Beatrice. “E ancora ti ricordo”

Come potrei mai chiamarti Bice, il nome con cui usava chiamarti la tua nutrice e con il quale – ma per amor tuo – chiamavo una gatta ch’era mia compagna di stanza nel castello di Poppi, tanti anni or sono?

È passato tanto tempo, da allora. Certo, non sei più la bambina di otto anni del nostro primo fugace incontro, quando non mi notasti nemmeno. Eri così fragile e luminosa in quella primavera di quarantasett’anni or sono mentre incedevi a piccoli passi, chiusa in quel casto abitino color fiamma, la manina serrata nella bella diafana mano di tua madre. Pensai subito ai rossi cherubini, risplendenti di saggezza divina. E saggiamente tu non mi guardasti.

Uscisti dalla mia mente, allora. O meglio, ci entrasti indelebilmente senza più andartene, ma io non lo sapevo. Eri l’Amore, dolcissimo tiranno: e ci eravamo incontrati nella Festa degli Amanti, il fiorito e selvatico Calendimaggio. Nove anni dopo, quando t’incontrai per la seconda volta, ero ormai un giovane che avrebbe potuto già essere armato cavaliere; e ancora non lo sapevo, ma di lì a pochi mesi avrei dovuto davvero misurarmi in battaglia, là della piana di Campaldino, e il ricordo di quella giornata mi gela ancora nella ossa.

Ero un giovane ancora vergine, forse un po’ in ritardo con le esperienze della mia età: pensavo ancora come un ragazzo e la cosa che più desideravo sarebbe stata un bel cavallo da guerra nero e dagli occhi rossi di fuoco. Ma a volte le forme di una donna, fugacemente ammirate, mi procuravano uno strano turbamento: e il buon rettore della mia chiesa parrocchiale di San Martino del Vescovo mi ammoniva che ciò era male e mi diffidava dal toccarmi, in quei momenti, là dove le mie mani per istinto correvano…

Tu no. Tu, a diciassette anni, eri già una giovane dama sposa a quell’odioso messer Simone dei Bardi, di una famiglia nemica della mia, gli Alighieri, come della tua, i Portinari. Peraltro sapevo bene che i miei genitori erano già in parola con un’altra famiglia di guelfi neri, gli avversari di noialtri bianchi. Sapevo che volevano farmi sposare una Donati che non avevo mai visto.

Quando t’incontrai per la seconda volta, eri in compagnia di due dame più anziane di te che mi guardavano con aria di sfida impudica. Tu no: procedevi pallida e altera, chiusa in una lunga casta veste d’un candore abbagliante; ma più candida ancora era la pelle del tuo collo che s’intravedeva lungo il velo. Sentii il cuore che mi balzava nel petto e che mi saliva in gola: un rossore violento m’invase, un sudore gelato fiorì su tutta la pelle del mio corpo. Ti salutai silenzioso, con un goffo inchino, trattenendo l’impulso a inginocchiarmi. Allora avvenne il miracolo. Tu piegasti la testa verso di me, sorridesti appena rispondendo al mio saluto.

Corsi subito a casa, e in un mio scrittarello giovanile che ha avuto una qualche fortuna, la Vita Nova, riferii che presa una tavoletta disegnai la figura di un angelo in onor tuo, angiola giovanissima; quindi, addormentatomi, sognai di te, nuda, e del mio cuore mangiato. Non è vero, sai. Non ti disegnai in forma angelica. Non mi addormentai. Nuda sì, ti vidi davvero, con gli occhi della fantasia e del desiderio: e non oso confessare quel che mi accadde…Eppure, se ti desideravo carnalmente, il mio desiderio era la tempo stesso castamente elevato. Avevo due cari amici, a quel tempo: Guido Cavalcanti e Lapo Gianni. Sognavamo l’avventura cavalleresca e la gloria poetica. Amavamo i trovatori provenzali, con le loro descrizioni della natura fiorita e selvaggia in primavera; i poeti siciliani, dai versi forti e gentili ispirati alle canzoni d’amore arabe che i pescatori della loro terra continuavano a recitare; infine quelli della nostra stessa generazione, quelli che avevano imposto la moda del «Dolcestilnovo» capace di tradurre in delicata poesia la prosa concettosa e sottile dei trattati filosofici. Con Guido e Lapo ci scambiavamo componimenti poetici anonimi ed avevamo fondato una società giurata di eterna amicizia che denominavamo «Fedeli d’Amore». Una volta avevo scritto un sonetto, Guido, i’ vorrei, dove immaginavo che un mago cortese e potentissimo costruisse per noi un vascello incantato, in grado di volare sulle nubi: e noi saremmo saliti a bordo con le nostre immaginarie amanti, monna Lagia e monna Vanna e la mia Beatrice.

«Mia», poi… mio caro dolce sogno d’adolescente, in realtà io non sono sicuro di averti mai vista neppure una volta, né a otto anni vestita di sangue e di fuoco, né a diciassette adorna di luce e di neve. Avevo sentito parlare di te, certo. Sapevo del tuo matrimonio combinato dai Bardi e dai Portinari, semiavversari politici, come lo eravamo noialtri Alighieri con i Donati in quanto noi e i Portinari eravamo guelfi bianchi, loro e i Bardi guelfi neri. Alleanze combinate in vista di futuri nemici comuni. La mia sposa, la cara e dolce Gemma Donati che non ho mai amato e che mi ha dato un sacco di figli, era stretta parente del feroce messer Corso, quello che quando al mattino correva a briglia sciolta per la città rovesciando i banchi dei venditori di cacio e di frutta i suoi seguaci salutavano al grido di «Viva il Barone!»; e anche del mio semiamico Forese, col quale intrattenevo uno scambio di sonetti reciprocamente satirici; e, ancora, della bella e virtuosissima Piccarda.

Ma io in realtà non ti amavo affatto, monna Bice de’ Bardi. Forse non ti ho mai nemmeno vista una volta. Amavo l’Amore, l’idea della Donna Angelicata, e per questo avevo rivestito il suo fantasma gentile delle tue forme ignote. Vivesti una vita breve e tutti ti avrebbero dimenticato se non avessi dato il tuo nome alla Dama dal velo candido cinto di lauro, dalla veste del color di fiamma viva, dal manto di lucente verde smeraldino – i tre colori della Trinità: il Bianco della Fede, il Rosso della Carità, il Verde della Speranza – che ho incontrato nel Paradiso terrestre e che mi ha guidato nel Paradiso celeste fino al fulgido trono del Re dei Re.

Mia beata Beatrix, forse ti ricordo: e rammento con rimpianto di non averti mai baciata neppure una volta. Ma non c’entri per nulla, con la mia vita vera: eppure vagheggiandoti continuamente mi sono alla fine persuaso che tu fossi davvero la mia donna, l’unica della vita. Ti ho portato con me nei miei viaggi aspri e faticosi, sopportando la fatica dello scendere e del salire le case altrui e gustando il sapore fin troppo salato del pane come lo si confeziona fuori di Toscana. Un sapore che somiglia molto, troppo, a quello delle lacrime.

Quindi, grazie a me e alle mie poetiche bugie, anche tu sei entrata poi nella storia. Non avevi fatto nulla per accedere a un ruolo nella memoria dei posteri: avevi vissuto un’infanzia relegata tra le mura della tua casa, come tutte le bambine della tua età specie se di famiglia illustre; ti avevano fatta sposare a uno sconosciuto forse brutale forse distratto e quando te ne andasti da questa terra soltanto io, con un’epistola retorica ma immaginaria diretta a tutti i «grandi» della terra fiorentina (e indirizzata in realtà ai miei due amici), celebrai la tua bellezza e le tue virtù. E tracciai più tardi un glorioso ritratto di te nell’alto dei cieli. Un ritratto che, con la realtà della tua immagine, non aveva niente a che fare. Ma per il mondo tu sarai sempre quella, la fanciulla rossovestita, la giovane dama in abiti candidi, la guida paradisiaca dell’Alighieri. Che cos’è, in fondo, la verità?