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Fiorentina-Juventus e il tifo che può essere scuola di vita

E che nel nostro Paese conosce da sempre picchi incredibili. Se n’è accorto anche il neoallenatore dell’imbattuta Roma, il franco-spagnolo Rudy Garcia. <Cosa mi ha sorpreso di più?>, ha dichiarato commentando i suoi primi mesi in panchina: <La presenza mediatica e il fervore della gente. Io sono più equilibrato, ma è una soddisfazione riaver dato il sorriso ai tifosi: quando sono arrivato c’era un clima negativo intorno a giocatori e dirigenti, la gente vive per la squadra. Qui nell’ordine c’è la Roma, la moglie e poi la religione>. Che detto tra noi, se fosse davvero al terzo posto sarebbe già qualcosa.

Se questa è Roma, Firenze non è certo da meno, anzi. Soprattutto quando all’orizzonte ci sono le maglie bianconere della Juventus, la rivale di sempre, lontana un abisso quanto a palmares ma forse proprio per questo bersaglio prediletto di sfottò e strali di varia natura. Nell’immaginario collettivo, è la battaglia della città con un passato ricco d’ingegno, d’arte e di storia, culla dello stesso antenato del calcio, contro la squadra del potere economico, oggetto di chissà quali e quanti favori, inspiegabilmente amata in tutta Italia e anche in mezza Toscana. Quella che magari ce l’ha con il capoluogo e fa anche del calcio un contraltare.

Con queste premesse, ben note anche a chi non segue tanto gli eventi del pallone, non è esagerato dire che quello che è successo ieri allo stadio Franchi è destinato a restare nella storia. Emozioni indimenticabili, dicevamo, sia per chi ha trionfato che per chi è uscito sconfitto. Certamente di segno diverso, ma con la comune consapevolezza che una partita così, tra due squadre di serie A, sarà difficile rivederla. Da 0-2 a 4-2 in una manciata di minuti, con gli ultimi tre gol a raffica, a un paio di minuti l’uno dall’altro. Nessun fiorentino avrebbe osato sognarlo non solo alla fine del primo tempo e tantomeno quando i cosiddetti <gobbi> hanno a più riprese sfiorato il 3-0, ma neppure in tempi più tranquilli o più esaltanti, come dopo l’annuncio dell’acquisto di Mario Gomez.

E dire che era in tribuna a fare il tifo, il bomber tedesco, ancora convalescente per l’infortunio rimediato alla terza giornata contro il Cagliari. Accanto a lui come al solito la bella Carina, nome che visto il soggetto sa tanto di diminutivo. Anche loro entusiasti, alla fine, come gli altri vip in tribuna, dal sindaco Renzi a Diego Della Valle. Il fratello Andrea no, lui era completamente impazzito come le decine di migliaia di tifosi viola, tanti dei quali hanno poi definito questo giorno come uno dei più belli della loro vita.

Esagerazioni, perdita del senso della misura e di una corretta scala dei valori, come faceva intendere Garcia? Certo, può darsi. Ma il calcio, soprattutto in momenti come questo, può essere anche un simbolo dell’impresa sempre possibile, dell’importanza di non mollare mai, di crederci sempre e comunque, soprattutto quando dentro il trionfo c’è un altro simbolo divenuto realtà. Non c’era il <fusto> Gomez in campo ma c’era Giuseppe Rossi, con quella faccia un po’ così e il suo fisico da persona normale, con il crociato rotto due volte ormai alle spalle ma la condizione ancora non al 100% e una brutta botta rimediata all’inizio della partita. Rossi che ne ha fatte tre e che non dimentica di esultare indicando il cielo, da dove lo guarda papà Fernando, scomparso tre anni e mezzo fa. Pepito Rossi che porta la maglia numero 49, l’anno di nascita del genitore. Perché il tifo può essere malattia, follia, esagerazione ma il calcio può essere anche una grande scuola di vita. Da cui sia chi vince che chi perde può imparare, e allora è bello anche essere rivali.