Quelle immagini di violenza riprese con il cellulare e diffuse in rete

Caro direttore, nei giorni scorsi sono rimasto colpito da due notizie: quella che arrivava da Manduria in provincia di Taranto e quella che arrivava da Viterbo. Nel primo caso un uomo di 66 anni con disturbi psichici è morto in seguito alle violenze fisiche e psicologiche subite da parte di un gruppo di ragazzini. Dico ragazzini perché la maggior parte non ha compiuto nemmeno diciotto anni. Eppure sono stati autori di violenze che qualcuno ha definito stile Arancia meccanica. La vittima, secondo alcuni vicini di casa, era diventata bersaglio dei bulli sin dal 2012. E non si capisce perché nessuno sia intervenuto. Nel secondo caso una donna di 36 anni è stata violentata da due giovani di 19 e 21 anni. Che poi fossero o meno di Casapound mi interessa il giusto. Per me la violenza non ha colore. Anche perché nel primo caso non c’era sicuramente nessuna appartenenza politica. Quello che invece mi fa pensare e  mi preoccupa è che in tutti e due i casi le violenze sono state riprese con i cellulari e poi addirittura diffuse tra amici e parenti. A me questo sembra incredibile. Invece, ci dicono che è tutto vero. Allora mi chiedo: ma è possibile che siamo arrivati a questo punto?

Paolo Ricci

Sì, caro Ricci, siamo arrivati a questo punto. Anche a me sembra incredibile. Eppure è così. Sono d’accordo che la violenza non ha colore, anche se quella dei due componenti di Casapound ha l’aggravante di essere stata compiuta da giovani impegnati politicamente, sia pure in un movimento più che discutibile e non estraneo ad azioni violente. Uno dei due addirittura con una carica pubblica, quella di consigliere comunale. Per di più hanno approfittato di una giovane simpatizzante del movimento violentandola in ambienti dello stesso movimento.

Detto questo, provo a condividere una riflessione su quel punto che la fa pensare e la preoccupa, caro Ricci, ovvero il fatto che in entrambi i casi i responsabili delle violenze abbiano ripreso e diffuso le immagini delle loro «prodezze».

Proprio nel numero scorso, Vera Gheno, che di queste cose se ne intende, scriveva che «è di fatto impossibile pensare di immettere materiale in qualsiasi contesto della rete (per esempio, un gruppo WhatsApp, un sito web o un profilo social magari privato) e pensare che rimanga solamente là dentro».

In questo senso verrebbe da pensare che ci troviamo di fronte a degli analfabeti digitali, che non hanno coscienza delle potenzialià e al tempo stesso dei pericoli dello strumento che hanno tra le mani, considerato ormai una protesi naturale senza più distinzione tra reale e virtuale. Ma non solo: sembra non si rendano nemmeno conto di raccogliere così nel proprio telefonino le prove del proprio reato.

Questa è un’ipotesi. Se invece non sono degli analfabeti digitali, vuol dire che sono persone che hanno bisogno di condividare anche i misfatti per vantarsene con gli altri, per dimostrare di essere qualcuno non avendo, nella loro pochezza, altro modo per dimostrarlo.

Ancora più inquietante, soprattutto nella vicenda di Viterbo, è che tra i destinatari dei video ci fosse persino il padre di uno dei due giovani che anziché denunciare il figlio gli ha consigliato di cancellare tutto e di far sparire il cellulare. A parte l’ignoranza digitale di cui sopra, qui siamo di fronte non solo alla resa incondizionata dal ruolo di genitore, ma addirittura alla complicità con i reati del figlio.

Andrea Fagioli