«Il nome della rosa»: lettera aperta a Franco Cardini

Egregio professor Cardini, è con una certa apprensione che mi accingo a scrivere una lettera a lei, che ho sempre ammirato e stimato come storico e intellettuale e che ammiro e stimo tuttora, per dirle che non condivido tutto quello che ha scritto nel suo articolo su Il nome della rosa di Umberto Eco, pubblicato su «Toscana Oggi» del 24 marzo.

Premetto che sono una giornalista pubblicista che collabora con alcune testate giornalistiche fra cui l’edizione di San Miniato di «Toscana Oggi», «La Domenica». Sono anche un’appassionata di storia, quindi ho letto anche alcuni libri suoi e del suo amico Jacques Le Goff, ma non sono una storica.

Lei ha scritto che «Il nome della rosa è un romanzo ammirevole… una summa del sapere europeo e universale… ma che difficilmente può essere compreso nell’analfabetismo di ritorno da cui l’Occidente è afflitto». Ed è vero, l’Occidente è effettivamente oppresso, tormentato e travagliato da questa sorta di analfabetismo di ritorno, non molti leggono libri e la scuola non è evidentemente più in grado di offrire gli stimoli giusti, tranne alcune eccezioni.Nel suo dottissimo articolo lei aggiunge che se solo un dieci per cento avesse comprato, letto e capito il libro di Eco, il mondo oggi sarebbe diverso. Ipotesi con la quale concordo pienamente.

Ma allora io mi chiedo e le chiedo, cosa si può fare al riguardo? Lei ha aspramente criticato la fiction televisiva, sicuramente come dice lei sarà piena di errori e anacronismi, ma è comunque un prodotto che tratta un argomento importante che potrebbe stimolare le persone che l’hanno vista e magari qualcuno potrebbe comprare il libro, leggerlo fino all’ultima pagina e perfino capirlo. Tanti anni fa la Rai ebbe il merito di acculturare i suoi utenti, mettendo in scena quelli che allora si chiamavano sceneggiati, come La freccia nera di Stevenson oppure I fratelli Karamazov di Fedor Dostoevskij, inducendo così molte persone a scoprire libri che non conoscevano. Vorrei illudermi, che pur con tutte le sue inesattezze, ciò accadrà anche con la fiction Il nome della rosa.

Ma se ciò non accadesse, perché non fa qualcosa lei per aumentare il livello culturale delle persone? Troppo facile dire siete incapaci di capire perché siete semianalfabeti. In passato molti storici storcevano il naso di fronte ai libri divulgativi scritti da Indro Montanelli, che sicuramente non era uno storico, ma un grande giornalista che con i suoi testi scritti con uno stile appunto giornalistico, chiaro e più semplice, è riuscito a far capire e a far conoscere la storia d’Italia agli italiani.

Perché grandi studiosi e storici come lei, insieme a bravi giornalisti, non confezionano dei testi per una alfabetizzazione storica degli italiani?

In fondo, professore, il concetto cristiano «chi più ha più deve dare» non si riferisce solo ai beni materiali, ma anche spirituali e intellettuali. E lei oltre che un intellettuale è anche un professore e come tale sarebbe bello che desse un po’ del suo sapere agli altri, al di fuori dei suoi obblighi istituzionali, nelle modalità giuste affinché le persone possano recepirlo e affinché il nostro paese un domani possa essere migliore.

Donatella Daini

Caro direttore, ho molto apprezzato la lettera onesta e appassionata della signora Daini, alla quale ovviamente invio per conoscenza la mia risposta che però – per corretta consuetudine giornalistica quando si tratta di «lettere aperte» – rivolgo direttamente a lei.

Ce ne fossero, di lettori come la signora Daini! Alla quale però debbo indirizzare un piccolo appunto, citando un ampio brano della sua lettera e chiamando lei stesso, caro direttore, a testimone.

«…perché non fa qualcosa lei per aumentare il livello culturale delle persone? Troppo facile dire siete incapaci di capire perché siete semianalfabeti. In passato molti storici storcevano il naso di fronte ai libri divulgativi scritti da Indro Montanelli, che sicuramente non era uno storico, ma un grande giornalista che con i suoi testi scritti con uno stile appunto giornalistico, chiaro e più semplice, è riuscito a far capire e a far conoscere la storia d’Italia agli italiani. Perché grandi studiosi e storici come lei, insieme a bravi giornalisti, non confezionano dei testi per una alfabetizzazione storica degli italiani? In fondo, professore, il concetto cristiano “chi più ha più deve dare” non si riferisce solo ai beni materiali, ma anche spirituali e intellettuali. E lei oltre che un intellettuale è anche un professore e come tale sarebbe bello che desse un po’ del suo sapere agli altri, al di fuori dei suoi obblighi istituzionali, nelle modalità giuste affinché le persone possano recepirlo e affinché il nostro paese un domani possa essere migliore…».

Sono un po’ imbarazzato a doverlo dire, dal momento che la signora afferma di nutrire stima e ammirazione per me: dal che inferisco che conosce almeno in parte la mia produzione. La invito ad approfondire la sua cognizione in merito: scoprirà che io sono tra i pochi che da anni s’impegna moltissimo, e seriamente, non solo nel campo delle ricerche scientifiche le quali sono la mia professione, ma anche in quello della letteratura divulgativa: sia pure, spero, di una certa qualità.

Ebbene: proprio l’osservazione della signora Daini conferma purtroppo il dato di fatto che la buona divulgazione storica e scientifica, in Italia, non è non solo apprezzata, ma nemmeno sostenuta quanto dovrebbe essere. Dai giornali e dalle riviste cattoliche («Avvenire», «Luoghi dell’Infinito», «Toscana Oggi» stessa) ai periodici di buona divulgazione storica («Medioevo», per esempio) alle emissioni televisive dedicate appunto alla divulgazione e all’approfondimento (Passato e Presente diretto da Paolo Mieli, ad esempio), io sono una presenza fissa: secondo qualcuno, perfino ossessiva. Ebbene, se il mio messaggio e quello di tanti altri amici e colleghi più bravi di me non arriva al «grande pubblico», i casi sono due: o esso è davvero pochissimo attento, pochissimo informato e in ultima analisi incapace di scegliere, oppure i media accordano alla divulgazione culturale davvero uno spazio minimale, trascurato, che forse consapevolmente non intendano far arrivare alla maggioranza della gente. La quale a sua volta, a differenza di quanto forse faceva anni or sono in un contesto di livello medio formalmente più basso, oggi non è più in grado d’intendere messaggi appena un po’ più elevati, non li capisce, non li apprezza.

Vogliamo fare una riprova, direttore? Si ricorda ad esempio (per quanto lei fosse in realtà molto giovane, del «minivarietà» del Quartetto Cetra intitolato Biblioteca di Studio Uno? Parodizzando le canzoni allora alla moda – si era fra Anni Sessanta e Anni Settanta –, quel complesso vocale «riraccontava» i capolavori letterari, dall’Odissea ai Quattro moschettieri e a Guerra e pace. E il pubblico – fra il quale pochi erano i diplomati, pochissimi i laureati – seguiva perfettamente, coglieva tutte le allusioni, si divertiva un sacco: il che conferma che conosceva direttamente o indirettamente anche i classici oggetto delle parodie. Proviamo a proporre adesso un «divertimento» del genere: a gente magari diplomata e laureata (lasciamo perdere i politici) che ignora perfino grammatica e sintassi della nostra lingua. A gente abituata solo alle sciape volgarità di roba come L’isola dei famosi, che nel suo genere non è nemmeno la cosa peggiore. Il nome della rosa televisivo era pieno di errori e di sciocchezze, talune molto gravi: ma se ne sono accorti in pochi, e alla maggior parte di chi se ne è accorto la cosa non interessava per niente.

Caro direttore, il punto è che la mia generazione e quella successiva alla mia hanno fallito. I ragazzi del Flower Power e i «sessantottini» hanno fatto buca. Abbiamo fallito, come insegnanti e come genitori. Sognavamo la scuola di massa, l’università di massa, come strumento per l’ascesa politica e culturale dei ceti subalterni. L’abbiamo ottenuta a un prezzo terribile: il crollo dell’autorevolezza del sapere, l’inflazione dei titoli di studio ma anche la caduta a picco dei contenuti culturali e scientifici di essi tanto medi quanto superiore e universitario. Abbiamo sparso a piene mani un sapere semplicizzato e squalificato, rinunziando a qualunque serio e rigoroso controllo e tollerando perfino la mancanza di rispetto.

Con ciò noi insegnanti abbiamo deprezzato il nostro ruolo non solo guadagnandoci sfiducia e dileggio, ma anche determinando il sorgere di una generazione di analfabeti fieri di esser tali, la quale non solo è ignorante ma proclama fieramente e pubblicamente – perfino in tv – il suo diritto di esser tale recitando il mantra pseudodemocratico secondo il quale chi non ha cultura ha il diritto di non averla e vale esattamente come chi ha tre lauree e conosce quattro lingue. Pubblici funzionari, politici e amministratori hanno assistito a questo scempio progressivo senza alzare un dito, anzi sovente incoraggiandolo.

Mio nonno era un operaio anarchico e analfabeta. Ma a volte, quando passeggiavamo per strada, mi stringeva la mano nella sua e mi diceva, indicandomi col mento un passante: «Vedi? Quello è un professore!…». Giorni fa, in un ambiente di un certo tono, ho udito con le mie orecchie un distinto signore dire a un altro: «Il professore del mio ragazzo? Ma che cosa vuoi che valga uno che prende in un mese quello che io do a mio figlio ogni settimana per andare a divertirsi!». Ecco, direttore: a questo punto è la notte.

Franco Cardini