Opinioni & Commenti

Il mondo rinuncia a combattere la fame

di Romanello Cantini

L’ultimo vertice della Fao dimostra non solo che stiamo perdendo la battaglia contro la fame nel mondo, ma che forse stiamo ormai rinunciando anche a combatterla.Il progetto per estirpare la fame nel mondo fu presentato al vertice della Fao del 1996. Si promise allora che gli ottocento milioni di affamati sarebbero stati dimezzati entro il 2015 e la fame sarebbe del tutto scomparsa entro il 2025. Ma già al vertice di sei anni dopo ci accorse che si sfamava troppo poco.

I denutriti diminuivano solo di sei milioni all’anno. Con quel passo la fame sarebbe durata ancora per più di cento anni. Ma dopo il ritardo è arrivato addirittura il fallimento. Negli ultimi quattro anni i senza cibo anziché diminuire sono tornati ad aumentare. Sono addirittura cresciuti di settanta milioni nell’ultimo anno per raggiungere ormai la cifra tonda di un miliardo.

La crisi finanziaria mondiale, accorciando la coperta per tutti, ha lasciato nudo chi era coperto appena quanto bastava a sopravvivere. La previsione dell’aumento della popolazione e dei consumi di alcuni grandi paesi emergenti ha spinto a speculare sulle materie prime. Il costo del riso, il cibo più diffuso, è raddoppiato nell’ultimo anno. Le multinazionali comprano milioni di ettari di terreno in Africa per dare da mangiare ai loro clienti mondiali fra cui gli africani saranno sempre in coda. È ormai opinione sempre più diffusa che per nutrire una umanità che alla metà del secolo supererà i nove miliardi di persone ci vuole una solidarietà nuova, una responsabilità che sia anche rinuncia, una riconversione nelle abitudini di vita, un riequilibrio nei consumi che, per esempio, riduca per tutti le calorie soprattutto di origine animale. Come ha detto il Papa nel suo intervento al vertice (testo integrale): «Occorre un cambiamento negli stili di vita personali e comunitari nei consumi e negli effettivi bisogni».

Se questa è l’emergenza il soccorso è per ora inesistente al di là degli interventi temporanei e limitati del Programma alimentare mondiale. Il segretario della Fao Jacques Diouf ha chiesto, per riprendere la battaglia contro la fame soltanto per uno degli aspetti che la riguardano, un aiuto mondiale di 44 miliardi di dollari l’anno. Una cifra non piccola certamente ma che è un sesto di quanto l’Europa spende per proteggere la propria agricoltura, un trentesimo di quanto il mondo spende in armamenti e addirittura uno spicciolo davanti ai seimila miliardi che i governi del pianeta  hanno pagato per salvare il sistema bancario dal fallimento.

Questa volta Diouf non ha voluto mettere la cifra nemmeno nel documento finale ben sapendo che anche quando i governi si impegnano raramente poi eseguono le decisioni. Per fare un solo esempio che ci riguarda da vicino al vertice Fao del 2002 il presidente Berlusconi promise di portare gli aiuti allo sviluppo del nostro paese all’1% del Pil.

Dopo sette anni il nostro aiuto è pari a solo un decimo di quella promessa. Così del resto anche quell’aiuto dello 0, 7 % del Pil che i paesi sviluppati si impegnarono a versare allo sviluppo in sede Onu addirittura quaranta anni fa è già molto se in pratica raggiunge la metà di quella parola data allora. Il dramma della fame nel mondo è una invocazione drammatica che non trova ancora un suo 118 , una direzione di omogeneizzazione delle varie politiche statali, un centro di decisione e di coordinamento degli interventi,  un punto di raccolta e di controllo delle iniziative.

La Fao, pur con i suoi quattromila dipendenti e tremila consulenti, è incapace di assumere decisioni esecutive. I governanti dei paesi ricchi ormai snobbano i vertici Fao tenendosene addirittura alla larga. I governanti del Terzo Mondo ci vanno solo per accusare gli altri. I primi tacciono sul loro egoismo. I secondi sulla loro corruzione. Forse solo un G20 dedicato esclusivamente al tema potrebbe a questo punto rilanciare una lotta che si sta esaurendo. Ma fare vertici solo per fare il calcolo terribilmente facile di quanti muoiono di fame ogni giorno e ogni ora significa limitare alla demografia del dolore ciò che invece dovrebbe essere impegno e iniziativa. Al limite a suggerire l’idea che sia solo un destino biologico ciò che invece è responsabilità e colpa.