Mondo

8 marzo: una storia da tramandare e un futuro da costruire

L’8 marzo di questo 2021 è segnato ancora dal Covid-19, che ha accentuato le disuguaglianze e il disagio di quanti si trovano in condizioni di fragilità e delle donne, più esposte sul fronte economico, familiare e sanitario. Non a caso nel rapporto Usa "The impact of Covid-19 on women", il tema gender equality si trova al numero 5 dei 17 Obiettivi di sviluppo sostenibile

Abbiamo visto file di donne – alcune con neonati e figli piccoli – che hanno fatto la fila alla Caritas per un pasto. Molte avevano perso il lavoro anche occupate nei settori assistenziali più colpiti e in generale meno pagati (assistenza all’infanzia, commercio, turismo…). La manodopera retribuita – asili, scuole, babysitter – è stata sostituita da casalinghe che non pesano sui bilanci.

Hanno gravato su donne già stanche del doppio lavoro: la presenza dei figli ‘liberi’ dalla scuola, il maggior carico di lavoro domestico, la chiusura dei centri diurni per persone non autosufficienti, la mancanza di computer o l’incapacità di usarlo. Hanno dovuto fare da docenti, colf, badanti, cuoche, segretarie, animatrici (non in villaggi turistici ma dentro appartamenti persino di 50 mq). Si è inoltre accentuato il divario tra mogli e mariti a vantaggio di questi ultimi, quanto a tempo libero e tempo per i lavori domestici e la cura. Le donne vi dedicano in media 4,1 ore al giorno, gli uomini 1,7. Scontato che le inchieste denuncino il peggioramento della vita quotidiana, in misura del 52,5% contro il 45,2% dei maschi. Manifestano anche una più accentuata valutazione critica dell’operato del governo, tutti segnali da collegare alla rinuncia o al ritardo della maternità, con conseguenze sul tasso di natalità della nazione.

La continua e obbligata convivenza domestica ha accentuato lo scontento nella vita di coppia e i mugugni, soffocati dal turbinio della vita, sono venuti a galla ed esplosi in conflitti violenti. Anche i più ostinati maschilisti si sono vergognati di fronte all’aumento dei femminicidi (boom di chiamate al 1522, numero di femminicidi pari al 50% del totale di omicidi in periodo di lockdown, di cui 90% in ambito affettivo familiare). L’8 marzo invita a guardare al futuro, ma senza trascurare di trasmettere alle ragazze la memoria delle conquiste raggiunte: sino al 1946 non si poteva votare, sino al 1963 non si poteva essere magistrato, sino al 1975 si aveva un capofamiglia cui obbedire e al seguito del quale trasferirsi, sino al 1981 c’erano attenuanti per chi uccideva una donna, sino al 1996 lo stupro non offendeva la persona della donna ma solo la morale, sino al 2021 nella chiesa cattolica non si poteva essere accoliti né lettori. Niente può essere dato per scontato e bisogna difendere i diritti acquisiti per non rischiare regressi che vanificherebbero i traguardi raggiunti.

Non basta però ricordare. C’è ancora da spendersi per raggiungere nuovi obiettivi soprattutto sul piano della cultura della reciprocità, ma anche su giuridico strutturale: migliore ed equo salario, tempi di lavoro più conciliabili con la famiglia, tassazione equa in considerazione dei carichi familiari, ambienti lavorativi meno ostili e gerarchici, giusti riconoscimenti per la professionalità e la correttezza. Ultimamente torna alla ribalta anche la questione del cognome di famiglia, che è ancora quello del marito, imposto per legge e tradizione ai figli e che resta tale anche quando lui abbandona il campo e la moglie cresce i figli da sola chiamandoli col cognome dell’uomo che l’ha ferita. La Corte Costituzionale ha sollevato (11.02.2021) problemi di legittimità di fronte a se stessa, denunciando “una concezione patriarcale della famiglia e una tramontata potestà maritale non più coerente con i principi dell’ordinamento e con il valore costituzionale dell’uguaglianza tra uomo e donna”. 

Non sarà facile, ma qualcosa si muove. Non bastano però leggi e conquiste apicali, le quali anzi possono tramutarsi in boomerang se non poggiano su una solida cultura relazionale in famiglia. Sta a ciascuno, donna e uomo, decide il suo orientamento di fronte alla crisi: subire passivamente, incupirsi e scalpitare, oppure valorizzare le risorse, facendo del confinamento una occasione di rilancio. Non manca chi approfitta del tempo guadagnato per la mancanza del lavoro e della riduzione dello stress da spostamenti per aggiornarsi e acquisire nuove competenze, come l’uso del computer e delle nuove tecnologie, l’apprendimento di una lingua, oppure per fare dei lavori per i quali non si trova mai il tempo, o ancora per rinverdire la vita dello spirito: leggere, pregare.

Le ricerche attestano una maggiore resilienza delle donne: più aperte e positive verso la vita; più rispettose delle norme anti Covid e, secondo l’Osservatorio Giovani del Toniolo, per il 45% più capaci di valorizzare la vita (6 punti in più rispetto ai maschi), il senso di vicinanza e di solidarietà. Queste attitudini positive sono fondamentali per lavorare a quella tessitura di rapporti, che è tipicamente femminile e che richiede forza e pazienza nel conquistare e ‘convertire’ dal maschilismo uno ad uno i prossimi con cui si ha a che fare. Occorre alternare i registri della comunicazione a seconda delle situazioni e delle risposte, dosando difesa della dignità e pazienza dei tempi e dei consensi. L’amore a cui il cristianesimo invita è anche intelligenza in questa arte di amare prevenendo conflitti, costruendo nuove intese, ricomponendo scissioni, costruendo per quanto possibile, istituzioni più giuste. Non c’è conquista che non sia ‘travaglio’. In francese la parola evoca lavoro e parto e nessun parto è indolore. Le buone relazioni non si comperano ai saldi. Esigono il travaglio del generare, metafora di una vita buona che esige l’impegno di ogni persona in ogni ambito della vita laica e cristiana. Ciascun essere umano, come anche le società e la Chiesa danno senso alla vita se adottano il registro materno, ossia se fanno proprio il nucleo dell’identità femminile. Lo intuì Salomone, quando si appellò alla logica della maternità per risolvere la contesa tra due donne, prevedendo che la madre vera avrebbe preferito lasciare alla nemica il figlio e la vittoria, pur di salvare la vita del bambino. Lo ha ben compreso San Paolo: “Figli miei per i quali continuo a soffrire le doglie del parto finché non sia formato Cristo in voi” (Gal 4, 19).