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È in gioco la salute, Stato e Regioni devono lavorare per i cittadini

Tutto ha preso avvio (sul piano normativo e istituzionale) dalla Delibera del Consiglio dei ministri del 31 gennaio 2020, che ha stabilito «lo stato di emergenza in conseguenza del rischio sanitario connesso all’insorgenza di patologie derivanti da agenti virali trasmissibili». Quindi uno stato di emergenza (successivamente prorogato con delibere 29 luglio e 7 ottobre) dovuto a motivi sanitari.

Punto secondo. La Costituzione stabilisce che la materia «tutela della salute» è di competenza concorrente: il che significa che alle Regioni spetta la potestà legislativa, «salvo che per la determinazione dei principi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato». A ciò si aggiunga che la deliberazione dello stato di emergenza investe molte altre materie sulle quali le Regioni hanno competenza (ad esempio, tutela e sicurezza del lavoro; istruzione; protezione civile; valorizzazione dei beni culturali e ambientali, e così via): il che rende inevitabile una sovrapposizione tra Governo nazionale e Regioni.

All’interno di tale contesto costituzionale, il decreto-legge n. 19 del 2020 ha previsto, come noto, l’adozione di Dpcm per introdurre misure di contenimento della pandemia, e ha specificato che tali decreti devono essere adottati previo parere delle regioni interessate. Inoltre, è stata attribuita alle regioni la possibilità di adottare, nelle more dei Dpcm, «misure ulteriormente restrittive» nel proprio territorio, «in relazione a specifiche situazioni sopravvenute di aggravamento del rischio sanitario». Sappiamo che alcuni di questi provvedimenti sono poi stati annullati dai giudici: tra questi, l’ordinanza della Calabria che, durante il primo lockdown, aveva riaperto le attività di ristorazione con tavoli all’aperto; oppure quella della Sicilia che ordinava lo sgombero degli hotspot e dei centri di accoglienza dei migranti al fine di garantire la salute e l’incolumità pubblica.

Al di là del dato giuridico, vi è poi un dato politico complessivo di cui occorre tenere conto. Le Regioni hanno il compito di rappresentare la comunità regionale e di curarne i relativi interessi, e il presidente e i consiglieri regionali sono eletti a tale scopo direttamente dai cittadini. Il che attribuisce alle amministrazioni regionali, in quanto politicamente responsabili verso chi li ha eletti, il potere di adottare le misure che esse ritengono necessarie per il bene della propria comunità.

Tutto ciò rende, come è facile intuire, delicato l’equilibrio delle relazioni fra Stato e Regioni, e il criterio della separazione delle competenze non aiuta sempre (forse, quasi mai) a definire con chiarezza «chi fa cosa». Per questo, fin dall’inizio la Corte costituzionale ha auspicato che, nell’applicazione della legge, i rapporti tra lo Stato e le Regioni siano improntati «assai più che a una gelosa, puntigliosa e formalistica difesa di posizioni, competenze e prerogative, a quel modello di cooperazione e integrazione nel segno dei grandi interessi unitari della Nazione» (così, esplicitamente, la sentenza del 25 luglio 1984, n. 219: ma il principio è espresso da pronunce anche precedenti).

Questa, e non altra, è la prospettiva cui si deve guardare: nella consapevolezza che essa non mette al riparo da rischi di interferenze e sovrapposizioni, ma con la convinzione che soltanto remando tutti nella stessa direzione, evitando quanto più possibile personalismi e gelosie, si possono superare possibili conflitti. Specie quando, come nella vicenda attuale, è in gioco la vita e la salute delle persone: al cui servizio tutte le istituzioni sono poste.