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Ricostruire l’Unione sulle macerie dell’Euro

Anche se non lo era, ogni italiano non addottorato alla Bocconi si sentì subito più povero perché fin da piccolo la sua mamma gli aveva insegnato che essere più povero voleva dire prima di tutto avere meno soldi. Poi ci fu la furbata dei negozianti che, lì sul bancone, più che in banca, fissarono pro domo sua il cambio della nuova moneta. In quattro e quattrotto fecero l’euro uguale a mille lire e la pizza Margherita del sabato sera schizzò subito dalle seimila lire ai sei euro, cioè alle dodicimila lire. Perfino per ragioni linguistiche l’euro appariva indisponente. A differenza di quasi tutte le altre quarantamila parole del vocabolario questa parola, fatta quasi tutta di vocali scure come un urlo di guerra, non voleva essere piegato al plurale. Le massaie, all’inizio, davanti alla cassiera del supermercato, avevano cercato disperatamente di declinarla anche nel numero: «Quanti euri?». Ma si erano sentite gelare. Insomma anche nel campo semantico, dove i linguisti ci insegnano che si creano le sensazioni più irrazionali e profonde, la nuova moneta restava legata, oltre che all’idea del triste, all’idea del singolare, dell’uno che è poi la punta estrema di quella rarità che, per chi pensa appunto in parole povere, vuole dire miseria. E l’antipatia popolare, come dimostrarono a suo tempo le inchieste condotte nei vari paesi, era ampiamente diffusa anche fuori d’Italia.

Tuttavia gli economisti allora quasi all’unanimità si erano affrettati a definire quei giudizi come impressioni popolari non corrispondenti alla realtà. Per dirla con la loro lingua erano i famosi «idola fori» che, secondo Bacone, il filosofo, in questo caso il filosofo del ramo che è l’economista, ha il compito di disprezzare prima ancora di demolire.

Ma ora, soprattutto da un paio di anni, contro l’euro si stanno muovendo sempre più numerosi proprio gli economisti. Gli euroscettici possono ormai mettere in bella mostra fra gli avversari dell’euro ben sei premi Nobel dell’economia. Fra loro il più stagionato e in fondo prevedibile è stato Milton Friedman, il famoso liberista considerato uomo di destra e che aveva già attaccato l’euro prima di morire otto anni fa. Ma poi è arrivato Paul Krugman, professore a Princeton, considerato un neokeynesiano e quindi di sinistra, che a proposito dell’Europa ha scritto su L’Express nel novembre 2012: «La sua moneta è un progetto campato in aria e lo resterà fino alla creazione di una garanzia bancaria europea».

Poi è venuto un altro Nobel ancor meno classificabile come uomo di destra. Si tratta del professore Joseph Stiglitz, famoso per le sue battaglie di fiancheggiatore assennato dei noglobal a favore del paesi poveri contro il Fondo Monetario internazionale e la globalizzazione. Stiglitz nel marzo dell’anno scorso ha scritto su Keynes blog: «L’euro o cambia oppure è meglio lasciarlo morire». E subito a ruota ecco un Nobel ancora più famoso: il professore di Harward di origini indiane Amantya Sen, noto in tutto il mondo per la sua battaglia tesa a misurare la crescita dei vari paesi non in base alla loro ricchezza, ma in base alla nutrizione, alla salute, alla longevità, alla istruzione e ai diritti dei propri cittadini. Di Sen nel maggio dell’anno scorso è uscita sul Corriere della Sera un’intervista dal titolo : «Che orribile idea l’euro». Ed ecco ancora professori meno famosi, ma ancora più categorici. Nel dicembre scorso il Nobel della Università di Cambridge James Mirreles viene a dire all’università Ca’ Foscari di Venezia: «Guardando dal di fuori dico che l’Italia non dovrebbe stare nell’euro». Quasi contemporaneamente a Londra un altro Nobel, il cipriota Christopher Pissarides, che pure a suo tempo aveva spinto la sua patria ad entrare nell’euro, ha detto: «L’unione monetaria ha creato una generazione persa di giovani disoccupati e dovrebbe essere dissolta».

E soprattutto negli ultimi due anni, in concomitanza con la grande crisi economica che ha scosso l’Europa e in particolare paesi come la Grecia, la Spagna, il Portogallo e la stessa Italia, sono apparse anche manifestazioni e pronunciamenti di gruppo, quasi che i contro ed i pro euro si organizzassero ormai in due scuole di pensiero e in sempre più compatti schieramenti. Nel luglio 2012 Wilfson Ecomomics Price, il premio organizzato ogni anno a Londra dall’omonimo lord conservatore, ha messo in palio la bella sommetta di 250 mila sterline per il miglior studio su come uscire dall’euro. Il premio è stato vinto dall’economista Roger Bootle ma, al di là del vincitore e della sua ricetta (la Grecia dovrebbe uscire dall’euro zitta zitta un venerdì pomeriggio dopo che le borse sono chiuse tornando a scambiare un euro con una dracma), è impressionante il numero dei partecipanti al concorso: ben 425. Nel dicembre 2012 è apparso su Le Monde un appello a uscire dall’euro firmato da ben dodici personalità francesi fra cui sette noti professori universitari.

Nel maggio dell’anno scorso sul sito finanziario Blomberg è apparso un appello dell’economista britannica Brigitte Granville, dell’ex presidente della Confindustria tedesca Hans Olaf Henkel e del politico ed economista polacco Stefa Kadolec con lo stesso invito. Nel settembre scorso è apparso in Germania un appello analogo contro l’euro firmato da dodici economisti tedeschi di cui la maggior parte usa argomentazioni opposte a quelle in genere correnti e cioè lamentando, dal punto di vista di Berlino, la troppa accondiscendenza di Bruxelles verso i paesi indebitati.

E alle preoccupazione economiche si sono aggiunte nell’ultimo anno le preoccupazioni politiche per l’acutizzarsi all’interno della zona euro di un conflitto di interessi sempre più duro fra paesi del Nord e paesi del Sud e soprattutto fra la Germania e i paesi sempre più impoveriti che danno sul Mediterraneo. L’Europa, nata per pacificare e per unire, finirebbe così per ricreare attraverso l’euro, nuovi nazionalismi e per dividere. L’allarme sulle tensioni che si stanno accumulando di nuovo intorno alla Germania per ben la terza volta in cento anni è stato lanciato nel febbraio dell’anno scorso in un lungo saggio dall’economista spagnolo Alberto Montero Soler ed è stato ripreso dall’intellettuale francese François Heisbutg in un libro uscito recentemente dal titolo significativo La fine del sogno europeo.

Eppure, dopo aver passato in rassegna quello che ormai appare come un esercito di antieuro dalle lingue più diverse, dalle uniformi di destra e di sinistra, dal temperamento catastrofico o riformista, ci si accorge che ci si trova più davanti a delusi e a convertiti che a miscredenti nati, più ad eretici che a infedeli. Gente che non ce l’ha con l’Europa, ma con l’euro. E in fondo nemmeno con l’euro ma con questo euro. Sono persone che confessano addirittura di odiare questo euro perché amano l’Europa. È il caso, ad esempio, di Steve Ohana, professore alla business school Escp Europe, che ha scritto un libro ancora fresco di stampa dal titolo significativo Disobbedire per salvare l’Europa. Lo stesso Heisburg citato prima ammette che la soluzione di uscire dall’euro «non è formidabile, ma è spaventevole».

Per alcuni euroscettici non mancano i motivi di condannare l’euro fin dalla sua nascita, anche perché l’inizio dell’euro coincide con l’inizio del declino economico dell’Europa. Ma gli antichi consideravano l’argomentazione post hoc ergo propter hoc (dopo di questo quindi a causa di questo) come il tipico sofisma. Oltre tutto l’ingresso dell’euro per molti paesi è venuta a ridosso della scelta, anche essa determinante e sconvolgente, della globalizzazione (per l’Italia ad esempio l’anno dell’ingresso nell’euro è anche l’anno di apertura al commercio con la Cina). Inoltre se gli antieuro citano l’esempio della Gran Bretagna, che è rimasta fuori dell’euro, come un paese fortunato, non è detto che negli ultimi tempi l’economia inglese sia molto da invidiare.

In realtà i delusi dell’euro si sono moltiplicati durante la grande crisi degli ultimi sei anni e stanno diventando legioni proprio ora quando si vede che gli che Stati Uniti, la principale vittima della crisi, hanno ricominciato a crescere fortemente ed hanno già ridotto notevolmente la loro disoccupazione come del resto fa il Giappone che ha un debito doppio dell’Italia. Nel frattempo la cura di austerità da cavallo imposta da Bruxelles alla Grecia ha invece triplicato i disoccupati e ha mandato un milione e trecentomila discendenti del prode Achille a mangiare alla mensa dei poveri. Mentre gli altri paesi fuori dell’euro ripartono anche con la riduzione della occupazione, nell’eurozona siamo ancora a lottare con la recessione e abbiamo ancora la disoccupazione in aumento mentre, segno ancora più funesto, anche i timidi segni di ripresa fanno intravedere una economia che torna a crescere, ma senza nuova occupazione. Una economia cioè che ci permetterà semmai di tornare a guadagnare in banca e in borsa, ma non andando a lavorare o facendo impresa individuale.

Il bersaglio reale non è quindi l’euro, ma la politica di austerità della cosiddetta troika (Banca Centrale Europea, Fondo Monetario Internazionale, Commissione Europea). L’euro, moneta troppo protetta dall’inflazione, è diventata una moneta troppo forte e danneggia al cambio le importazioni dei paesi dall’euro. La restrizione alle spese e l’aumento della tassazione nei paesi dell’euro in crisi hanno ridotto i consumi interni, hanno aumentato la disoccupazione e paradossalmente aumentato il debito con la recessione (alla fine dell’anno scorso, con la diminuzione di quasi il due per cento del nostro reddito nazionale, solo per questo il nostro debito è passato dal 120 su 100 a 122 su 98).

Eppure la grande crisi ha riportato alla ribalta l’economia neokenesiana per cui la ripresa della produzione e della occupazione può avvenire solo con l’aumento della spesa pubblica. Ed è quello che Obama non solo ha fatto ma fatto con successo anche a costo di stampare nuova carta moneta. Nei paesi dell’euro invece nemmeno di fronte ad una crisi drammatica è possibile aumentare la spesa pubblica per i vincoli posti al debito pubblico e soprattutto per il limite del tre per cento posto al disavanzo. Questo vincolo è stato reso ancora più iugulatorio con l’obbligo introdotto due anni fa di chiedere il permesso a Bruxelles anche se si vuole aumentare un disavanzo che è al di dotto di tale percentuale. Così anche Renzi dovrà andare a Bruxelles a chiedere l’autorizzazione ad aumentare il nostro disavanzo dal 2,6 per cento attuale al 3 per cento necessario se vuole mantenere la promessa di dare 80 euro in più al mese a chi guadagna meno di 1.500 euro. Di fronte a questi vincoli perfino Romano Prodi, colui che di fatto è considerato il Mosè che quindici anni fa portò l’Italia nell’euro attraverso un duro esodo fatto di sacrifici e digiuni, si è ribellato e ha detto in una intervista nel novembre scorso: «Il 3% ha senso in altri momenti, in altri sarebbe giusto lo 0, in altri il 4 o il 5». In altri termini un vincolo al disavanzo ha senso quando c’è inflazione, ma non quando c’è stagnazione. «Non è stupido che ci siano i parametri. È stupido che rimangano invariati» ha concluso giustamente il nostro ex-presidente del consiglio. E molti pensano che solo con questa precedenza data alla società e all’uomo rispetto ai dogmi scritti su una Carta ingiallita di venti anni si può salvare l’euro e anche l’Europa.

Ma il fatto è che questa battaglia politica è tutta da inventare e da organizzare ricominciando quasi da capo perché l’euro ha compiuto oltre ad una devastazione economica anche una devastazione politica, anche se di questa poco se ne parla. Da quando è cominciata la grande crisi solo nella settimana scorsa finalmente al parlamento europeo sono state votate due mozioni che criticano la politica di austerità della troika. Ma nessuna delle grandi forze politiche presenti sulla scena europea sembra più ricordarsi bene da dove viene e sapere dove va. Fa impressione sentire il socialista Martin Schultz, probabile prossimo presidente della Commissione europea, difendere a spada tratta il più duro rigorismo di Bruxelles sull’euro. Quanto al partito popolare europeo, che non a caso sembra condannato alla sconfitta alle prossime elezioni europee, anziché limitarsi agli omaggi commemorativi, sarebbe bene che cominciasse a domandarsi che cosa rimane, dentro questa politica economica di austerità estrema motivata dall’euro, del Codice di Malines e del codice di Camaldoli o, se vogliamo, del diritto del lavoro dell’articolo 4 della nostra costituzione che da quelle tavole della legge della rinata democrazia cristiana del dopoguerra deriva. Ormai nei rari documenti del partito popolare si parla quasi esclusivamente di economia di mercato e, quando si vuole essere generosi, del capitalismo in salsa tedesca chiamato «economia sociale di mercato».

E purtroppo sull’euro il partito popolare ha poche idee e anche confuse. C’è la Merkel considerata come il Santuffizio del rigore dell’euro, c’è Berlusconi che ha i suoi giorni in cui pensa anche di uscire dall’euro, c’è il leader ungherese Victor Orban che dice francamente che a lui interessa l’Ungheria e non gli importa niente dell’Europa, c’è stato perfino un Magdi Allan che tutti i giorni è in campagna per fare uscire l’Italia dall’euro. A suo tempo, almeno, Schuman, De Gasperi, Adenauer, Spaak avevano più idee in comune anche non si erano nemmeno azzardati a fare un partito in comune.