Quando si svende la nostra autentica eredità per un piatto di lenticchie

Caro direttore, pur essendo fiorentino di San Frediano e fiero di esserlo, sono ormai da qualche tempo cittadino di Bagno a Ripoli intento a riscoprire con molte passeggiate lo straordinario territorio della «riva sinistra» dell’Arno, con i suoi straordinari panorami sia pur qua e là minacciati dal degrado e con i suoi tesori. Pochi fiorentini sanno che, a parte la villa di Bianca Cappello, il monastero di Rosano e le gualchiere, quest’area è ricchissima di piccoli e grandi tesori naturali e artistici. Che sono però spesso in pericolo: mancano forse i fondi per un’adeguata manutenzione, quasi certamente anche le forze umane.

Rimanendo nel campo ecclesiale che in questa sede giornalistica c’interessa in modo particolare, tra Candeli, Villamagna e Rosano la vasta area corrispondente a cinque parrocchie – comprendenti piccoli ma preziosi santuari come San Michele a Compiobbi e San Gherardo a Villamagna – è affidata a un solo parroco, un ottimo sacerdote congolese, che ce la mette tutta ma è davvero sottoposto a una prova durissima. In questo momento, e da un po’ di tempo, nella zona sud di Piazza del Duomo si sta restaurando quell’autentica gloria di Firenze ch’è la trecentesca loggia del Bigallo, all’angolo di Via Calzaiuoli, attualmente sede della Confederazione nazionale delle Misericordie d’Italia. È un monumento carissimo ai fiorentini e che da tempo i turisti più attenti lamentavano di non poter visitare liberamente: ma pare che i lavori siano ormai quasi arrivati a compimento. Il che, però, si traduce per noialtri di Bagno a Ripoli in una nuova frustrazione. Fuori dell’abitato, lungo il tracciato della vecchia Provinciale Aretina – per intenderci, dopo l’Arco del Camicia –, si trova il quattrocentesco ospedale del Bigallo, un «luogo detto» dal quale appunto prese nome nel drammatico anno 1244 la «Compagnia del Bigallo» fondata dal domenicano san Pietro Martire. Divenuto convento di clausura nel Cinquecento e quindi parcellizzato in una serie di abitazioni private, il complesso è attualmente proprietà del comune di Bagno a Ripoli: e il silenzio che circonda l’esistenza di questo venerabile complesso la dice lunga da solo sul fatto che le forze comunali sono incapaci, da sole, di avviare un serio e radicale lavoro di recupero. Eppure si tratterebbe di un’operazione culturalmente e turisticamente – perfino mediaticamente – straordinariamente meritoria.

Caro direttore, qui si parla tanto di radici e d’identità, ma poi si svende la nostra autentica eredità per un piatto di lenticchie: lenticchie, oltretutto, gustate poi da chissacchì, non certo dai cittadini. Tra l’entrata sud dell’Autosole e Candeli negli ultimi tempi sono sorti d’incanto due o tre sontuosissimi hotels esclusivi, ma noi ci stiamo giocando la minuscola, deliziosa cupola michelozziana dell’oratorio dell’Annunziata in Via della Nave, ab immemorabili non visitabile, mentre le gualchiere tra Rosano e Rignano vanno in malora e ci siamo già giocati il convento del Paradiso. Se non c’interessa il nostro passato artistico e culturale, dovrebbe almeno interessarci il nostro presente turistico. Spedisco copia di questa lettera anche al neoassessore alla cultura del bravissimo sindaco Casini, che è stato riconfermato a furor di popolo – e meritamente – sindaco di Bagno a Ripoli. So di procurargli lavoro e seccature: ma credo e spero che me ne sia riconoscente.

Franco Cardini

Nel messaggio che accompagna questa lettera, il professor Cardini si definisce «un vecchio gregario» di questo giornale. Mi verrebbe da dire: averne di gregari così! In realtà Cardini, per rimanere nella metafora ciclistica, è un capitano, uno di quelli capaci di scatti in salita da lasciare sul posto gli avversari. E visto che parla di Bagno a Ripoli, mi viene in mente un campione indiscusso nello sport e nella vita come Gino Bartali, nato da quelle parti, a Ponte a Ema. Ai tempi delle gare gli avversari lo chiamavano Gino «il pio», ma anche «l’assassino». Lo apostrofavano così per la sua militanza nell’Azione cattolica e per i continui scatti in salita che spezzavano le gambe ai compagni di fuga. Insomma, Cardini è il nostro Bartali, una delle nostre firme di punta, che insieme ad altre, fanno onore e danno spessore a questo giornale, anche con interventi a volte scomodi, come quello di questa settimana sulle pagine culturali di «Inventario». Tutto questo per dire che accogliamo sempre più che volentieri i suoi contributi nelle certezza che sono dettati da conoscenza, competenza e, se anche polemici, da una grande onestà intellettuale e dalla ricerca della verità. In redazione ripetiamo spesso che Cardini si prende «a scatola chiusa». Per cui non posso che condividere quanto l’amico professore sostiene in questa lettera soprattutto a proposito delle nostre radici, della nostra identità e della nostra autentica eredità spesso svenduta.

Andrea Fagioli