Vita Chiesa

Sinodo Amazzonia: card. Gracias, «non ci sono problemi per un rito amazzonico»

«Non ci sono problemi dal punto di vista teologico e liturgico». Così il card. Oswald Gracias, arcivescovo di Bombay, ha risposto ad una domande dei giornalisti sulla possibilità, ventilata durante il Sinodo in corso in Vaticano fino al 27 ottobre, di introdurre un «rito amazzonico», per rispondere all’esigenza di inculturazione della fede in Amazzonia. «Dobbiamo impegnarci per avere metodi di formazione inculturati nei seminari, con orari e organismi adatti alla vita dei popoli indigeni», la proposta di Gracias, secondo il quale l’introduzione di un rito amazzonico potrebbe essere l’occasione di «cambiare mentalità per rivitalizzare la vita cristiana. È la direzione verso cui siamo andando».

Sulla necessità di «rivedere quanto fatto finora» per la formazione dei seminari si è soffermato anche don Zenildo Lima da Silva, rettore del seminario São José di Manaus e vice presidente dell’Organizzazione dei seminari e istituti del Brasile. «Non si tratta di costruire ricette, ma di ripensare un percorso partendo dalla dinamica della sinodalità», ha spiegato Lima da Silva a proposito di Manaus, città di due milioni di abitanti con oltre 50 seminaristi provenienti dalle grandi metropoli ma anche dalle comunità fluviali e indigene. «Non possiamo più affidare la formazione ad un gruppo selezionato di formatori che faccia pressione sui giovani», il monito: «Dobbiamo dialogare col mondo: abbiano una difficoltà nel comunicare con un mondo dove il pensiero è sicuramente fragile, dominato da fake news, da speculazioni, più che mosso dalla volontà di operare per la verità».

«L’Amazzonia è un’armonia di vita: da loro ho imparato a vivere nel cuore della regione senza distruggerla». Lo ha detto ai giornalisti mons. Gilberto Alfredo Vizcarra Mori, vicario apostolico di Jaén e vescovo titolare di Autenti, in Perù: «Mi sono preparato al Sinodo andando a vivere per un mese nella foresta. Ho parlato con le comunità, ho vissuto con loro: non sono andato per insegnare, devi dipendere da loro per vivere nella foresta amazzonica. Sono rimasto sorpreso di vedere come siamo lontani da queste popolazioni: loro non si sentono i padroni, ma i guardiani della foresta. Noi invece ci sentiamo i padroni, in grado di modificare le cose senza pensare alle conseguenze, che possono essere positive o negative. Dobbiamo riconquistare il rispetto per questo mondo, cercando di vivere in armonia con i valori e la vita di queste popolazioni».

«Il diritto canonico e la teologia possono fare molto di più per promuovere il ruolo delle donne nella Chiesa». Ne è convinto il card. Oswald Gracias, arcivescovo di Bombay, che rispondendo alle domande dei giornalisti ha ricordato che «il diritto canonico, per le donne, prevede tutto, tranne che ascoltare la confessione e celebrare la Messa». Ci sono tante cose in più che si possono fare per le donne, e dobbiamo farlo», la tesi del cardinale, che ha sottolineato: «Il Papa vuole un decentramento. Noi vescovi non stiamo sfruttando tutte le possibilità che abbiamo a disposizione per promuovere questo processo».

«Nella Chiesa, chi porta avanti il processo di evangelizzazione e di cura sono le donne», ha testimoniato suor Roselei Bertoldo, della rete «Un grido per la vita», impegnata nella lotta al traffico di persone: «Noi siamo la Chiesa e facciamo la Chiesa: il fatto che siamo state chiamate al Sinodo non solo a partecipare, ma ad essere parte attiva del processo sinodale è un frutto del fatto che noi reclamiamo di diventare protagoniste». «Noi chiediamo di partecipare più efficacemente anche a livello delle decisioni», l’appello della religiosa: «Stiamo cominciando a fare questo camino: non stiamo zitte, vogliamo uno spazio e cominciamo a costruire questo spazio».

«Il ruolo attivo delle donne nella vita della Chiesa non è proibito», ha fatto notare don Zenildo Lima da Silva: «Le nostre strutture sono fatte in tal modo che solo certe persone hanno un potere decisionale, ed è questo che dobbiamo cambiare. Il Consiglio pastorale in parrocchia, ad esempio, ha un potere solo consultivo, ma niente e nessuno impedisce che diventi deliberativo». «Il processo sinodale non è solo camminare insieme, ma camminare insieme e decidere insieme, se non vogliamo zoppicare», ha concluso don Lima da Silva: «E questo significa che bisogna riconoscere alle donne anche un ruolo decisionale». Mons. Ricardo Ernesto Centellas Guzmán, vescovo di Potosí e presidente della Conferenza episcopale della Bolivia, ha citato l’esempio della sua vicaria pastorale: «Il modo in cui chiama la comunità a partecipare è diverso da come lo potrebbe fare un uomo: non cerca di imporre le proprie idee, ma convoca le persone per avere suggerimenti. È la comunità che ha un potere decisionale, non soltanto alcune persone». «La partecipazione delle donne alla vita della società e della Chiesa è una questione di mentalità», ha aggiunto: «Tutti abbiamo bisogno di cambiarla. Le donne che partecipano alla vita della Chiesa sono la maggioranza, ma la loro considerazione è molto scarsa, sono quasi invisibili. Se noi non cambiamo le strutture, il nostro modo di organizzarci, le cose non cambieranno. Non c’è bisogno che il Vaticano ci dia indicazioni: è della parrocchie che dobbiamo cominciare».

«In tutti i Paesi dell’America Latina si possono attivare politiche pubbliche per offrire assistenza alle persone vittime della tratta». A lanciare la proposta è stata suor Roselei Bertoldo, della Rete «Un grido per la vita», impegnata nella lotta al traffico di persone. «Il Sinodo porta la sua attenzione sugli abusi, sullo sfruttamento delle donne e sulla tratta degli esseri umani», ha testimoniato la religiosa: «è un modo per dare visibilità a questa realtà. Noi lavoriamo nella Chiesa per la sensibilizzazione a questa realtà». In Brasile, ha raccontato suor Roselei, «la tratta è un delitto molto invisibile e poco notificato, legato allo sfruttamento sessuale delle bambine e delle donne e in particolare alla questione della servitù domestica: le bambine indigene vengono ospitate nelle case per farle studiare, ma in realtà finiscono per essere sfruttate sessualmente e diventano vittime del lavoro infantile più schiavo». Quello di «Un grido per la vita» è dunque «un lavoro di sensibilizzazione e formazione delle persone, affinché siamo in grado di denunciare la realtà di cui sono vittime. Molte donne non hanno il coraggio, perché si tratta di un reato che toglie loro la dignità. Così finiscono per cadere in una trappola: quando prendono coscienza del loro sfruttamento, perdono la dignità e non riescono a denunciare. Parallelamente c’è il traffico della droga». «Il nostro è un lavoro di sensibilizzazione delle donne e delle bambine perché riconoscano le forme di abuso e sfruttamento», ha spiegato la religiosa soffermandosi sull’importanza del lavoro in rete, ad esempio nelle parrocchie: «Quando le persone sono informate, cominciano a sospettare quello che potrebbe essere un caso di tratta e fanno la denuncia». «Allertare i giovani su quanto grandi siano le reti di adescamento, la più grande delle quali sono i social», l’appello di suor Roselei: «La Chiesa deve continuare a svolgere un ruolo di prevenzione e anche di presenza politica, nei luoghi dove possiamo arrivare».