Opinioni & Commenti

Libia, non è così che si fa «ingerenza umanitaria»

Romanello Cantini

Le guerre più lunghe e più sanguinose degli ultimi cinquanta anni sono state le guerre civili anche se la gente non se lo ricorda non solo perché sono state guerre lontane, ma perchè sono state guerre ignorate. Le guerre fra stati, anche per l’intervento della comunità internazionale, molto spesso sono durate delle settimane e talvolta appena dei giorni. Ma, per esempio, la guerra nel Guatemala è durata trenta anni, quella in Angola venticinque, quelle in Mozambico e in Sudan venti. E queste guerre hanno fatto in genere più di un milione di morti per arrivare ai tre milioni di vittime della guerra nel Congo a cavallo fra i due millenni. Rispetto a queste guerre intestine la comunità internazionale, compresa l’Onu, finora  è stata a guardare. Anzi spesso si è voltata dall’altra parte.

Le Nazioni Unite, anche se erano l’organo teoricamente preposto alla pace in tutto il pianeta, non potevano interessarsi ai conflitti e alle repressioni interne in base all’articolo 2 della sua carta che gli impedisce di «intervenire in questioni che appartengono essenzialmente alla competenza interna di uno stato». Contro questa impotenza dell’Onu a intervenire sui peggiori massacri compiuti al riparo dei confini di uno stato ha condotto a suo tempo una lunga battaglia il segretario dell’Onu Kofi Annan che nel 2005 riuscì a strappare un voto dell’Assemblea che consente l’interferenza umanitaria dentro uno stato in caso di pulizia etnica e di crimini contro l’umanità. La risoluzione dell’Onu che ha permesso l’intervento in Libia rappresenta ora la prima applicazione concreta di questo principio anche se l’approvazione della decisione è avvenuta con la mancata convinzione delle molte astensioni e anche se le vittime di Gheddafi non sono certamente comparabili ai tributi di sangue ricordati sopra.

Tuttavia un intervento in una guerra civile non si fa necessariamente con gli aerei e con le bombe lanciate da cinquemila metri di altezza. Ci sono molti altri modi. Si può pensare a forze di interposizione e di separazione a carattere difensivo sul terreno, a corridoi umanitari per proteggere e aiutare le popolazioni, ad operatori di pace anche non militari che cercano di ricomporre una società lacerata. Erano queste fra l’altro le modalità con cui papa Giovanni Paolo II intendeva l’ingerenza umanitaria quando lanciò l’idea durante la guerra in Bosnia.

Ma purtroppo oggi l’Occidente non sembra saper fare altro che la guerra anche per ottenere la pace. E la cosa ancora più singolare è che l’Occidente intende la guerra come un qualcosa che si fa e non si subisce, con prezzi anche di vite umane per l’avversario, ma a «costo zero» per sè avvalendosi della enorme superiorità tecnologica. Così si è scelto di intervenire in Libia attraverso la non fly zone, che, se non è la modalità più giusta e più efficace, è certamente la più comoda. L’esempio a cui ci si ispira è in sostanza la guerra per il Kosovo di dodici anni fa quando in due mesi gli aerei della Nato condussero trentatremila raids sulla Serbia senza perdere nemmeno un pilota.

Ma non è detto che Gheddafi si arrenda di fronte ai bombardamenti come allora si arrese Milosevic. Quel che sappiamo della protervia del personaggio sembra dirci il contrario e le ultime notizie ci dicono che il rais libico, se non può riconquistare il paese dall’aria, dove non può far nulla, tenta di riconquistarlo via terra, dove le potenze occidentali hanno le mani legate. Il rischio grave è che ci si sia cacciati in una via senza uscita. Il pericolo peggiore è che lentamente Gheddafi riesca a riconquistare il paese visto che le potenze occidentali non possono scendere a terra anche se lo volessero perché l’intervento sul terreno è escluso dalla deliberazione dell’Onu ed è osteggiato non solo dall’Unione Africana, ma anche dalla Lega araba e dagli stessi ribelli libici. L’altro sbocco può essere la divisione permanente del paese in due, con la vecchia separazione fra Cirenaica e Tripolitania, con uno smacco di fatto dell’intervento internazionale e un grave fattore di instabilità in tutto il Nordafrica. Un’altra via di uscita potrebbe essere quella di affidare ai ribelli libici il compito immane di liberare tutto il loro paese anche se apparirebbe perlomeno strano che, dopo essere intervenuti in Libia per proteggere i cosiddetti « civili» da una guerra si chiedesse a questi civili di smettere di essere tali e di farsi anche loro la loro brava guerra. L’ipotesi migliore è che Gheddafi se ne vada anche se non riusciamo a immaginare quando e come. Ma in questo caso non ci saremmo sbagliati sulla Libia. Avremmo preso un granchio su Gheddafi.