» e «all’immobilismo», mentre nel secondo caso il fatto che la legittimazione ad agire dipenda dall’evidenza che «a decidere sia una grande potenza democratica» conduce alla possibilità che un’azione possa «apparire arbitraria».

Esempio del primo caso è il conflitto nei Balcani dove, ha detto D’Alema, «la lunga impotenza dell’Europa in Kosovo è stata ingiustificata». Esempio del secondo caso, secondo il presidente Ds, è l’attuale conflitto in Iraq. Secondo D’Alema, l’obiettivo di espandere la democrazia «dovrebbe essere comune» a tutte le grandi potenze, ma «esportare la democrazia con le armi non è il modo migliore». Secondo il presidente della Quercia, «Usa e Europa hanno un interesse comune a rafforzare le istituzioni internazionali» perché «il nostro interesse non è approfittare della loro debolezza». Infine occorre una «governance globale» che non riguardi solo la lotta al terrorismo, ma che sia una «strategia per affrontare i grandi problemi del mondo» perché il terrorismo «non nasce dalla povertà», ma «si alimenta di queste contraddizioni».