Vita Chiesa

Natale: card. Betori, la dignità della persona va sempre difesa

<<Per ultimo, ma non da ultimo, il mistero del Dio incarnato, offerto a noi dal grembo di Maria, è la ricostruzione della pienezza dell’immagine divina impressa dal Creatore nelle sue creature, la pienezza dell’umano, il vero volto dell’uomo in ogni condizione di vita. È un richiamo a sentire la responsabilità a far sì che nessuno sia privato delle condizioni in cui dare corpo alla dignità iscritta in ogni persona, con una particolare attenzione verso chi è più ai margini, chi subisce privazioni, che soffre per il prepotere di altri>>. Lo ha detto l’arcivescovo di Firenze, card. Giuseppe Betori nell’omelia pronuncata ieri sera alla messa della notte in Duomo. <<Ma la dignità della persona – ha proseguito Betori – va difesa anche da tutti i tentativi di ridurla a strumento di progetti consumistici e di potere, come pure di farne preda di volontà di potenza, di abbandono di riferimenti etici, di dispersione in confuse esperienze senza orientamento>>.

 

Di seguito l’omelia

Quando scava nel profondo del proprio cuore, l’uomo sente quanto lo opprimano le tenebre di cui ha parlato Isaia in apertura del suo testo profetico. Spesso ci sentiamo anche noi un popolo che cammina «nelle tenebre» (Is 9,1); è lo spaesamento che ci opprime quando prendiamo coscienza delle nostre fragilità, personali e sociali, un insieme di debolezze e ferite che quando prendono la forma delle relazioni tra i popoli possono giungere, e giungono, fino alle guerre.

Il peso dell’incompiutezza umana, di questa radicale povertà che tutti ci lacera e ci frena, negli animi più avvertiti, in chi non vuole lasciarsi vincere, diventa il punto di partenza verso una vita che giunga a pienezza. Ed è a questo punto che ci si rende conto che la vita non è piena fino a quando non tocca l’Assoluto. Il nostro desiderio più profondo e più vero è di raggiungere Dio, il cielo, anche quando non lo si chiami così.

Noi vogliamo il cielo, «trasumanar» direbbe Dante (Par. I, 70), che è tutto il contrario di quel che vorrebbe il transumanesimo che vorrebbe diventare il nostro futuro: non la negazione dell’umano, con il suo limite, per un approdo tecnologico e quindi necessitante della vita, ma il pieno compimento di questa nella libera adesione al divino. Noi vogliamo il cielo, e un segno ne sono le nostre cupole, la nostra cupola, di cui abbiamo appena celebrato i seicento anni dal suo cominciare a innalzarsi a opera di Filippo Brunelleschi. La nostra ricerca di Dio si innalza fino al cielo nel nostro cuore e nel segno che ci è stato dato a emblema della nostra città.

          Ma questa nostra cupola, come ci ha insegnato nei giorni scorsi il poema di Davide Rondoni, unisce un duplice movimento, perché se da una parte essa esprime il nostro desiderio di innalzarci, dalla nostra povera umanità, verso Dio, al tempo stesso si presenta a noi come il segno di un movimento inverso, del chinarsi di Dio verso di noi, fino a farsi uno di noi nel grembo di Maria ed essere da lei donato a noi, nella nascita del Verbo di Dio fatto carne, il mistero di questa notte:

«Qui cielo viene giù

in Maria del Fiore

precipita lui, cielo

giù dal cielo per amore»,

canta il poeta e, cogliendo nella forma della cupola l’ardita analogia con il grembo di Maria colmo del Figlio di Dio, ci invita a trasformare il nostro temerario desiderio di Dio nell’umile accoglienza di lui che ci si dona:

«la cupola è il suo ventre

incinta, lievitato

cielo qui, lì, in lei

cielo, il suo segreto

s’è incarnato…

fugge da ogni parte

il filo delle parole,

ma questa cupola, sai, guarda su

è cielo venuto giù

in poca paglia, mangiatoia

cielo ride come un bimbo

e in croce fino a che muoia

cielo sanguina e grida come uomo

la cupola è lei, la ragazza incinta»

          Siamo grati a Filippo Brunelleschi e ai nostri antichi per aver avuto l’ardire di innalzare questa meraviglia e donarla alla nostra contemplazione, così da dare plastica evidenza al mistero grande dell’incarnazione di Dio, del suo desiderio di farsi ospite della nostra umanità. Un mistero che continua nel tempo, oltre la notte di Betlemme, e che va accolto e vissuto nella fede.

Questo accade anzitutto ogni volta che la Parola, il Verbo viene proclamato. L’esperienza dell’ascolto e dell’accoglienza della parola di Dio è la prima modalità con cui nei secoli la presenza del Verbo viene a illuminare la nostra esistenza. È la luce che avvolge i pastori, è la luce che il profeta promette al popolo nelle tenebre: «Su coloro che abitavano in terra tenebrosa una luce rifulse» (Is 9,1). È la luce del Vangelo, pensiero di Dio incarnato nelle vicende e nelle parole umane. È Natale se questa luce rifulge sul nostro cammino e diventa criterio di discernimento dei passi da compiere, come singoli e come comunità, ecclesiale e civile.

          La presenza del Verbo incarnato ci viene poi donata nella forma misteriosa ma tangibile di un pezzo di pane e di sorso di vino che sotto questa cupola e in tutte le chiese del mondo si fanno Carne e Sangue di «cielo», che non rifiuta l’abisso ultimo dell’esperienza umana, la morte. È Natale se nella nostra partecipazione all’Eucaristia il rito si traduce in vita e ci incarniamo anche noi nelle sofferenze dell’umanità, partecipi del mistero d’amore con cui Cristo trasforma la Croce in Risurrezione.

          Mistero di incarnazione è ancora il dare forma al corpo di Cristo lungo la storia. Il suo farsi uomo si realizza nel corpo del Bambino di Betlemme, ma la sua presenza fisica nel mondo non si esaurisce nella sua ascensione di Risorto nel cielo, bensì continua nel suo corpo che è la Chiesa, un corpo che fa somma di tutti i suoi discepoli lungo i tempi, anche noi, pur con tutte le nostre fragilità e i nostri peccati. Occorre sentirsi responsabili di dare visibilità alla presenza di Cristo nella storia, come corpo di lui che è il nostro capo. L’incarnazione del Figlio di Dio diventa così nostro compito. È Natale se sentiamo la missione di edificare il corpo di Cristo per dare testimonianza visibile di lui e del suo amore nel mondo.

          Per ultimo, ma non da ultimo, il mistero del Dio incarnato, offerto a noi dal grembo di Maria, è la ricostruzione della pienezza dell’immagine divina impressa dal Creatore nelle sue creature, la pienezza dell’umano, il vero volto dell’uomo in ogni condizione di vita. È un richiamo a sentire la responsabilità a far sì che nessuno sia privato delle condizioni in cui dare corpo alla dignità iscritta in ogni persona, con una particolare attenzione verso chi è più ai margini, chi subisce privazioni, che soffre per il prepotere di altri. Ma la dignità della persona va difesa anche da tutti i tentativi di ridurla a strumento di progetti consumistici e di potere, come pure di farne preda di volontà di potenza, di abbandono di riferimenti etici, di dispersione in confuse esperienze senza orientamento.

          Abbiamo bisogno di questa presenza di Dio che Maria ci offre, del cielo che matura nel suo grembo per nascere a Natale e per rinascere sempre. Lo invochiamo ancora con le parole del poeta:

«Vieni cielo, vieni sempre

nelle nostre più segrete solitudini

nelle gioie e nelle moltitudini

di pene, nel silenzio, nel rumore

vieni cupola dipinta, bella ragazza

incinta

visita le nostre stanze, cielo dei cieli

di Firenze

supplicato, inaspettato

vieni cielo, cielo vieni, vieni sempre!».

 

 

Giuseppe card. Betori