Opinioni & Commenti

Un digiuno per cambiare il mondo

di Giulio AlbaneseOggi, mercoledì delle Ceneri, è una giornata ‘forte’ in cui la preghiera e il digiuno assumono un significato che va ben al di là di quanto tradizionalmente attribuiamo a queste parole. Non perché la preghiera odierna sia più efficace, o il digiuno rappresenti in questa circostanza un sacrificio maggiormente oneroso. Ciò che il Papa chiede a ciascuno di noi, all’inizio del cammino quaresimale, va visto nell’ambito del tetro scenario che sembra profilarsi all’orizzonte.

“Da mesi la comunità internazionale vive in grande apprensione – ha detto domenica scorsa Giovanni Paolo II prima dell’Angelus – per il pericolo di una guerra che potrebbe turbare l’intera regione del Medio Oriente e aggravare le tensioni purtroppo già presenti in quest’inizio del terzo millennio”. In questa prospettiva, aveva spiegato, “è doveroso per i credenti, a qualunque religione appartengano, proclamare che mai potremo essere felici gli uni contro gli altri; mai il futuro dell’umanità potrà essere assicurato dal terrorismo e dalla logica della guerra”.

Ecco perché oggi imploreremo con lui “la conversione dei cuori e la lungimiranza delle decisioni giuste per risolvere con mezzi adeguati e pacifici le contese, che ostacolano il peregrinare dell’umanità in questo nostro tempo”. Al di là di ogni retorica, siamo tutti chiamati a definire una strategia d’intenti che possa essere la feriale celebrazione del sì alla vita in evidente contrasto con le menzogne di chiunque intenda ergersi a paladino di un presunto ‘bene’ o di un evidente ‘male’.

“Come cristiani non possiamo rimanere indifferenti” aveva dichiarato nei giorni scorsi con fermezza, padre Agostino Rigon, saveriano, presidente della Conferenza degli Istituti Missionari in Italia (Cimi), ribadendo la condanna al terrorismo e ad ogni forma di violenza, ma al contempo associandosi alle parole di Giovanni Paolo II proferite il 13 gennaio scorso di fronte al corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede: “Mai la guerra – aveva detto il Pontefice in quella occasione – può essere considerata un mezzo come un altro, da utilizzare per regolare i contenziosi fra le Nazioni. Come ricordano la Carta dell’Organizzazione delle Nazioni Unite e il Diritto internazionale, non si può far ricorso alla guerra, anche se si tratta di assicurare il bene comune, se non come estrema possibilità e nel rispetto di ben rigorose condizioni, né vanno trascurate le conseguenze che essa comporta per le popolazioni civili durante e dopo le operazioni militari”.

Se le missionarie e i missionari che operano ovunque nel nostro povero pianeta hanno deciso di associarsi alla richiesta di preghiera e digiuno espressa dal Santo Padre è perché credono, con il Successore di Pietro, che il miglior deterrente ad ogni forma di conflitto sia la Pace che solo Dio può dare. Una pace fondata, come peraltro affermato dallo stesso Papa nel messaggio per la Giornata mondiale della pace, sulle quattro precise esigenze dell’animo umano: “verità, giustizia, amore e libertà”. Di fronte a quanto sta accadendo sul versante iracheno ed in altre periferie del mondo, non basta semplicemente dire ‘no alla guerra’ come se questo servisse a risolvere i problemi di tanta umanità dolente. In molti casi, ed è l’esperienza di numerosi missionari a raccontarlo, l’assenza di lotte armate non coincide necessariamente con l’avvento della pace. La povertà infatti, spesso uccide più delle bombe. Vi sono poi purtroppo ancora troppi cosiddetti ‘Paesi democratici’, è bene rammentarlo, che non hanno ratificato trattati importanti per la Pace: vale a dire quelli di Ottawa sull’abolizione delle mine anti-uomo e di Roma sul Tribunale penale internazionale permanente, o perfino la Convenzione sui diritti del fanciullo.

Ciò significa che mentre i terroristi e quanti li hanno coperti vanno severamente puniti e condannati per i loro crimini orrendi, nello stesso tempo però anche noi occidentali dobbiamo interrogarci sulle nostre responsabilità in questa esplosione irrazionale di terrorismo. Il nostro egoismo, la nostra chiusura all’altro sono radici che alimentano l’odio e solo attraverso il leale riconoscimento delle responsabilità degli uni e degli altri sarà possibile tornare a stringerci la mano.

I missionari e le missionarie che vivono nel Sud del mondo, in quelle periferie dove la sofferenza appartiene alla ferialità della vita, credono che si tratti di una bestemmia: contro Dio e contro l’uomo. Dalla Repubblica Democratica del Congo al Sudan, dalla Costa d’Avorio al Burundi, dalla Repubblica Centrafricana alla Colombia, dall’Isola filippina di Mindanao allo Sri Lanka delle Tigri Tamil… sono tutte guerre dimenticate i cui morti vanno pianti con lo stesso cordoglio espresso per le vittime delle ‘Twin Towers’. La liturgia odierna ci rammenta che “siamo polvere” e “polvere ritorneremo”, poco importa se nati a Baghdad o a New York, al centro o in periferia. (Misna)